lunedì 18 luglio 2011

NICARAGUA - SULLE RIVE DEL MAR DOLCE


È così che i nicaraguensi chiamano il lago che porta il nome del loro Paese, il più vasto dell'America Centrale e il decimo al mondo. Tra vulcani e piantagioni di banane, reliquie coloniali e arte di arrangiarsi, isole e barche, nella repubblica che, sfuggita alla morsa di sandinisti e contras, torna a vivere, ballare e commerciare

Arrivo in Nicaragua dal Costa Rica. Passata la 'terra di nessuno', disseminata di cartelli che avvisano della presenza di mine, un caro ricordo del periodo sandinista, la sorpresa è grande. Mi rendo subito conto che la gente - i nica - è carina e cordiale e che in Europa non si sa nulla di questo Paese. Quello che arriva sono notizie vecchie come il cucco. Fatto che non disturba, il turismo di branco è quasi inesistente e riassaporo quell’autenticità del viaggio che non provavo da tempo.


Dove sono finiti gli squali?
Il grande Lago de Nicaragua, chiamato mar dulce dai primi ficcanaso spagnoli e Cocibolca dagli indios, è il più vasto dell’America Centrale e il decimo del mondo. È la prima, impegnativa meta che mi do oltre frontiera. Nel Cocibolca sfociano ben quarantacinque fiumi e si contano oltre quattrocento isole e isolette. Gli squali che un tempo abitavano il lago risalendo il Rio San Juan dall’Atlantico, unici pescecani d’acqua dolce al mondo, però sono scomparsi, grazie a una stramaledetta compagnia di pesca cinese. Stando a una delle tante interpretazioni, gli squali, lunghi circa tre metri, così come altri pesci marini (pescispada e pesci sega), sarebbero rimasti imprigionati durante l’epoca della formazione del lago. Il Cocibolca, così come il Lago di Managua, in origine avrebbe fatto parte della costa del Pacifico, poi chiusa ad anello attorno a queste acque da diverse eruzioni vulcaniche. I pesci, così intrappolati, si sarebbero adattati gradualmente al nuovo ecosistema. Qualunque sia stata l’origine dei pescecani, i cinesi, anziché rimanersene a pescare nel Mar Giallo, sono venuti fin qui a saccheggiare.


Granada, la Gran Sultana
La terza città del Nicaragua per dimensioni dopo Managua e León, ma fondata per prima nel 1524 da Francisco Hernández de Cordoba, Granada è la ciudad nicaraguese che più conserva lo spirito coloniale. La case del centro, soprattutto lungo La Calzada, la bella via che collega il Parque Central al lago, hanno grandi porte di legno e patios freschi, mentre le sedie a dondolo, soprattutto la domenica, ingombrano i marciapiedi. Per non inciampare nelle gambe di qualche anziano che si dondola bisogna fare continui slalom. I calessi, colorati con tinte brillanti, completano il quadro.
Alloggio all’Hospedaje Cabrera, il meno scadente della Calzada. Il posto è una specie di mecca per i backpacker anglofoni, che ne affollano le camere grandi come celle di clausura. Mi accaparro la numero 3, quella più chic. Di chic, in realtà, non ha proprio nulla, l’illuminazione è da catacomba, non appena spegni la luce le zanzare piombano in picchiata, l’asse del water è evaporata, come in ogni alberghetto nicaraguese che si rispetti, e la porta che dà sulla strada fa da cassa di risonanza a tutto ciò che di vivo o di meccanico passi là fuori. L’unica cosa chic sono le dimensioni, nella stanza ci potremmo dormire in quindici.
Mentre noi chiamiamo, o chiamavamo, Genova 'La Superba' e Venezia 'La Serenissima', qui Granada la chiamano 'Gran Sultana', soprannome che si guadagnò con gli sfarzi dell’epoca coloniale. Durante il periodo della Conquista, infatti, la città accumulò enormi ricchezze, sia grazie alla posizione strategica (di qui passava tutto il commercio, proveniente da buona parte del Centroamerica settentrionale e diretto all’Europa attraverso il lago e il Rio San Juan), sia per merito della terra fertile e dell’agricoltura che seppe sfruttarla. Un benessere che attirò le mire dei pirati inglesi e francesi in più occasioni: tra il 1665 e il 1685 Granada fu saccheggiata e incendiata cinque volte. I corsari William Dampier e Henry Morgan, 'firme' note dell’epoca, parteciparono con sentimento agli attacchi.


Las Isletas, una per ogni giorno dell’anno
Chi dice siano 354, chi sostiene 356, chi arriva a 368. Nessuno si è preso la briga di contarle e ne conosce il numero esatto, così per far prima dicono che sono una per ogni giorno dell’anno. Parlo delle isletas, le isolette formate dalle eruzioni del vulcano Mombacho, la bocca di fuoco che sovrasta Granada. Per raggiungerle bisogna prendere una barchetta dai porticcioli di Puerto Asese o di Cabaña Amarilla, a qualche chilometro dalla Calzada. Ai moli se sei gringo o hai la faccia da dollaro, ma basta anche solo quella da europeo, devi tirare fuori le unghie. I corporativi barcaioli, riuniti in una cooperativa tutela-privilegi, una specie di casta di notai, impone cifre relativamente alte e la contrattazione prevede peli sul petto e animo da massaia al mercato del pesce. Per scucire una tariffa sostenibile passa così tanto tempo che faccio arrivare l’ora del tè, e il mio barcaiolo si vendica per lo sconto impostogli portandosi appresso la fidanzata. La gita si trasforma in un pucci-pucci di smancerie, sorrisetti e bacini, zero attenzione alla rotta e alle esigenze fototuristiche del Cliente Pagante, fiacca a poppa, odio per i morti-di-sonno a prua.


Le isletas più prossime ad Asese ospitano qualche piccola costruzione, bar o ristoranti attivi soprattutto durante i fine settimana, quando i bifolchi della capitale con i fuoristrada e i jet-ski vengono a spendere e spandere. Su quelle più lontane alcuni alberghi dai bungalow scintillanti, decisamente costosi, fatturano in valute forti. Più interessanti sono le isole situate oltre la Penisola di Asese. Qui, vista l’esuberanza della natura e i costi bassi, Steven Spielberg girò il secondo film della serie 'giurassica', Il mondo perduto. Fra queste isole spicca Zapatera, la seconda del lago per dimensioni. Dichiarata parco nazionale, era un luogo di culto e un cimitero per gli indios. Nel 1849 un diplomatico statunitense vi trovò quindici statue precolombiane, oltre ai resti di un tempio a forma di piramide. Due di queste statue, poco diplomaticamente trafugate, si trovano allo Smithsonian Institute di Washington.


Ometepe, l’isola dei vulcani
Ed eccomi a Ometepe, il pezzo forte del lago, la bella e selvaggia isola a forma di otto che, vista dall’alto dei cieli, deve sembrare una specie di reggiseno imbottito con due vulcani al posto dei seni. Per arrivarci sono sopravvissuto alla bagnarola che collega San Jorge, l’imbarco sul 'continente', a Moyogalpa ('luogo delle zanzare'), il centro principale. Il lago è così grande che durante la traversata le onde stavano per travolgerci, e il fatto che il motore a brandelli si spegnesse ogni cinque minuti non ci ha aiutati. Ci tengo a mantenere un certo stile per cui alloggio all’Hotel Ometepetl, il migliore del paese, nel senso che è il meno scomodo e che ha meno muffa degli altri. Prima di impossessarmi della camera ho provato a fare un giro anche all’Hotel Bahía, lungo la stessa strada, ma ne sono fuggito con i capelli dritti. Il posto, nonostante il sorriso a quaranta denti del buttadentro, si è rivelato una vera bettola, per la quale anche pochi dollari sono una tariffa insultante: camere roventi e ammuffite situate sopra il bar-ristorante-discoteca-sala da biliardo, da cui sono separate solo con qualche asse di legno. Una sinfonia di rumori & odori che consente il riposo, bene che vada, tra le due di notte e l’alba, previa sbronza. L’Ometepetl, invece, offre una scelta maggiore: le camere che danno sul giardino hanno come sottofondo sonoro mezza dozzina di galli che viene a cantare sul tetto, il loro pollaio di fiducia; quelle dell’ala centrale danno sul ristorante e sui suoi avventori etilici; quelle più vicine alla strada si affacciano sul baretto di un gringo trapiantato che tiene lo stereo sempre al massimo. Per stare sul sicuro ho sperimentato tutti e tre i tipi di stanza, facendo impazzire l’addetta alle camere (ogni volta ho aperto i bagagli, saggiato il letto, imprecato al primo rumore, rimpacchettato lo zaino, chiesta una camera migliore, che non esiste).


Risolti, più o meno, i problemi logistici, mi do al turismo. Il villaggio è minuscolo ed è tutto un saliscendi, prima o poi, anche se non vuoi, ripassi per la duecentesima volta dal molo, l’unico vero cinema e teatro di Moyogalpa. Quando lo fai, però, devi avvicinarti con passo felpato. Se hai anche solo leggermente un’andatura da alpino i ragazzini, gli scaricatori, i marinai e tutti quelli che per futili motivi si trovano lì, a fischi urla e gesti faranno tornare indietro la barchetta appena salpata per San Jorge, convinti che tu la voglia prendere. Hai un bel da spiegare, poi, che sei lì solo per osservare il tramonto.


Ometepe, in lingua nahuatl, quella degli indios locali, significa 'due' (ome) 'cime' (tepe), con riferimento ai vulcani che la formano: il Concepción (1610 metri) e il Maderas (1395 metri). Il primo è ancora attivo (l’ultima eruzione risale al 1983), mentre il secondo è estinto da circa 2600 anni. I vulcani sono uniti da un istmo, formatosi in seguito a un’eruzione del 1804. Lungo l’istmo oggi si trova la bella spiaggia di Santo Domingo, la più nota dell’isola: nuovi alberghetti sono in crescita costante, sebbene nei giorni feriali il bagnasciuga sia frequentato solo da lavandaie e mandrie di mucche al pascolo.
Dopo un po’, anche agli esseri più meditativi o in luna di miele, Moyogalpa può diventare stretta, e non si può evitare di trasferirsi all’altro centro abitato dell’isola, Altagracia, che non è New York. Qui i due grandi concorrenti che si contendono i backpacker sono l’Hotel Castillo e il Central. Nel primo, il proprietario, l’anziano Señor Castillo, è una logorroica autorità locale per quanto riguarda le informazioni sull’isola: nonostante l’età, sembra avere un atlante storico al posto del cervello. I fiori all’occhiello del Central, invece, sono il cameriere Elvis, non appena lo vedrete capirete il motivo del suo nome, e gli stranissimi ragni nei bagni, scusate la rima, davvero mai visti prima. Amo il contatto con la natura e la musica, dunque scelgo il Central.


Altagracia ha qualcosa in più da vedere. Innanzitutto le statue precolombiane che, come semafori, svettano nella piazza centrale, sul ciglio della strada. E poi c’è la Grande Fatica, ossia la passeggiata, meglio, scalata, fino alla vetta del vulcano Concepción. Ci ho provato, ma devo ammettere che il fisico, appesantito da una dieta di ragù e computer, non ce l’ha fatta. Mario, la guida affibbiatami dall’Hotel Central, ha l’aspetto di un ragazzino, probabilmente lo è, ma ha anche un passo da mulo degli alpini in grado di battere ogni trekker allenato, oltre a un coltello dell’esercito sandinista che fa sembrare quello di Rambo un temperino svizzero. S’inizia lentamente a salire, attraverso campi di fagioli dove l’adiós! scambiato con tutti quelli che s’incontrano è d’obbligo. I bei mot-mot, gli uccelli azzurri apparentemente specializzati nel decollare un decimo di secondo prima del click dell’otturatore, ci osservano dall’alto degli alberi. A metà cammino sono obbligato a gettare la spugna: ogni dieci minuti devo strizzare la camicia intrisa di sudore (l’umidità è insopportabile), il cuore va sulle montagne russe, le piante in faccia e le nuvole di zanzare mi hanno fatto una sabbiatura da carrozziere.


Memore del fallimento, non mi faccio prendere dalla malinconia per una seconda scalata quando visito il 'campo base' dell’altro vulcano, il Maderas. Il punto di partenza è (sarebbe, per gli altri) l’Hacienda Magdalena, una cooperativa agricola fondata nel 1988, in epoca sandinista. La vasta baracca di legno ospita di tutto: camere e ristorante iperspartani, magazzini per il caffè, un murale scrostato del tempo delle bombe e dei coltelli, una sala computer, un quaderno dove l’unico italiano passato prima di me ha annotato come la caratteristica principale della camminata sul Maderas fosse il fango. Mi accontento di una gita fra i campi a scovare qualche petroglífo, antichi disegni su pietra risalenti a circa ottocento anni prima dell’arrivo degli spagnoli. Presenti un po’ in tutto il lago, quelli dell’Hacienda Magdalena sono tra i più numerosi e conosciuti. A grandi linee i loro disegni si dividono in zoomorfi, antropomorfi, curvilinei e spiraliformi. Le ipotesi circa l’origine di questi graffiti sono diverse: secondo alcuni studiosi sarebbero contrassegni del territorio, mentre per altri rappresenterebbero cordoni ombelicali sacri. Oltre a questi temi ricorrenti, a volte, si possono trovare due spirali unite da una corda, chiaramente una raffigurazione dell’isola, dove le spirali simboleggiano i coni dei vulcani. A quei tempi, è plausibile pensarlo, il bikini non l’avevano ancora inventato.


San Carlos, tra il lago e il fiume
Per arrivare fin qui, dalla parte opposta del lago rispetto a Granada e Ometepe, ho preso un aeoroplanino giocattolo della compagnia La Costeña da Managua. Costa poco, siedo praticamente sulle ginocchia del pilota e il passeggero al mio fianco suda come una fontana per la fifa. Lungo il tragitto abbiamo fatto scalo a Nueva Guinea, uno dei tanti centri sperduti del Nicaragua, e il suo 'aeroporto', in realtà, si è rivelato essere il campo da calcio, in terra ben poco battuta. Quando sorvolavamo l’abitato mi ero posto l’abusata domanda retorica «dove atterriamo?», dall’oblò di lavatrice che mi avevano venduto come finestrino non vedevo altro che tetti e terra, poi ho capito che il campo da bocce poteva essere il capolinea, in tutti i sensi. L’aeroporto di San Carlos, invece, a confronto sembra il JFK. Asfalto vero, bilancia che al check-in ti pesa assieme al bagaglio, tasse aeroportuali, persino un elicottero dell’esercito adibito a scarrozzare i familiari dei militari.


La cittadina, situata all’estremità sudorientale del lago, nel punto in cui le sue acque si mescolano a quelle del Rio San Juan, fu di grande importanza per gli spagnoli fin dall’inizio della colonizzazione. Dal Castillo de la Inmaculada Concepción, situato lungo il fiume, i castigliani difesero il territorio dagli attacchi dei corsari inglesi e francesi. Prima della costruzione del Canale di Panama, inoltre, la città, allora nota anche al di fuori dei confini nazionali, era un punto di passaggio obbligato per merci e persone da un oceano all’altro: soprattutto per i cercatori d’oro diretti in California che, sbarcando sulla costa atlantica a Greytown (oggi San Juan del Norte), risalivano il fiume, attraversavano il lago, proseguivano in diligenza e in treno, raggiungevano la costa del Pacifico e lì, finalmente, s’imbarcavano per gli Stati Uniti.
Dopo la costruzione del canale, San Carlos perse quasi tutta la sua importanza, trasformandosi in un paese lagunare qualsiasi,  frequentato soprattutto da pescatori, squali e raccoglitori di caucciù. Dato che il posto ha un suo fascino, i turisti, sia nica sia stranieri, sono in aumento. Insieme ai prezzi.
Questo, però, sembra essere il destino di tutto il Nicaragua, un Paese verso cui bisogna affrettarsi, prima che gli speculatori lo spolpino e i turisti dalle tasche ben imbottite lo vizino.


Pubblicato su Panorama Travel


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