lunedì 18 luglio 2011

CINA - A CACCIA DI HÚTÒNG



VIAGGIO NELLA MILLENARIA CAPITALE CINESE, A CACCIA DI HÚTÒNG, LE ANTICHE VIE A SCACCHIERA, IN ORIGINE DISEGNATE PER I SOLDATI DELL’IMPERO. TRA VECCHI VICOLI E ‘RISTRUTTURAZIONI’ ARTIFICIOSE, PRIMA CHE LE RUSPE SPAZZINO VIA TUTTO.

Soldi freschi, brutta bestia. I nuovi ricchi delle economie emergenti - russi, brasiliani, indiani, cinesi - si sono ritrovati fra le mani, in pochi anni, cifre importanti. E, in buona parte, i più paiono voler imitare vite hollywoodiane, in quanto a modalità di spesa. Quanto più appariscenti e kitsch, tanto meglio. ‘La Cina è il Paese più capitalista del mondo’, mi ha fatto notare con saggezza, un giorno, un amico italiano che vive nel Guangdong, la prima regione del colosso asiatico a essere stata travolta dalla smania di ricchezza, vista la vicinanza a Hong Kong. E la meravigliosa Pechino, nonostante millenni di tradizione e un Partito Unico che a tutto vede & provvede, non è rimasta a guardare. Partendo da un concetto: per combattere la muffa - il vecchio, lo stantio privo di monumenti - nulla meglio di una ‘ristrutturazione’. Non all’europea, dove ogni coriandolo che profumi di antichità viene riportato in vita da mani esperte e spesso con costi maggiori di un acquisto del tutto nuovo. Volendo essere un po’ drastici, in Cina ristrutturazione fa rima con deportazione. Il Sommo Pianificatore, spesso alimentato da $o$tegni sottobanco - le bustarelle di democristiana memoria - provenienti da ‘amici’ costruttori, decide che il tal quartiere ha già dato. Le scuse per farlo fuori possono essere un’infinità: troppa biancheria stesa ad asciugare, i cani vi fanno la pipì, i muri stanno cadendo a pezzi, il prossimo anno dobbiamo ospitare Giochi senza Frontiere, il mondo ci guarderà. Tra quante ore sono pronti i caterpillar? E tu, che magari lì ci sei nato, e vi hai bollito tè per generazioni di figli e nipoti, che sai alla perfezione le quotazioni giornaliere dell’aglio o della carote nella drogheria dietro l’angolo, tua amica da sempre… tra un mese ti devi trasferire dall’altra parte della città. In un condominio, nuovo, con comodità mai viste prima. Su un altro pianeta, in pratica. Impresa non facile. Soprattutto se hai trascorso la tua esistenza in un hútòng, una delle strette vie che, da secoli, attraversano Pechino da est a ovest.


Il termine hútòng, probabilmente di origine mongola, sembra derivare da ‘pozzi per l’acqua’, risalente alla dinastia Yuan. Parte fondamentale della struttura urbana dell’impero, seguendo la divisione per classi impostata dalla dinastia Zhou (1027 - 256 a.C.). Queste vie ‘mettevano in riga’ le antiche siheyuan, spaziose residenze con giardini circondati da muri, in origine appartenute agli alti ufficiali imperiali o a ricchi mercanti, tanto più grandi e sontuose quanto più vicine alla Città Proibita. A nord e a sud, di dimensioni ridotte, le abitazioni dei ceti più bassi: semplici commercianti, artigiani, manovali. Le loro siheyuan erano più semplici, con entrate che davano verso sud, per godere un’illuminazione migliore, di solito lungo hútòng più stretti e sinuosi. Questi, amalgamatisi nel tempo, con vicoli di connessione fra nord e sud, hanno dato origine ai quartieri, in una ragnatela architettonica dal vago sapore di labirinto, almeno per i visitatori al primo contatto. Nell’antichità, durante l’evoluzione urbana di Pechino, l’hútòng era l’unità amministrativa di base usata per suddividere la città, la tessera del puzzle che componeva la capitale dell’impero. 



Agli inizi del Novecento, con il disintegrarsi delle dinastie, anche la struttura dell’hútòng fu messa in dubbio. Dubbio divenuto certezza con l’arrivo del comunismo, nel 1949, quando ebbe l’inizio dell’ecatombe di numerosi hútòng, abbattuti per far spazio a nuovi, larghi viali. Nel quartiere di Xicheng quasi duecento hútòng furono spazzati via per far spazio al nuovo. E alcuni dovettero subire un secondo battesimo, in quanto i loro nomi poco si addicevano alla serietà imposta dal regime maoista, oppure per essere dedicati alle Somme Imprese della Cina collettivista. Così il Muzhu hútòng (‘scrofa’) divenne Meizhu (‘pruno-bambù’), il Guancai hútòng (‘bara’) si trasformò in Guangcai (‘splendore’), il Nanxiawa fu chiamato Xuemaozhu (‘scritti degli studi di Mao’). Nomi a parte, da sempre, cioè per circa sei dinastie, hútòng è stato sinonimo di popolo, di cellula di base della società pechinese, in parte in contrasto con le vicende dell’élite imperiale, che viveva su un’altra galassia. Un tesoro unico, dal valore inestimabile.



Pensate se un bel giorno l’Assessore alla Novità di Venezia decidesse di ricoprire con il cemento calli e canali, così da sfrattare topi, inondazioni e gondolieri abusivi. Qualcuno, forse, avrebbe qualcosa da ridire. A Pechino se hai qualcosa da ridire il tuo pensiero non smuoverà di un grado l’asse di equilibrio del pianeta. Voce nel vuoto, la tua protesta sarebbe accompagnata da un rapido check-out forzato della tua alcova, definitivo ed entro quindici minuti. Una volta fatte le valigie, trasferito in un nuovo appartamento, funzionale quanto alieno, poi però potrai tornare a visitare il tuo vecchio hútòng da turista, anche se probabilmente di vecchio al suo posto non ci sarà alcunché. Un grattacielo nella più comune delle ipotesi, un hútòng per turisti nella peggiore. Come quello di Qianmen Dajie, hútòng che fu, tirato a lucido per la delizia degli amanti dello ‘sdruscio’, davanti al Front Gate di piazza Tienammen. Disneyland, come lo chiama il mio amico di Pechino. Nulla di meglio per capire il contrasto tra nuovo e vecchio, alla pechinese. Lungo il corso, riaperto al pubblico nel 2008, negozi che vendono, secondo le statistiche ufficiali, 70% merci cinesi e 30% importate. Banche e bancarelle, in ordine sparso. Nel mezzo un trenino turistico, che ben pochi sembrano prendere. Tutto terribilmente scintillante, asettico e, in fondo, noioso. Per riprendersi, per tornare in Cina, cercate una delle traverse-vie di fuga, perpendicolari a Disneyland. A tre metri in linea d’aria da Qianmen Dajie entrerete in un altro mondo, soprattutto sul lato sinistro della via pedonale, tenendo il Front Gate all’orizzonte. Lì l’hútòng verace pulsa di vita, seppure ‘contaminato’ dalla commercializzazione di quello travestito da via-per-bene. Infinità di ristorantini in cui abboffarsi a suon di hot pot, pentola da tavolo con cui divertirsi e mangiare al tempo stesso, in una specie di self-service fumante e sbuffante davanti al vostro naso. Potrete affogare nel brodo/zuppa caldi verdure, carni, pesce e frutti di mare, basta saperci fare con le bacchette cinesi. Tra un ristorantino e l’altro venditori di frutta candita su spiedini, succose delizie di riminesca memoria, Gente, rumori, odori, casino assortito, i giusti ingredienti di un hútòng che si rispetti. Godeteli in fretta, perché sul lato destro di Qianmen Dajie le ruspe sono già arrivate e stanno preparando l’ennesima autostrada-del-bello alla cinese.



Per rimanere in tema, nella nostra caccia all’hútòng, visitate una seconda Disneyland, più carina e meno aggressiva di quella di Qianmen Dajie. Raggiungete il bel laghetto Qian Hai, non lontano dalle Drum & Bell Towers, mete quasi obbligate per chi visita Pechino, a nord-ovest della Città Proibita. Tutta la zona pullula di hútòng, alcuni hanno mantenuto l’atmosfera originaria, altri l’hanno persa per sempre. Gli autisti di risciò che vegetano davanti alle torri proveranno ossessivamente a piazzarvi un ‘hútòng tour’, più o meno per una ventina d’euro, prezzo non irrilevante da queste parti. Ma potete ottenere la tariffa fissa di 40 yuan l’ora, previa estenuante contrattazione. I loro risciò, carrozzelle ricoperte di velluto e frangette dorate, sono carini, ma l’insistenza dei conduttori può risultare indigesta. Sono contenti come ragazzini nel momento in cui riescono ad accalappiare un gruppo turistico in un boccone solo (così da evitare lotte per la spartizione) e qualcuno di loro ha pure appiccicato un adesivo I love hútòng sul proprio mezzo. In ogni caso non c’è nulla di meglio di un bel paio di polpacci e delle proprie gambe per fare un hútònggiro che si rispetti. Altro consiglio: partite prima dal falso, per poi scoprire il vero (il contrario può risultare indigesto). 


Iniziate dunque da Yandai Xiejie, altro hútòng tirato a lucido, lungo 232 metri. Una specie di arco di trionfo alla cinese ve lo segnalerà all’ingresso lungo Di’anmen Wai Dajie, il flusso di turisti ve lo confermerà. Poca traccia dell’ex viuzza in cui si commerciava tabacco e accessori per il fumo. La maglietta con il ritratto di Obama trasformato in specie di Mao post-neo-comunista sembra attirare più acquirenti del tabacco-che-fu, e così mille altri gadget (collezioni complete di lattine di Coca-Cola dedicate alle Olimpiadi, bamboline di ogni fattezza e dimensione, lanterne, set da tè, aquiloni e altri oggetti essenziali per l’esistenza), negli oltre sessanta negozi della via. Poco oltre si giunge al ponticello Yinding (‘moneta d’argento’), attorno al quale bar e baretti fanno le ore piccole, nei limiti della vita notturna pechinese, per una fumata di narghilè o un drink all’occidentale. Passato il piccolo ponte potrete darvi da soli delle pacche sulle spalle se sarete riusciti a scovare senza guide Hutong Pizza, pizzeria imboscata nello Yindingqiao Hutong, con più fama che sale. Lì davanti il bel laghetto, teatro a cielo aperto d’inverno, quando ghiacciato si trasforma in grande pista per pattinare, soprattutto seduti su slittini ricavati da sedie con gli sci incollati all’estremità inferiore delle gambe, bastoncini da sciatore per darsi la spinta. Spettacolo fra l’antiquariato e il naïf, molto carino da vedere e provare. Nei dintorni della pizzeria si snodano hútòng di vecchia e nuova scuola, i primi con tutto il fascino del caso - nonostante i condizionatori d’aria qua e là, poco antichi -, i secondi simili a villette a schiera tirate con il righello. E, per chiudere con la Triade delle hútòng-Disneyland e rimanere in zona, Nan Luo Gu Xiang, altro hútòng ‘rinnovato’ nel quartiere di Dongcheng. Settecento anni di storia, trasformati in oltre un chilometro di camminata circondati dai manichini che vi osservano dalle vetrine, bar, negozi e affitti rincarati del 400%, da quando il governo ha dato la propria benedizione a investirvi.



Se questo è l’andazzo, la caccia all’hútòng è uno sport che ha i giorni contati. Occorre fare in fretta, se si vuole assaporare un po’ di atmosfera d’altri tempi, e perdersi nelle viuzze più interessanti della capitale cinese. Se le cose continueranno come stanno andando, il rischio è di poterlo fare solo attraverso pubblicità del tè per la tv che dipingono una Pechino d’antan, o sulle foto antiche dell’archivio fotografico on-line Hutong to Highrise (www.hutonghighrise.com). O, comodamente dal salotto, attraverso bei film come Beijing bicycle (2001, epopea urbana di un giovane immigrato dalle campagne cui viene data una bici nuova fiammante con cui lavorare come fattorino; il suo cavallo di metallo viene rubato e finisce nella mani di uno studentello-figlio-di-papà, con tutti i contrasti sociali del caso) o Shower (1999, incentrato sulla conduzione familiare di un bagno pubblico, anch’esso con uno scontro fra vecchie e nuove generazioni). Oppure ancora, se siete testardi come me, provate a seguire le indicazioni della Lonely Planet. Prendete la metropolitana fino al quartiere di Xuanwu, e arrivati lì tentate di trovare un tassista che sappia dove diamine è uno dei più antichi hútòng di Pechino, quello di Sanmiao Jie (‘la via dei tre templi’), secondo la Bibbia australiana per viaggiatori ‘risalente alla dinastia Liao’, roba di un migliaio d’anni fa. A me è andata malissimo, nessuno dei quattro tassisti che ho interrogato fino allo sfinimento ha saputo scovare l’antro di antichità, sempre che esista ancora. Ma voi, magari, sarete più fortunati di me. La caccia al tesoro, per non parlare di quella all’hútòng, può essere molto divertente. Provare per credere.





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