La zona araba di North Nana, lungo Sukhumvit Road, a Bangkok. Vero melting pot, fra Thailandia e mondo arabo.
Blade Runner è qui, circondato da centinaia di narghilè e decine di go-go bar
Blade Runner è qui, circondato da centinaia di narghilè e decine di go-go bar
Se Ridley Scott oggi dovesse girare di nuovo Blade Runner probabilmente lo farebbe nella cosiddetta ‘Soi Arab’, viuzza ad altissima concentrazione islamica confinante con l’interminabile Sukhumvit Road, una delle arterie della megalopoli thailandese. A pochi passi da Nana Plaza, il ‘porcile’, come viene chiamato da alcuni il ‘centro divertimenti’ degli stacanovisti del sesso. Tre piani di go-go bar, centinaia (migliaia) di lavoratrici a tassametro. Ma, se qui ne esiste uno, andiamo per ordine…
Sukhumvit Road e Nana Plaza, casino & casini
Sukhumvit è il grande, apparentemente infinito e trafficato imbuto che attraversa in orizzontale la grande Bangkok, connettendo la zona centrale e monumentale a quella orientale della capitale thailandese. La via, nel tempo, è divenuta l’asse portante in cui si affollano scintillanti mall, shopping-center all’americana, grandi contenitori ipertecnologici riempiti con lussi surreali. In certi luoghi di Sukhumvit il lustro di negozi, merci, persone è talmente esibito da far sentire a disagio qualsiasi farang, straniero d’ordinanza non abituato a vivere a Beverly Hills. I turisti, soprattutto quelli del ghetto low budget di Khao San Road, la via ricettacolo dei saccopelisti di mezzo mondo, possono sentirsi ‘inadatti’ una volta entrati in centri commerciali come il Siam Paragon o l’Emporium. Tutto, in questi contenitori di ricchezza esibita, sembra creato per sfatare l’infamia del terzomondismo. Qui si trova ogni marca prestigiosa e costosa del creato, tra sfilate di moda e blackberry club, dove l’élite viene a scorazzare con aria annoiata e a spendere salari medi tailandesi per mangiare una pizza. Le stesse marche, o quasi, si ritrovano in strada, a breve distanza, sui marciapiedi intasati di venditori ambulanti che vendono ogni patacca taroccata ipotizzabile. Mutandazze Armani, Versace, D&G a carriolate, sui tavolini che si sono impossessati dei marciapiedi, tra una bancarella di viagra e una di film porno, tra gente che dorme e famiglie di topi usciti a cena. Riuscire a camminare indenni, senza scontrarsi contro qualcosa o qualcuno, lì sembra una missione impossibile. L’affollamento massimo di paccottiglia e di gente sudata (a Bangkok fa sempre caldo: se non ci pensa il sole torrido se ne occupano i tubi di scappamento) sembra concentrarsi attorno all’incrocio con Soi 4, la via dove si trova Nana Plaza, la Torre di Babele dedicata al sesso mercenario.
Qualche anno fa l’ex primo ministro Thaksin, specie di Berlusca locale inviso alla regina, aveva deciso di dare una stretta all’ambientino da Sodoma & Gonorrea che caratterizzava questa e altre zone. Riduzione degli orari d’apertura, qualche bikini obbligatorio a coprire le nudità integrali delle ‘ballerine’ più attaccate al proprio mestiere e, in una notte di follia, un’analisi di massa delle urine di lavoratrici e tenutari per schedare chi faceva uso di droghe. Il Giovanardi locale non è durato a lungo, ha dovuto lasciare la Thailandia e la scorsa primavera il governo gli ha sequestrato oltre metà delle proprietà - beni immobili e capitali -, sostenendo che erano stati ottenuti grazie a interessi privati sfruttando l’importante carica pubblica. Tutto ciò ha scatenato l’ira barricadiera delle ‘red shirts’, le ‘camicie rosse’, i garibaldini che si sono scatenati nella guerriglia urbana per spodestare il primo ministro-dittatore che ha scalzato Thaksin. Morale della storia: morti per le strade, qualche mall dato alle fiamme, turismo crollato. Al Nana Plaza e negli istituti simili, esiliato Thaksin, i locali hanno ripreso a chiudere tardi e i bikini a essere lasciati nei cassetti. Gli stranieri - in media non giovanissimi e con silhouette non da nuotatori - continuano ad accorrere, spesso attirati anche da battaglioni di katoey, i famosi ladyboys di marrazziana memoria che imperversano, a volte più belli delle vere donne femmine, nell’intero Regno di Thailandia. Al Nana Plaza alcuni go-go bar sono specializzati esclusivamente in questo settore, e sono sempre strapieni.
‘Soi Arab’, per un salto nel mondo arabo
Questo tratto di Sukhumvit, però, non si limita a stupire per quanto detto sopra. A cento metri in linea d’aria dalla lisergica, surreale Nana Plaza, infatti, si apre un altro micromondo, apparentemente distante anni luce. Lungo ‘Soi Arab’, al catasto Soi 3/1 (appendice della parallela Soi 3), si entra d’improvviso nel mondo più arabo che c’è. Donne velatissime, alcune con museruola dorata - di solito quelle più anziane, che nessuno si sognerebbe di corteggiare nemmeno nei sogni erotici più perversi -, altre addirittura già da bambine e ai primi passi. Venditori di kebab, di tazzine da tè, di abiti e scarpe per musulmani. Agnelli sgozzati appesi in bella mostra nelle vetrinette dei ristoranti, molti dei quali con ottimi piatti libanesi. Una bancarella è specializzata nel riprodurre su ceramica le foto di famiglia (il bebè vestito da sceicco, lo sceicco famoso, Gheddafi, Arafat, il sultano dell’Oman, il milite arabo arruolato nei marines americani, l’antilope del deserto), mentre un negozio a breve distanza vende spettacolari telefoni cellulari mimetizzati da pacchetti di Marlboro, con tanto di tastiera a doppi caratteri, occidentali e arabi. Mendicanti storpi, cantanti ciechi e donne con il velo che chiedono l’elemosina, queste ultime parte della comunità musulmana thailandese, diffusa soprattutto nel Sud del Paese. E poi: venditori di miele con tanto di trancio di favo e api dentro, di occhiali sciocchi con lucine fosforescenti incorporate; venditori di pupazzi a forma di scimmia, amatissimi dai minisceicchi; bandiere irachene, una sede distaccata del consolato siriano e, puntuale come sempre nel mondo musulmano, il muezzin che chiama all’ora della preghiera, attraverso l’altoparlante di una moschea casereccia, ricavata nell’appartamento di un condominio.
Tutto intorno, in ordine sparso, centri telefonici con tariffe scontate per chiamare in Medio Oriente, centri per massaggi, taxi con scritte in arabo, caricaturisti specializzati in ritratti di personaggi barbuti e di donne incappucciate, manicure da marciapiedi per zoccole e ladyboys, venditori ambulanti di spiedini di pollo e di fantastica frutta tropicale. Qualche indiano, di solito sikh, ti ferma con la frase accalappia-allocchi “You are a lucky man!” (“Sei un uomo fortunato!”), a volte facendo un misterioso gesto con le mani attorno al suo terzo occhio, nel centro della fronte. Impossibile non venirne ipnotizzati. La risposta più istintiva è un bel thank you, seguito dalla fuga. Ma alcuni farang non ce la fanno a staccare dalla parlantina ammaliante del fachiro in camicia, turbante e cravatta, che inizia pure a leggerti la mano, spiegandoti perché tu, sì proprio tu, sei così fortunato. Il passo successivo, se sei ancora lì che gli dai retta, è quello di seguirlo nel suo negozio di sartoria, dove per qualche centinaio di dollari ti farà un bell’abito su misura. Le sartorie indo-pachistane, a Bangkok così come in buona parte del Sud-Est Asiatico, abbondano come i funghi. Sembra essercene una chiamata Armani a ogni strada, e lungo la Sukhumvit ce n’è persino una chiamata The Versaces, un Versace al plurale, inglesizzato (dentro, l’orrore).
Poco più in là, sul lato di Soi 3, un altro mini-quartiere, stavolta riservato all’Africa nerissima. Un ristorante liberiano, diversi chiacchieroni senegalesi, loschi individui e qualche ruffiano che controlla il proprio ‘parco impiegate’. In realtà, almeno in questo angolino del mondo, la comunità musulmana integralista di ‘Soi Arab’ convive placidamente con la prostituzione più globale che ci sia: lavoratrici russe, arabe, africane, se la miriade di quelle tailandesi non dovesse soddisfare la richiesta della clientela, globale anch’essa. A una fermata d’autobus lungo la Sukhumvit solo la metà delle donne che sta in piedi prende l’autobus. Le altre - molte tailandesi e alcune africane - prendono i farang e li trascinano verso le loro camere d’albergo. Tra questi abbondano i clienti arabi o indiani, venuti a ‘prendere l’autobus’ dopo aver parcheggiato le mogli sotto un velo, da qualche parte. Mentre servono i piatti, le cameriere dell’italianissimo ristorante Pomodoro, che ha la sventura di avere le vetrine proprio davanti alla fermata del bus (e la benedizione di fare pasta al dente come De Cecco comanda), osservano schifate il viavai di carne da macello, attivo a ogni ora del giorno e della notte. Qualche sceicco viene a prendere il bus pure all’ora di colazione.
Poco più in là, sul lato di Soi 3, un altro mini-quartiere, stavolta riservato all’Africa nerissima. Un ristorante liberiano, diversi chiacchieroni senegalesi, loschi individui e qualche ruffiano che controlla il proprio ‘parco impiegate’. In realtà, almeno in questo angolino del mondo, la comunità musulmana integralista di ‘Soi Arab’ convive placidamente con la prostituzione più globale che ci sia: lavoratrici russe, arabe, africane, se la miriade di quelle tailandesi non dovesse soddisfare la richiesta della clientela, globale anch’essa. A una fermata d’autobus lungo la Sukhumvit solo la metà delle donne che sta in piedi prende l’autobus. Le altre - molte tailandesi e alcune africane - prendono i farang e li trascinano verso le loro camere d’albergo. Tra questi abbondano i clienti arabi o indiani, venuti a ‘prendere l’autobus’ dopo aver parcheggiato le mogli sotto un velo, da qualche parte. Mentre servono i piatti, le cameriere dell’italianissimo ristorante Pomodoro, che ha la sventura di avere le vetrine proprio davanti alla fermata del bus (e la benedizione di fare pasta al dente come De Cecco comanda), osservano schifate il viavai di carne da macello, attivo a ogni ora del giorno e della notte. Qualche sceicco viene a prendere il bus pure all’ora di colazione.
Scaricato il testosterone in eccesso, il mondo arabo siede ai tavolini argentati dei ristoranti di ‘Soi Arab’ e si perde in infinite fumate di narghilè, la pipa ad acqua diffusissima in tutto il Medio Oriente. L’odore di tabacco aromatizzato, spesso alla fragola, avvolge e tenta i passanti. Il rito, per alcuni, si dice innocuo: il fumo andrebbe assaporato solo nel palato, lasciando in pace i poveri polmoni. Vige, inoltre, la convinzione diffusa che l’acqua purifichi le sostanze nocive del tabacco. Per altri è dannoso per la salute né più né meno delle sigarette. Certo è che il narghilè ammalia. Non pochi sono i farang non arabi che cedono alla tentazione e si accomodano a un tavolino, ordinando pipa, tè alla menta e humus, delizioso purè di ceci da spalmare su tondissime pita, il pane arabo sfornato al momento. Anche le donne, inclusa qualche passeggiatrice, ama il rito, per cui ai tavolini di ‘Soi Arab’ si vede proprio di tutto, avvolto in grandi nuvole di fumo. Storia interessante, quella del narghilè, chiamato anche con il termine shisha o hookah. A New York, nel quartiere di Astoria, nel Queens, i caffè specializzati in hookah e partite di back-gammon sono all’ultima moda tra i giovani della ‘Grande Mela’.
Il termine narghilè deriva dall’arabo levantino nergeeleh o argileh, così come dal turco nargile (nargilen, nel greco cipriota), tutti termini venuti dal persiano - a sua volta derivato dal sanscrito -, lingua in cui significa ‘noce di cocco’. Originario dell’India, si presume che agli inizi il narghilè fosse fatto con noci di cocco. Il primo, si dice, fu visto alla corte dell’imperatore Akbar (1542-1605) e si diffuse, dopo l’introduzione del tabacco in India, soprattutto fra la nobiltà locale, tanto da diventarne status symbol. In seguito, esportato nell’intero universo musulmano, si ‘democratizzò’, trasformandosi in uno strumento di relax e socializzazione alla portata di tutti. Il narghilè funziona secondo il principio del raffreddamento del fumo, ‘filtrato’ dal passaggio attraverso l’acqua. Ogni fumatore, nel momento in cui lo richiede, viene fornito anche di un piccolo bocchino di plastica nuovo, sigillato, oltre che del tipo di tabacco richiesto, quest’ultimo depositato al centro del piccolo braciere - di solito di gesso o di marmo - posto sulla sommità della pipa. Accessorio non di piccole dimensioni, la pipa d’acqua non è un souvenir di facile trasporto: anche se smontabile, di solito ha una base - il contenitore dell’acqua - di vetro, dunque fragile. A ‘Soi Arab’ si vedono anche molti narghilè interamente di metallo, cromati e scintillanti come alcuni locali in cui sono usati. I camerieri, oltre a servire piatti di accompagnamento - il fumo sembra essere la portata principale dei clienti -, sono incaricati della fondamentale missione di tenere vive le braci, portando in continuazione piccoli tizzoni ardenti da depositare sulla sommità della pipa, nel braciere. Per il trasporto usano una specie di secchiello, un po’ simile a un innaffiatoio metallico, all’interno del quale sono contenute le braci, prelevate e depositate attraverso lunghe pinze. Se il cameriere non arriva prontamente e la pipa si spegne… niente mancia. Questo, e molto altro, nella caotica e cosmopolita ‘Soi Arab’. Dove il profumo del tabacco alla fragola apre le narici dei passanti.
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Il termine narghilè deriva dall’arabo levantino nergeeleh o argileh, così come dal turco nargile (nargilen, nel greco cipriota), tutti termini venuti dal persiano - a sua volta derivato dal sanscrito -, lingua in cui significa ‘noce di cocco’. Originario dell’India, si presume che agli inizi il narghilè fosse fatto con noci di cocco. Il primo, si dice, fu visto alla corte dell’imperatore Akbar (1542-1605) e si diffuse, dopo l’introduzione del tabacco in India, soprattutto fra la nobiltà locale, tanto da diventarne status symbol. In seguito, esportato nell’intero universo musulmano, si ‘democratizzò’, trasformandosi in uno strumento di relax e socializzazione alla portata di tutti. Il narghilè funziona secondo il principio del raffreddamento del fumo, ‘filtrato’ dal passaggio attraverso l’acqua. Ogni fumatore, nel momento in cui lo richiede, viene fornito anche di un piccolo bocchino di plastica nuovo, sigillato, oltre che del tipo di tabacco richiesto, quest’ultimo depositato al centro del piccolo braciere - di solito di gesso o di marmo - posto sulla sommità della pipa. Accessorio non di piccole dimensioni, la pipa d’acqua non è un souvenir di facile trasporto: anche se smontabile, di solito ha una base - il contenitore dell’acqua - di vetro, dunque fragile. A ‘Soi Arab’ si vedono anche molti narghilè interamente di metallo, cromati e scintillanti come alcuni locali in cui sono usati. I camerieri, oltre a servire piatti di accompagnamento - il fumo sembra essere la portata principale dei clienti -, sono incaricati della fondamentale missione di tenere vive le braci, portando in continuazione piccoli tizzoni ardenti da depositare sulla sommità della pipa, nel braciere. Per il trasporto usano una specie di secchiello, un po’ simile a un innaffiatoio metallico, all’interno del quale sono contenute le braci, prelevate e depositate attraverso lunghe pinze. Se il cameriere non arriva prontamente e la pipa si spegne… niente mancia. Questo, e molto altro, nella caotica e cosmopolita ‘Soi Arab’. Dove il profumo del tabacco alla fragola apre le narici dei passanti.
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