lunedì 18 luglio 2011

BRASILE - IL SANTO DAIME


Tra dèi e visioni, nell'Acre

Claudinha è l’ancora di salvezza per il mio lavoro investigativo a Rio Branco, capitale dell’Acre, Stato dell’Amazzonia brasiliana dimenticato da dio. Dieci anni fa viveva a Bologna (Claudinha, non dio) e, per fortuna, il numero di telefono che mi lasciò è ancora attivo. Quando mi viene a raccattare nella piazza principale della sua città è scortata da Lenine, marito con un nome che in Brasile devono avere in tre: lui, l’omonimo, incommensurabile cantautore del Pernambuco, e un altro non identificato figlio di filosovietici. Questo Lenine è un ragazzuomo alto e bello, un moraccione dalla pelle olivastra che in Italia farebbe strage di cuori parrucchieri/cartolai. Cosa che non disturba è che Lenine, oltre che bello, è in gamba. Capite al volo le mie esigenze ficcanase, si rimbocca subito le maniche e decide di darmi una mano a scovare le tracce del ‘Santo Daime’, una bevanda considerata allucinogena dai miscredenti e adorata da una folta schiera di sette religiose di questa regione.
  “Non ti preoccupare, so dove, come, chi e quando. Sono la persona giusta nel momento e nel luogo giusto.”
  “Fantastico. Obrigado.”
  Lenine mi presenta Francisco, il leader (capo carismatico? maestro?) della cosiddetta ‘Barquinha’ (‘barchetta’), ufficialmente Centro Espírita Casa de Jesus - Fonte de Luz, una chiesetta situata in una viuzza appartata del quartiere di Vila Ivonete. Rione con nome da lavandaia, ma ricco di misteri. Dopo un po’ di motivata diffidenza (chi sono? che voglio?), Francisco apre i rubinetti della conoscenza:
  “A Rio Branco convivono tre correnti principali che seguono la dottrina del daime, più svariate dissidenti, caratterizzate da differenze minime. In tutto si contano oltre trenta chiese che appartengono alle correnti principali, cui vanno aggiunte le derivate, le sedi distaccate nel resto del Brasile e quelle all’estero. Tutte si basano sull’utilizzo di una bevanda (il daime, appunto, o ayahuasca, “corda degli spiriti”, in quechua) ottenuta dall’ebollizione di due componenti: il cipó o jagube (la pianta rampicante Banisteriopsis caapi, un tipo di liana) e la folha da rainha o tariri (‘foglia della regina’, Psychotria virilis). Come indica il nome latino di quest’ultima, l’effetto della mistura, che alcuni chiamano chá (tè), è ritenuto allucinogeno. In realtà nessuna setta considera il daime un allucinogeno, una droga. Per tutti noi è uno strumento, un interruttore che ci mette in comunicazione prima con noi stessi, quindi con il Divino. Un veicolo per l’estasi e la rivelazione, l’autoconoscenza, l’integrazione con il cosmo e il Creatore.”
  Claudinha, durante una pausa del monologo di Francisco, mi fa gomitino e bisbiglia:
  “Cazzica. Sissignore che è un allucinogeno. Mi ricordo ancora la fattanza viola dell’unica volta che l’ho bevuto. Ho pianto e vomitato per ore, mangiandomi le parole e sentendo la Terra che ballava il samba. Pressione a zero. Se non erano allucinazioni quelle...”
  Tralascio le interpretazioni semantiche delle sostanze non riconosciute dai governi e ridò il microfono delle orecchie a Francisco. E poi Claudinha è una vecchia fatturiona, quindi non è credibile.
  “In Brasile si stima che almeno diecimila persone prendano il daime. Il termine deriva da dai-me, ‘dammi’, secondo la formula rituale utilizzata dal fondatore del culto, Raimundo Irineu Serra, un gigantesco (due metri e dieci di altezza) seringueiro del Maranhão trapiantato nell’Acre, negli anni Trenta. La formula completa era, ed è, ‘Dai-me força/amor, dai-me luz’, ‘Dammi forza/amore, dammi luce’. Usata tradizionalmente dagli indios dell’Amazzonia peruviana e brasiliana in rituali terapeutici e religiosi millenari, la bevanda è conosciuta anche come Yage. Era la bevanda sacra dei re e dei sacerdoti incas, trasmessa al popolo indigeno dopo l’invasione degli spagnoli. In Brasile il culto nacque nell’Acre durante gli anni Venti, diffondendosi nella foresta tra chi estraeva il caucciù, e negli anni Settanta, in piena dittatura, si estese anche nelle grandi città del Sud. Fu allora che i militari iniziarono a porsi il problema se il daime fosse o meno una droga e se, come tale, andasse proibito.
  Il rito è caratterizzato dalla mescolanza di elementi indigeni, della religiosità popolare e, soprattutto, del cattolicesimo. Importante è l’influenza dello spiritismo, tanto che durante i nostri riti sono fondamentali le sessioni di cura, tramite il lavoro dei medium. Il canto e, per certe correnti, la danza hanno una notevole importanza, esiste un vero e proprio repertorio musicale di inni del daime (hinários). A volte, le sessioni di canto durano ore e ore.
  La nostra comunità è formata da circa centoquaranta credenti che portano la farda, l’uniforme. La mia diffidenza, che probabilmente ritroverai in altri centri, è dovuta al fatto che i giornalisti che ti hanno preceduto, in gran parte, hanno scritto montagne di cretinate. Dunque c’è poca voglia, in giro, di riceverli(vi), soprattutto di essere fotografati o ripresi. Secondo alcuni siamo una banda di drogati, di fanatici religiosi che prima si sconvolgono, poi colloquiano con le alte sfere. Spero che tu non sia così superficiale e prevenuto.”
  “Figuramose.”
  “Dunque, dov’eravamo rimasti. Ah, le differenze fra le comunità. Alcune, nella preparazione del daime, usano un po’ più cipó e meno folha, altre viceversa. Nella setta della União do Vegetal, come chiamano il daime, si adoperano alcuni termini diversi dai nostri e durante i riti si devono seguire regole ferree. Noi siamo più elastici, anche se abbiamo un rituale prefissato. Perché non vieni stasera? Potrai assistere...”
  “Non mancherò.”




  Verso le sette sfrutto di nuovo Lenine come autista e, con tutta la sua famiglia, raggiungo la ‘Barquinha’. Assieme a noi c’è Agata, figlia quattordicenne di Claudinha, che come tale vorrebbe passare la serata fra negozi e feste, altro che matti strafatti. Piuttosto inquietanti da vedere nella loro uniforme azzurra piena di gadget misteriosi (mostrine, spalline e fasce colorate, strani simboli), vagamente simile a quella di un portiere d’albergo. E comunque, dopo un po’, quando iniziano a pregare, fonte di interminabili sbadigli (siete mai stati a messa alle sette di sera?).
  Uomini e donne, tra cui parecchi anziani, siedono in quattro settori separati, i primi a destra, le seconde... indovinate dove. Francisco è in alta uniforme da Maestro e, dopo un veloce benvenuto, corre a ufficiare il rito. È il Maestro supremo, quello che legge la bibbia e che dà il ritmo al tutto. Siede al centro di un altare ricoperto di effigi (le più svariate, da São Sebastião a Nossa Senhora da Aparecida, la patrona del Brasile) ed è circondato da una dozzina di fedelissimi che intonano canti sacri, mentre un’orchestrina strimpella ai lati della sala. Alcuni coristi, viste le smorfie, la sudorazione, gli occhi su Marte mentre osannano l’alto dei cieli, devono già aver ingurgitato il ‘tè’, conservato religiosamente in una saletta apposita. Nella sala più grande, alle spalle dell’altare, siede il pubblico, semplici fedeli, chi in uniforme, chi ‘in borghese’. L’uniforme, unisex, è molto fotogenica e ha colori vivi, che l’intruglio magico deve esaltare alla massima potenza. La giacca è blu acceso, quasi turchese, con decorazioni bianche e due cuori rossi ricamati sul petto. Si tratta dell’uniforme del sabato, giorno considerato speciale, durante gli altri è bianca, così come lo sono i pantaloni e le scarpe per tutte le occasioni e per entrambi i sessi.
  Le sale sono separate da un tendone che viene aperto da due addetti all’inizio del rito. La cerimonia ha molto sapore di alzabandiera, di inaugurazione di monumento nella piazza principale. Un secondo altare, ben più grande di quello centrale, costeggia la parete della sala principale. Sopra ci stanno appollaiate tutte le immagini sacre che ho visto in anni di Brasile, partendo dal cattolicesimo più tradizionalista e arrivando al candomblé più sacrificagalline: di nuovo São Sebastião, Sant’Antonio, São Francisco, svariati ex voto, candele, bandiere con la scritta Paz e Amor, Verdade e Justiça. Sullo sfondo si apre una terza sala, collegata a quella principale attraverso due strette arcate, dove si intravedono altre immagini sacre racchiuse all’interno di nicchie circondate da luci colorate. Una illuminazione da luna park piuttosto simile è ripresa anche nel cosiddetto ‘tumulo’, una saletta in cui riposano le spoglie del padre di Francisco, fondatore della ‘Barquinha’. Un’ultima, minuscola sala si staglia su un lato della principale: si tratta dell’infermeria, indispensabile per i neofiti che hanno reazioni indesiderate dopo aver ingerito il daime. Si dice che chi ha mangiato carne da poco o bevuto alcol non dovrebbe bere lo chá: l’unione di queste sostanze può provocare effetti poco gradevoli, Claudinha docet.
  Il canto che giunge dall’altare centrale, sinuoso e avvolgente, fa accapponare la pelle, anche a chi non è minimamente religioso. Uomini e donne alternano, come in un moto respiratorio, in un ping-pong rallentato e magico, la fatica del canto, che prende alle viscere, come a seguire le contrazioni che lo stomaco sta subendo, forse per controllare il vomito. La lentezza del canto, a tratti, è interrotta da qualche acuto che fa da sveglia (Agata è tutt’uno sbadiglio). I soggetti principali dei canti, interrotti e ripresi più volte, sono Jesus e São João, oltre a Deus e la Sempre Virgem Maria, entrambi citati ripetutamente da Francisco. Gli inni sacri sono intervallati da un Padre Nostro e da un’Avemaria qua e là, più una serie infinita di segni della croce. Tra il pubblico solo alcuni cantano, e chi lo fa quasi sempre ha gli occhi chiusi.
  Dopo circa cinquanta minuti di canto e preghiere, sette medium in divisa, uomini e donne, raggiungono l’altare rigonfio di immagini sacre. Già visibilmente in trance e rivolti alle effigi, emettono strani rumori che fanno scorrere brividi impazziti su e giù per la spina dorsale: fischi, sospiri, cinguettii, il tutto a occhi chiusi e con la mano destra alzata (non alla nazi, ma alla ‘presente!’).
  Il rito collettivo, a questo punto, è finito: si passa alla fase della consulta ‘personalizzata’, della ‘cura’, nella terza sala. I medium, dopo aver fatto alcuni giri circolari attorno agli altari (una ‘carica di energia’), prendono posto nei banchi a essi riservati (i cosiddetti ‘gabinetti’) e, uno a uno, ricevono i fedeli bisognosi di un pronostico, di una benedizione, di una ricetta amorosa, di uno scongiuro contro il malocchio, di sconfiggere una malattia, di un colloquio con i propri morti. Persino di denaro. I ‘pazienti’ formano una fila ordinata in un piccolo cortile e vengono ricevuti secondo un ordine prestabilito: prima i bambini, poi le donne, quindi gli uomini. Questa fase, sempre uguale fin dal 1945, è chiamata passe (passaggio) ed è caratterizzata dalla cosiddetta limpeza spiritual, la ‘pulizia spirituale’: consigli - come bagni con erbe, fumenti - o pratiche per togliere uno spirito negativo di torno. Il tutto gratis, nessun medium ‘lavora’ per denaro.
  “La cura viene data ogni venerdì e sabato, fino alle undici di sera. E nessun fedele è lasciato fuori, i medium non vanno a dormire finché non hanno terminato” - Francisco ha abbandonato l’altare, dove proseguono i canti ‘di cura’ e quello ‘di chiusura’, ed è venuto a darmi le ultime delucidazioni.
  “E perché questa ferrea divisione tra sessi, durante il rito?”
  “Non è per una questione di morale o di ordine pubblico. Semplicemente perché i sessi opposti hanno energie differenti. Perché il rito abbia un buon esito è necessario tenere separate queste energie. Altre domande?”
  “N-no, grazie. Mi sembra tutto chiaro.”


  Il secondo capitolo delle indagini si rivela un buco nell’acqua. Sempre scortato dal fido Lenine, il giorno seguente raggiungo la sede della comunità Alto Santo, a sette chilometri da Rio Branco. Secondo la cronologia delle chiese del daime, quella di Alto Santo sarebbe l’originaria, la ‘Madre’ di tutte le variazioni sul tema, derivate da questo primo, quasi antico insediamento. Non esistono filiali di questa comunità, né in Brasile né all’estero, caso unico tra le varie sette del genere. A pochi passi dall’ingresso si erge il sepolcro del fondatore della dottrina e la mia missione è di parlare con Dona Peregrina, anziana vedova del ‘padrino’ Sebastião, discepolo di Irineu Serra e leader spirituale del culto del daime per circa vent’anni. Purtroppo, però, la vecchia ci accoglie con zero sorrisi e ancora meno disponibilità a parlare.
  “Non dico nulla, fotografi e giornalisti qui non sono benvenuti. La comunità è aperta ai semplici visitatori, ma non a chi vuole ficcare il naso. La rete televisiva SBT e la rivista Veja in passato ci hanno intervistato e hanno detto e scritto cose ignobili, totalmente distorte.”
  Faccio notare alla matrona che è proprio perché non voglio scrivere baggianate che mi sono sbattuto per arrivare fin lì, prendendo un costoso aereo e infilando le scarpe seminuove in mezzo metro di fango. Ma la mummia si dondola su una sedia e mi osserva basita, silenziosa più di una pietra. No comment. A nulla servono nemmeno gli aumma aumma di Lenine che, forte di comuni conoscenze (è figlio della nipote della cugina della zia che, duecento anni prima, andava a scuola con Dona Peregrina), prova a convincerla delle mie buone intenzioni. Niente da fare, il massimo che riesce a strapparle di bocca è un “Ah, bei tempi, quelli!”, e nulla di più. Altro giro di fango sino alla macchina, improperi trattenuti contro la terza età arteriosclerotica.
  Stessa sorte, o quasi, alla sede locale dell’União do Vegetal, la terza corrente principale del daime nata a Porto Velho, nell’attiguo Stato di Rondônia, e di lì esportata nell’Acre. Con filiali in Spagna, Inghilterra e USA, questa setta ha regole molto più rigide di quelle della ‘Barquinha’: negli abiti, nei canti, nel ballo (marcette, valzer, mazurche). Tutto quello che riesco a ottenere, però, è il numero del cellulare del Maestro Tin (non Tim; sì, anche i ‘maestri’ hanno il cellulare), il quale si fa desiderare e, comunque, mi preannuncia che la macchina fotografica, se mai mi concederà udienza, la dovrò seppellire. Lo saluto e gli auguro telepaticamente che i peggiori timori sull’uso dei cellulari, quando gli studiosi avranno finito di indagare, si rivelino più che fondati.


  Il tre è un numero magico, soprattutto da queste parti, e infatti il terzo giorno, finalmente, incontro (stavolta faccio da solo: Lenine, ogni tanto, lavora) qualcuno non ottenebrato dai troppi ‘tè’ bevuti, dal sospetto, dalle invidie di casta e di condominio. Si tratta di Maurilio Reis, simpaticissimo leader, assieme all’altrettanto simpatico e disponibile Marcial, della comunità Colônia Cinco Mil, a dodici chilometri da Rio Branco. I due ‘padrini’, in realtà, mi ricevono in quello che è l’avamposto della Cinco Mil, la Pousada da Fundação São Sebastião. Qui alloggiano i curiosi/fedeli del daime giunti da altre regioni del Brasile o dall’estero e diretti alla Cinco Mil o alla ‘centrale delle centrali’, la Céu do Mapiá, la maggiore comunità dedicata al daime, nel vicino Stato di Amazonas. Quando arrivo sbatto contro due ragazze giapponesi in ciabatte, un relativo marito inglese, una ciccia paulista e un ragazzo locale che, così mi racconta, è stato riportato sulla retta via dal daime dopo un’adolescenza di sesso, droga & rock’n roll. Le giappe cucinano cose incucinabili e portano calzini bianchi immacolati; l’inglese vigila la moglie (conosce gli italiani); la paulista va su e giù per le stanze, anche lei indaffarata con questioni culinarie; l’indigeno mi mostra le croste purulente che ha sulle gambe, ricordo della Leishmania braziliensis, un insetto particolarmente simpatico che abita certe zone salubri della foresta e che ama depositare le uova sotto la pelle dei cristiani.
  Ma torniamo a Maurilio, piccoletto e con occhi vivi da folletto. Sorriso sempre stampato sul volto (roba che non guasta, soprattutto dopo la simpatia di Dona Peregrina) e quell’evidente pizzico di follia/luce negli occhi che denotano i geni. Piomba nella pousada con un diavolo per capello, sbraitando ai quattro venti.
  “Quelle brutte teste di cazzo dell’IBAMA! Vogliono imporci una tassa di trecento reais per raccogliere il cipó! Ma se credono che tiriamo giù le braghe solo per pagare le birre a quegli imboscati di impiegati stanno fritti. Piuttosto mi faccio arrestare davanti ai loro uffici, ma non prima di aver chiamato un paio di giornalisti amici miei. Impiegati cretini. Il daime non lo vendiamo, viene distribuito gratuitamente. Dove pensano che li andiamo a trovare tutti quei soldi?”
  Maurilio è furibondo con la burocrazia bulgara degli enti statali, ma non per questo mi riceve meno gentilmente.
  “Benvenuto, come posso aiutarti?”
  “Fotogiornalista italiano, non bulgaro. Ficcanaso. Mi aiuti?”
  “Certo, vieni con me, che facciamo un salto alla Cinco Mil.”
  Lascio, non senza lacrime, le giappe ai fornelli, e seguo Maurilio a bordo del suo pick-up scassato. Dopo qualche chilometro di sterrato arriviamo alla comunità, che deve aver visto momenti migliori. Il luogo, infatti, è deserto, se si eccettua per una dozzina di contadini e muratori in pausa pranzo. Immerse nel verde, una chiesetta e una grande baracca per gli alloggi comunitari, tutta in legno.
  “La Cinco Mil - mi racconta Maurilio - fu fondata nel 1975 dal Padrino Sebastião e deve il suo nome al fatto che, all’epoca, il terreno su cui sorse fu pagato cinquemila cruzeiros. Nel periodo in cui era in auge, la comunità arrivò a ospitare quattrocento persone, tutte impegnate, oltre che nella preghiera, nella coltivazione della frutta, dei vegetali e del riso. Poi, nel 1980, fu fondata l’altra comunità, quella di Céu do Mapiá, in una zona remota dell’Amazonas, con più privacy. La Cinco Mil fu abbandonata e tutti si trasferirono là. Per arrivarci da Rio Branco bisogna prendere un autobus fino a Boca do Acre, dove un albergo funge da punto di ritrovo per chi segue il daime. Di lì si continua in piroga, per almeno dodici ore, o con una voadeira, una lancia veloce, ma in questo caso il viaggio è molto costoso. Se ti fai l’intero viaggio da solo, senza dividere con qualche compagno, puoi arrivare a spendere settecento reais (circa duecento euro). È a Mapiá che oggi si concentra il grosso della comunità, con circa quattrocento persone da tutto il mondo, incluso qualche italiano. Abbiamo anche una piccola ‘filiale’ ad Assisi, sai?’
  “A-Assisi???”
  “Sì, nella culla del cattolicesimo più tradizionale.”
  “E il papa che ne pensa?”
  “Ci tollera. Abbiamo chiese un po’ in tutto il mondo. Molte in Giappone, dove vado una volta all’anno.”
  Giapponesi. Pazzi. Li (le) adoro.
  Maurilio mi guida attraverso la folta vegetazione, fino a un laghetto che sembra uscito da una cartolina. Su una sponda svetta una bella casetta di due piani in costruzione, dove i muratori lavorano alacremente.
  “È di un francese. Da quando ha iniziato a frequentare la comunità ha deciso di farsi una villetta qui. Chiamalo scemo.”
  Le piante di cipó e di folha da Rainha, gli ingredienti di base del ‘tè’, crescono dappertutto, e Maurilio me li fa notare.
  “Dopo la raccolta vengono bolliti per almeno due giorni in grossi pentoloni.”
  Raggiungiamo la ‘cucina’, un piccolo piazzale protetto da una tettoia di lamiera, e Maurilio mi mostra come si prepara il beverone. Prende un trancio di cipó e lo batte con una mazza di legno su un tronco. Quindi pesta la folha in un mortaio. Poi tutto viene diluito in acqua e messo a bollire per ore, giorni. Servono quarantotto ore per ricavare quaranta litri di bevanda. I pentoloni da caserma sono circondati da strani dipinti e simboli che raffigurano il padre fondatore. Sebbene la Cinco Mil sia considerata una comunità ‘deviata’ dalla dottrina originaria, non so per quale minimo dettaglio, il ritratto di Irineu Serra svetta su un dipinto molto naïf. Alle spalle una grande scritta ‘dottrina del Juramidan’, termine indefinito che riunisce svariati significati mistici, più un terço mariano, una croce doppia.
  “Questo è il magazzino” - Maurilio apre una stanzetta e mi fa vedere diversi bottiglioni di prodotto. Qualcuno, durante la notte, ha sverginato una finestra, rompendo un vetro per fregare qualche bottiglia di fattanza liquida.
  “Cretini. Bastava chiederlo, glielo avremmo regalato.”
  Il colore del liquido picchiatello sembra quello del chai, il tè indiano al latte, ma il sapore non è lo stesso. Ci infilo un mignolo e mi passo il polpastrello sulla lingua. Il gusto è piuttosto schifosetto, un acido/amaro che mi ricorda il peyotl.
  “Hai già provato il daime?”, mi domanda Maurilio.
  “No, ma prima o poi lo faccio. Sono curioso, però voglio più tempo per stare qua, per approfondire la faccenda. Non lo voglio sperimentare come se fosse un nuovo sapore di gelato, così diventerebbe una semplice droga. E poi, vista la potenza, non vorrei farmi prendere dalla paranoia. Conosco già troppa gente che, dopo aver giocato con gli allucinogeni, ci è rimasta sotto. Un’amica di Bologna, quando mi vede, mi parla di anedòtti e ogni anno va per due mesi di vacanze in un ospedale di Bombay.”
  “Sì, hai ragione, almeno per quanto riguarda l’evitare il mordi-e-fuggi. Ma il daime NON è un allucinogeno. Allucinazione è frammentare paranoicamente la realtà, percepire ciò che è fuori e dentro di noi senza un senso di unità. Noi diciamo, semmai, che il daime fa l’effetto contrario: aggrega lucidamente e in maniera gioiosa, attraverso l’espansione della consapevolezza, tutti i dati che elaboriamo nello stato di percezione extrasensoriale. E se lo prendi - il daime si prende, non si beve - con qualcuno che lo conosce e ti guida non c’è alcun rischio. Non esiste il pericolo di overdose, al massimo vomiti tutto. Basta non esagerare con il dosaggio, non più di due dita di un bicchiere.”
  “Va bene, quando torno lo prendo e, magari, mi faccio guidare da una giapponese, tá bom?
  “Tá bom.”
  “Un’altra, fondamentale domanda. I conti non mi tornano quando alle ‘porte della percezione’ si uniscono concetti cattolici. Qual è il nesso? Perché Cristo, e non Buddha o Maometto? O Pelé?”
  “Il Brasile ha una profonda religiosità di matrice cristiana. Ma il daime, almeno per me, non è da intendersi come una dottrina esclusivamente legata a questa religione. Sebbene tutto il rituale ruoti attorno a Dio e a Cristo, chi prende il daime può avere visioni di carattere strettamente personale, inerenti alla propria realtà quotidiana, anche in forma laica o agnostica. Il fine ultimo è quello di rispondere ai propri dubbi di ordine intimamente umano e sociale, con l’obiettivo di trovare un’armonia con il mondo e con se stessi. Da tutti coloro che lo seguono, comunque, il culto del daime è considerato un’evoluzione del cattolicesimo.”
  Il tour della comunità termina nella chiesetta, piuttosto disadorna ma molto fresca. Fuori l’umidità e il calore sono allucinanti, ma lì dentro, come in tutte le chiese, si respira un’aria gradevole, tanto che qualcuno ha lasciato del riso a essiccare ai piedi di un’immagine sacra.
  “Ha un significato rituale?”, domando da vero ficcanaso del National Geographic, indicando il riso.
  “No, è che qui è più fresco e secco.”
  “Quando viene frequentata la chiesa?”
  “Solo nei giorni di festività ufficiale. I fedeli hanno un’uniforme bianca e verde e si radunano solo in certe date. Così come il daime, che viene bollito solo in alcune giornate ritenute adatte.”
  “E quali sono le differenze, rispetto alle altre dottrine?”
  “Se esistono, sono minime. Irineu Serra era un ex soldato, per cui nel rituale che inventò immise una serie di comandi e di gerarchie che si rifacevano all’esercito. I maestri sono ‘comandanti’, i fedeli ‘soldati’ ecc. Nella ‘Barquinha’, invece, tutto è ispirato alla marina militare - ecco il perché delle uniformi blu - e i maestri sono almirantes, ‘ammiragli’. Piccole sfumature, dettagli di un’unica dottrina. C’è chi ci tiene a queste differenze, ma per me, in fondo, sono solo aria fritta.”
  “E quelli dell’União do Vegetal?”
  “Dogmatici, strangolati da mille regole e regolette. I fedeli sono iscritti e pagano una quota, e la setta ha un sacco di chiese in tutto il Brasile e in mezzo mondo.”
  “E per quanto riguarda il rapporto con la legge? Il daime è considerato una droga?”
  “No, non è proibito, ma ci fu un periodo, durante la dittatura del 1964, in cui la polizia civile cercò di stangare la comunità adducendo che lo chá era una droga, dopo decenni di uso legale. Irineu, però, aveva ottimi agganci con i militari, per cui il daime non fu mai proibito. Brasilia mandò una commissione di militari, scienziati, psicologi e antropologi a investigare se il daime potesse causare dipendenza e provocare problemi di ordine sociale. Nulla di ciò fu riscontrato, anzi, si stabilì che il culto aveva una funzione sociale. In questi anni il suo utilizzo ha tolto molti adolescenti sbandati dalla strada, gente che si era persa nell’alcol e nella droga, quella vera, e che si è ritrovata seguendo la dottrina.”
  “E all’estero?”
  “Là fuori, dove ben pochi conoscono il daime, negli ultimi anni si sono verificati episodi sconcertanti. Qualche membro della comunità è stato arrestato negli aeroporti olandesi e spagnoli con un po’ di chá e solo a processi ultimati si è stabilito che la sostanza non era una droga. Per cui non sono stati condannati. Però di rogne ne hanno avute parecchie.”
  Mentre torniamo al pick-up Maurilio mi racconta un po’ di sé.
  “Vengo da Ouro Preto, nel Minas Gerais, e sono anarchico. Anzi, credo che persino l’anarchia sia troppo istituzionalizzata, quindi diciamo che non sono niente. Da giovane ero un hippy e durante il periodo della dittatura venni a sapere che nell’Acre c’era qualche scoppiato che seguiva i rituali degli indios, bevendo una strana bevanda che dava effetti molto particolari. Lasciai tutto quello che avevo, abbandonai un lavoro sicuro e mi fiondai qui. Non me ne sono mai pentito. Qui incontro gente di tutto il mondo, parlo diverse lingue e ogni anno mi faccio almeno un paio di viaggi all’estero, per visitare le altre comunità. Tra un po’, infatti, dovrei fare un salto ad Assisi. Se ti va ci andiamo assieme, così potrai provare il daime a casa tua, nel cortile del papa.”
  “Considerami prenotato.”


 P.S. Il mondo è bello perché strano. Guardate un po’ che cosa ho trovato sul sito di La Repubblica, qualche tempo dopo il mio incontro con Maurilio:

Ad Assisi, la Casa Regina della Pace era il centro di spaccio.
Ventiquattro ordini di custodia cautelare a ricchi professionisti
Dietro il movimento religioso una traffico di allucinogeni
PERUGIA - Sulla targa della sede di Assisi c'è scritto Casa Regina della Pace. Ma i finanzieri, dietro il movimento religioso Santo Daime, la cosiddetta Religione della foresta, hanno scoperto un'organizzazione che spacciava stupefacenti. Ventun persone arrestate, tre ordini di custodia cautelare recapitati in carcere ad altrettanti imputati già detenuti. L'operazione "Mistica" svela un giro internazionale di allucinogeni e mette il naso in un sodalizio criminoso che aveva radici in Brasile e diramazioni nei maggiori paesi europei; in Italia, le sedi di Santo Daime erano in Piemonte, Lombardia, Liguria, nel Lazio e nella zona del Trieste. Oltre alla Casa Regina della Pace ad Assisi, il Santo Daime a Trieste, il Caminho das estrellas a Milano e Genova. Tra gli adepti del movimento, laureati e professionisti, tra i 25 e i 60 anni, con discrete disponibilità economiche.
Iscriversi al movimento costava dai 15 ai 30 euro ma per ogni rito gli associati dovevano versare altri 45 euro (per due riti, sconto di 15 euro). Niente soldi in contanti: i versamenti erano indirizzati ad una banca di Miami, in Florida.
Due volte alla settimana, nelle sedi del movimento, i "sacerdoti" celebravano riti pseduoreligiosi durante i quali distribuivano agli affiliati una droga liquida di color marrone chiamata Santo Daime. Gli esperti la considerano un allucinogeno pesante, capace di provocare effetti devastanti sul sistema nervoso. La bibita veniva distillata da piante coltivate in Brasile e recapitata agli affiliati che ordinavano via e-mail.
La droga raggiungeva l'Italia per via aerea. Dall'agosto scorso, sono stati sequestrati 40 litri di Dmt (dimetiltriptamina) fino a domenica scorsa quando, a Reggio Emilia, finanzieri della polizia tributaria di Perugia hanno fermato il principale indagato che fuggiva verso il Mozambico con due litri di droga. Altri sequestri erano avvenuti agli aeroporti di Perugia, di Ciampino a Roma, a Cassinelle, in provincia di Alessandria, e a Milano.
Secondo la Guardia di Finanza gli adepti al movimento sono migliaia, sparsi un po' in tutto il mondo. Il movimento pseudoreligioso Santo Daime fu fondato agli inizi del XX secolo in Brasile ma oggi conta affiliati nel sud e nel nord America oltre che in Olanda, Spagna, Germania, Francia, Portogallo e Italia: la sede di Assisi era la principale tra le agenzie italiane.
(18 marzo 2005)


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