lunedì 7 maggio 2012

COSTARICA - TASSISTI DAVVERO LADRI


Tassisti ladri, qualche volta pensiamo, quando a fine corsa dobbiamo aprire il portafogli e arriva il sala$$o. In Costarica questa frase, a volte, per fortuna di rado, va presa alla lettera. Non tanto per l’esosità della corsa, ma perché il tassista è un ladro, travestito da altro. Se viaggiate in autobus fate grande attenzione ai bagagli mentre siete in fila alle biglietterie delle autostazioni, anche quelle piccole. A San José imperversano i finti tassisti che, in combutta con i ladri, vi fanno volatilizzare il bagaglio in una frazione di secondo. Qualche tempo fa ero nella sala d’attesa dell’autobus per Ciudad de Panamá, quando sento urla da Quartieri Spagnoli provenire dall’esterno. Una donna guatemalteca, in attesa di un altro autobus, ha beccato un tassista che si sta dileguando con un passeggero che ha appena prelevato la valigia di una famiglia di nordamericani in fila per fare il biglietto. La donna deve avere tendenze suicide, tanto da essersi piazzata davanti al cofano del taxi, piazza Tienanmen-style, così da impedirgli di ripartire. Manovra davvero rischiosa, in una città in cui i mariuoli non ci pensano due volte a prelevare la tua vita, oltre ai tuoi averi, se reagisci. A San José, nel dicembre 2006, Giorgio Gallo, uno studente di Cosenza, fu ucciso con due colpi di pistola da due pezzi-di-mierda che volevano rubargli il computer portatile. Anch’io, negli ultimi tempi, devo aver sviluppato tendenze suicide.  Quando incappo in qualche porcata del genere mi si gonfia la vena, sempre che qualcuno non mi tenga calmino con una calibro 38 puntata sulla medesima vena. Di truffe e truffette ne ho viste troppe, la mia tolleranza politica si è esaurita da tempo.
Corro fuori e apro una portiera del taxi, quella del ‘posto del morto’, di fianco al tassista. Urlo cose ispaniche-bolognesi, minacciando di spaccargli la portiera se prova a partire (il chofer ha già ingranato la prima e sta sgasando, ma in Costarica le portiere nuove costano). Tassista e passeggero mi mandano occhiatacce inceneritici, ma non reagiscono fisicamente, anche perché ormai intorno all’auto si è creato un capannello di gente incarognita. L’auto rimane dov’è, con il suo carico umano di malavitosi all’interno. Dopo un bel po’, troppo bel po’, finalmente, arriva la polizia.


Nella mia ingenuità, alimentata da troppi film americani (sono un avido spettatore della mitica Cops®), mi sogno che le forze antidisordine puntino un cannone alla tempie dei due, li facciano scendere naso incollato all’asfalto e li ammanettino, tenendoli fermini con un ginocchio conficcato a metà spina dorsale. In realtà i due sbirri, giunti in moto, devono essere due di coppe appena usciti dall’accademia. Sbirri timidi, se mai può esistere il genere. Si limitano a fare un’indaginetta all’acqua di rose fra i presenti, ad annotare la targa del taxi, a chiedere a me e alla guatemalteca che cos’è successo. I gringhi proprietari della valigia non riescono a raccontare granché, parlano solo inglese e i poliziotti solo spagnolo. Ma che cippa aspettano a portarli in gattabuia? Sembrano tergiversare per l’eternità. La guatemalteca racconta loro di come i due avessero un palo, una donna che, vista quale piega aveva preso la giornata lavorativa, ha pensato bene di dileguarsi dopo che avevamo fermato il taxi. 
Visto che non succede nulla, ne approfitto per fare una foto all’autista, che mi uccide a parole, cui rispondo con una serie interminabile di hijo de puta! Per fortuna non scende e non mi macella, come senz’altro avrebbe fatto se la sua auto ormai non fosse circondata da mezzo quartiere, lì a ficcanasare. Uno spettatore mi maltratta a chiacchiere, sventolando una pseudo-giustificazione nazionalista del lavoro del tassista e del suo socio, i due tengono famiglia, in un proclama lampo anti-gringos e pro-latinos. Gli rispondo che la mia non è una crociata anti-ticos (i costaricani), che anch’io penso che il pueblo jamás será vencido, ma che un ladro è un ladro (ed eventualmente pure un hijo de puta), sotto qualunque bandiera si trovi a operare.
Alla fine la cosa sembra sbloccarsi. Il taxi e il suo carico viene scortato dai due poliziotti al commissariato più vicino. La guatemalteca li segue per fare una deposizione scritta, io rimango lì a ricevere i thanks dei gringhi (purtroppo niente dollaroni sonanti; ma in America non è fisso il 15% di mancia??) e a prendere il mio bus dopo breve. Con la convinzione che, compilate le scartoffie, e passata una notte in gattabuia, i due saranno rilasciati il mattino seguente.
Finito il teatro, rientro nella sala da aspetto dove mi rendo conto che, preso dalle scalmane per la sceneggiata, quando sono uscito in strada a difendere le valigie altrui ho bellamente dimenticato le mie - computer, macchine fotografiche, passaporto, tutto - nella saletta, a disposizione del primo pellegrino che passa. Mi è andata bene, benissimo. Oltre a non essere stato freddato, nessuno ha toccato le mie cose. Oggi deve essere il mio giorno fortunato. Però, la prossima volta, non lo faccio più, lo giuro.

domenica 6 maggio 2012

PERÙ - HUARÁZ E LA CORDILLERA BLANCA


La cittadina di Huaráz è il principale centro della Cordillera Blanca, la frangia montuosa più imponente delle Ande peruviane (circa 400 km a nord di Lima), e una delle più importanti mete turistiche nel Nord del Paese sudamericano. Situata a 3090 m di altitudine, Huaráz si trova nella valle del Rio Santa (il cosiddetto Callejón de Huaylas), una vallata inclusa tra la Cordillera Blanca e la parallela Negra: quest'ultima attraversa tutto il Sud America, partendo dal Cile e arrivando fino alla Colombia. Le due catene montuose sono completamente differenti fra loro, per quanto riguarda la composizione geologica. Della Cordillera Blanca fanno parte ben trentadue vette che superano i 6000 metri d'altezza e, tra queste, il monte Huascarán (6768 m), che è il settimo del Sud America e il primo del Perù per elevazione.







Il nome della città deriva dalla parola quechua Huara, che significa ‘pantalone corto’, un tempo utilizzato esclusivamente nella zona, e indossato con i colori tradizionali dell'etnia locale, il bianco e il nero. Huaráz è situata al centro esatto di un'area in cui il clima varia a seconda dell'altitudine. Questa zona è considerata come una specie di paradiso terrestre dai cosiddetti ‘andinisti’ - scalatori e trekkers delle Ande - provenienti da tutti gli angoli del globo. Nell'area circostante, infatti, è possibile fare camminate e scalate per tutti i gusti e i gradi di difficoltà (ci sono ghiacciai perenni), e nel centro abitato è quanto mai facile approntare, organizzare, equipaggiare spedizioni con guide locali, coordinate da numerose agenzie.








Il 31 maggio 1970 la Cordillera Blanca fu il centro del più disastroso terremoto, in termini di perdita di vite umane, nella storia dell'intero continente sudamericano. La forte scossa del nono grado della scala Richter fu seguita, il giorno stesso, da un'alluvione biblica che seppellì, in pratica, tutto ciò che il terremoto aveva lasciato intatto. Il sisma provocò la morte di circa 80.000 persone, distrusse quasi tutte le città e i villaggi della zona, e lasciò più di un milione di abitanti senza casa. La quasi totalità della città di Huaráz fu rasa al suolo (tutta la zona che oggi si estende a sud dell’Avenida Raimondi venne completamente ricostruita dopo il sisma), ma il centro abitato che peggio ne risentì fu la piccola cittadina di Yungay, a 61 km da Huaráz: dalle pareti del monte Huascarán si staccarono circa quindici milioni di metri cubi di granito, che si andarono a riversare, assieme ad altri tre milioni di metri cubi di ghiaccio perenne, su tutta l'area sottostante, seppellendo l'intera Yungay e uccidendone la quasi totalità degli abitanti (19.000). La cittadina fino ad allora era considerata sicura - protetta com’era da un’altura di circa 200 m -, ma la valanga la oltrepassò; i pochi che riuscirono a salvarsi trovarono rifugio sulla collina del cimitero.




Oggi, della vecchia Yungay, non rimangono che le spoglie di quella che, un tempo, fu la piazza principale: uno squarcio semidesertico di terreno, con quattro palme e la carcassa di un camion seppellita per metà, ritorta come un cavatappi. A ricordo delle numerose vittime sono state sparse qua e là, a seconda di dove si è ipotizzato fossero le corrispondenti abitazioni, tombe familiari, e lo spettacolo è desolante: in pratica, un cimitero nel deserto. La ricostruzione della zona (da cui è nata Nuova Yungay, un chilometro e mezzo più a nord) è stata realizzata da molti paesi, tra i quali Cuba, la Svizzera, l'ex Unione Sovietica e l'ex Germania Occidentale.
Nella città di Huaráz, ricostruita modernamente come tutti i centri abitati della zona, si trovano molte le agenzie di ‘andinismo’, un'infinità i cambiavalute ambulanti e, virtù rara nel Perù d'oggi, una grande quiete: a tutto ciò va aggiunto l’interessante e piccolo museo archeologico, che conserva alcune mummie terrificanti, antiche e rattrappite. Lo stesso ben curato museo raccoglie anche la maggior parte dei resti dei monoliti e delle sculture in pietra di Chavín, vicino centro-fortezza preincaico. Gli altri resti di Chavín sono conservati, invece, nei più importanti musei di Lima.








Il complesso archeologico di Chavín de Huantar (raggiungibile in autobus da Huaráz, a 109 km) è assai importante in Sud America, poiché rappresenta la prima forma di vita (850-250 a.C.) dell'intero continente. Dai suoi abitanti, Chavín (situata a 3150 m d’altitudine) veniva considerato il "Centro del Mondo", ed era, per quell’epoca, uno dei luoghi più ricchi per quanto riguarda lo sviluppo agricolo: questo particolare benessere permise la formazione delle prime stratificazioni sociali e di una cultura molto forte. Le divinità principali del culto di Chavín - tutte predatrici - erano tre: l'Arpia, l'Anaconda e il Giaguaro. Dal 1972 si scava per portare alla luce tutta l’antica cittadella preincaica. Sebbene oggi delle rovine resti pochissimo - ad eccezione della piramide che nasconde il monolito Lanzón -, le costruzioni di Chavín erano, per i suoi tempi, opere di alta ingegneria, studiate alla perfezione ed erette in riferimento al sole, alla luna e alle stelle: tutta la struttura faceva riferimento al sistema astrale, secondo un disegno compatto e omogeneo. Il tempio più importante e meglio conservato della vallata di Chavín è il Templo Viejo (o El Castillo, “il Castello”, probabilmente dell’800 a.C.), un edificio a forma di piramide tronca che contiene El Lanzón, il monolito di 5 m (la “grande lancia”: in effetti riprende la forma di un giavellotto) su cui è scolpita la divinità più antica della cittadella: un incrocio tra un felino, un serpente e un'ape. La piramide è circondata da un cortile circolare e, all’interno, è attraversata da un sistema di labirinti e di corridoi sotterranei. Su uno dei muri esterni spicca una testa aggettante in pietra, l’ultima rimasta tra quelle che la decoravano. Prima dell'arrivo degli Incas, Chavín subì due invasioni di altre popolazioni, con le conseguenti contaminazioni culturali che, in meno di quattrocento anni, la portarono alla totale distruzione.






Altri importanti resti archeologici, nella zona attorno a Huaráz - seppur molto scarni in confronto all'imponente Machu Picchu -, si trovano a Wilcahuaín, piccolo agglomerato a sette-otto chilometri dalla città, ove sono situate alcune rovine in stile Tiahianuco, risalenti al 1000 d.C. Wilcahuaín è collegata a Huaráz attraverso un comodo sentiero, facilmente percorribile a piedi, lungo il quale si possono scorgere, sui tetti delle case, antiche croci in ferro: un'usanza cattolica, derivante dalla tradizione coloniale spagnola. Il sito archeologico è formato da due complessi circondati da mura in pietra, probabilmente risalenti al periodo preincaico.
Le camminate e le montagne più frequentate della Cordillera Blanca si trovano, invece, a nord di Huaráz e a est dei villaggi di Yungay (la nuova) e di Caráz (77 km da Huaráz). Quest'ultima è un altro centro rurale dell'Ancash - la regione nella quale la Cordillera Blanca si snoda e che conta circa 900.000 abitanti -, dove è possibile pernottare economicamente. Le due lagune di Llanganuco (3800 m)- distese nella gola omonima, la più profonda della Cordillera -, ad esempio, sono una tappa d'obbligo per chi si trova in questa zona, situata all'interno del Parco nazionale dell'Huascarán, sede di spedizioni provenienti da tutto il mondo, CAI compreso. Il parco venne istituito nel 1975, e si stende lungo la cordigliera per 158 chilometri. Il luogo è spettacolare quanto freddo. Non esistono alloggi sul posto, se non la propria tenda. Inoltre, per chi non ha molto tempo a disposizione o gambe allenate, l'unica maniera per raggiungere le lagune sono escursioni organizzate da Nuova Yungay o pick-up privati che, difficilmente, lasciano un tempo sufficiente per visitare la zona in maniera adeguata.

Pubblicato su Sabor




THAILANDIA - AYUTTHAYA


La città di Ayutthaya, situata 72 km a nord di Bangkok, fu la più prosperosa tra le numerose capitali dell’ex Regno del Siam, oggi Thailandia. Essa conservò questa posizione privilegiata per ben 417 anni, prima che la sede del governo venisse spostata più a sud - a Thon Buri - e, quindi, a Bangkok. Questa gloriosa città fu fondata oltre 600 anni fa e oggi è un attivo centro abitato da circa 60.000 persone. La localizzazione di Ayutthaya è da sempre stata ideale, in quanto si trova su un’isola circondata da tre importanti fiumi (il Chao Phraya - o Menam -, il Pa Sak e il più piccolo Lopburi) e un canale artificiale che, assieme, formano un grande fossato. Queste vie fluviali sono sempre state utilizzate come vie di comunicazione con il rigoglioso Nord, così come con il mare a sud - volendo si può raggiungere Bangkok in barca -, da parte di numerose imbarcazioni che qui trovavano il porto di approdo e di partenza. È per questa ragione che la città crebbe, economicamente e socialmente, ancor prima che vi venisse stanziata la sede del regno siamese.



I resti archeologici, uniti alle testimonianze storiche, suggeriscono come, ancor prima che Ayutthaya divenisse capitale del Siam, alcune comunità khmer avessero popolato zone non lontane dall’isola (XI sec.) e come forse, addirittura, esistessero alcune città nella regione che costituivano, da sole, un piccolo stato. Queste popolazioni avevano abbracciato l’induismo e il buddhismo Mahayana - una delle sue correnti principali -, come testimoniano alcune costruzioni all’interno e nella prima periferia dell’isola.
Ayutthaya deve il suo nome ad Ayodhya, la casa del dio Rama nel racconto epico indiano Ramayana, che corrisponde al sanscrito ‘imbattibile’, ‘inespugnabile’; il suo intero nome in thailandese sarebbe Phra Nakhon Si Ayuthaya (‘Città Sacra di Ayodhya’).
Ayutthaya assunse il ruolo di capitale nel 1350, succedendo alla magnifica Sukhothai - situata molto più a nord ed evacuata a causa di calamità naturali -, sotto il regno del suo primo re Ramathipbodi I (conosciuto anche col nome di Phra Chao U-Thong), in un periodo di monarchia assoluta. Questo re era un protettore del buddhismo - allora ai primi passi nel Siam - che, in seguito, divenne la religione nazionale.
Quando, alla fine dei suoi giorni come capitale, Ayutthaya cadde nelle mani dei birmani (nel 1767, dopo ripetuti attacchi e assedi), i re che si succedettero - appartenenti a dinastie diverse - erano stati ben trentatré, di cui Ekatat fu l’ultimo. Da quel momento, il suo successore, re Taksin, dichiarò l’indipendenza e stanziò la nuova capitale presso la città di Krung Thon Buri.



Il governo stabile per ben 417 anni di Ayutthaya come capitale riuscì a rendere possibile la centralizzazione del Regno Siamese. Tuttavia, numerosi cambiamenti si susseguirono durante questo regno, anche nel lungo periodo di Ayutthaya, il più prestigioso dell’intera storia della Thailandia. Le dimensioni del Regno di Ayutthaya crebbero o diminuirono sotto ogni re a seconda del suo potere e delle sue capacità nell’arginare l’invasione e gli attacchi birmani, ai quali, comunque, la città dovette soccombere nel XVIII secolo. Fintanto che il regno si espanse o si rimpicciolì, si ebbero scambi culturali e influenze religiose - soprattutto durante il XVII sec. - con i cinesi, i giapponesi, gli arabi, gli indiani, i portoghesi, gli inglesi, i francesi e gli olandesi. I diversi stranieri che vennero a stabilirsi nella capitale - commercianti o semplici civili (soprattutto soldati di ventura) -, furono abili nel seguire le loro attività, riuscendo, nel contempo, a estendere le loro religioni ai siamesi. Fu in questo periodo che i primi missionari cristiani diedero inizio alla loro opera di proselitismo in Thailandia. La prima chiesa cattolica fu fondata dai portoghesi, per mano di un prete domenicano, nel 1555, alla quale seguirono altre chiese erette dai francesi - la più importante delle quali è quella di San Giuseppe, del 1666: quando fu distrutta, una nuova chiesa venne costruita sulle sue fondamenta, durante il regno di Rama V e, ancor oggi, continua a essere frequentata dalla piccola comunità cattolica locale.



Ma non sono certo i resti del cattolicesimo a rendere famosa la zona archeologica di Ayutthaya, una fra le più importanti del Paese. Il complesso del Palazzo Reale aveva tre residenze principali. Nel 1440 queste dimore vennero date alle fiamme e, sulle loro ceneri, sotto il regno di re Tri Lokanat, ne vennero edificate di nuove. Tra queste si trovavano le residenze Suriyat-amarin e Banyongrattanat, presso cui il re abitava; la Viharasomdet, utilizzata per le funzioni cerimoniali, e la Chakrawatphaichayon, usata come punto di avvistamento per eventuali nemici da parte dei militari, come luogo ove svolgere festival tradizionali e, a volte, per ospitare visitatori e amici de re. A quest’ultimo scopo veniva adibita anche la residenza Sanphetprasat. Oltre a queste lussuose residenze, esistevano anche una casa per gli elefanti - considerati animali sacri -, stalle per i cavalli, giardini, pozzi, la piscina personale del re, padiglioni, vivai per i pesci, una ruota ad acqua e un sistema di drenaggio, interamente in mattoni. 


Tutte queste costruzioni erano contenute all’interno di una cinta di mura, dotata di garitte, cancelli e piccole fortezze. Il muro meridionale costituiva una sporgenza che abbracciava il Wat Phra Si Sanphet, il monastero reale, riconoscibile oggi per i tre grandi stupa, la tipica struttura a campana buddhista. Il tempio serviva da cappella privata del re e ospitava le cerimonie solenni di stato. Questa tradizione di possedere un monastero all’interno delle mura del palazzo reale continuò fino a quando la capitale fu spostata a Bangkok.
Un altro luogo storico dell’isola di Ayutthaya è il Palazzo Chan Kasem (o Chandrakasem, il cosiddetto Palazzo ‘di Fronte’, del 1577), in cui visse il re Neresuan fino all’incoronazione - quando, cioè, era ancora Principe della Corona. Una terza struttura, il Palazzo ‘del Retro’, spiccava sul lato occidentale delle mura. Costruito durante il regno del re Pramahathamaracha (1569-90), in seguito fu chiamato ‘Giardino Reale’.



Durante il periodo di monarchia assoluta il re esercitava un potere totale. Le sue principali responsabilità erano quelle di propagare il buddhismo e di difendere il regno dalle invasioni nemiche, soprattutto birmane. Per raggiungere questi obiettivi furono eretti - per decreto reale - palazzi, monasteri, mura, torrette di avvistamento e fortini. Queste strutture erano costruite in mattoni o in pietra, per meglio resistere all’erosione degli agenti atmosferici e al tempo. Il popolo, tuttavia, abitava in case ed era protetto da strutture in legno, stanziate soprattutto lungo il fiume, la principale via di comunicazione: l’uso della pietra per costruzione era riservato esclusivamente agli edifici religiosi. I semplici cittadini si guadagnavano da vivere con l’agricoltura e il commercio, quest’ultimo concentrato in distinti centri fieristici, ognuno dei quali specializzato secondo il tipo di merci (alimenti, vestiario, attrezzi, ecc.).


Oggi, non meno di quattrocento wat - templi o monasteri - rimangono sull’area dell’isola e nelle sue immediate vicinanze. All’interno di ogni wat si trovano edifici quali stupa, chedi (monumenti a forma di campana, atti a ospitare un’effigie del Buddha), vihara e uposatha (sale per le ordinazioni). Gli stupa venivano costruiti per contrassegnare località ritenute importanti per il buddhismo e per contenere le reliquie del Buddha (capelli, denti, ossa), tavole votive o tesori appartenenti ai re e alle loro famiglie. Alcuni contengono addirittura la ceneri di antichi nobili, ufficiali o uomini facoltosi, il cui aiuto economico alla costruzione o al restauro di un monastero era stato fondamentale. Le forme degli stupa variano a seconda delle influenze artistiche e stilistiche dei diversi periodi. Restauri successivi furono spesso realizzati con uno stile diverso e più moderno, così che oggi ogni stupa rimasto in piedi ha stili differenti, pur su una base caratterizzata da un solo stile, che corrisponde al più antico.



Altri edifici ritenuti indispensabili e ancora attuali, all’interno di un monastero, sono il vihara e l’uposatha: il primo è un edificio contenente una o più immagini del Buddha, presso il quale vengono tenute cerimonie di premiazione. L’uposatha è, invece, una costruzione circondata da pietre sacre che la delimitano, all’interno della quale vengono celebrate le ordinazioni dei monaci.
I monasteri sono sempre stati considerati, da parte dei thailandesi, luoghi di studio e di preghiera di fondamentale importanza. Di conseguenza sono divenuti, nel corso della storia, anche importanti centri artistici. Tra le rovine di Ayutthaya le forme artistiche si sono manifestate su stucchi, elementi architettonici e dipinti, spesso raffiguranti le storie della vita del Buddha (le famose 550 Jatakas), i viaggi di alcuni monaci da Ayutthaya a Ceylon - la patria del buddhismo - o leggende riguardanti il Bene e il Male.
Altre funzioni che i monasteri di Ayutthaya ebbero nel corso della storia includono quelle di luoghi per celebrare vittorie militari (come nel Wat Khunmuangchai) o per giurare la propria fedeltà al re. Servirono, inoltre, per scopi militari, come campi di addestramento o, dai nemici - dopo averli conquistati - come accampamenti per le loro truppe (Wat Phukhao Thong, costruito da re Ramesuen nel 1387; Wat Mae Nang Plum; Wat Maheyong; Wat Na Phramen, restaurato nel XVIII sec.). Nei monasteri, addirittura, si organizzarono alcune ribellioni, ospitando i rivoltosi (Wat Ratcha Praditsathan; Wat Yai Chai Mongkhon, costruito da re Naresuen); oppure vi trovarono rifugio la famiglia reale e i nobili (Wat Pradu Songtham) e, in un caso, vi vennero giustiziati (Wat Khok Phaya).



Gli edifici di Ayutthaya furono abbandonati e lasciati in rovina dopo la caduta della città in mano ai birmani - che seppero abilmente l’insolita morfologia della città a isola, la stessa che in passato aveva aiutato a proteggerla, per conquistarla - e il trasferimento della capitale a Thon Buri. Numerosi tesori furono rubati da diversi predatori della regione. Quando il re Rama I salì sul trono e fece costruire Bangkok, diede inizio anche al restauro dei monumenti di Ayutthaya - dopo una prima fase di smantellamento per utilizzarne i materiali da costruzione altrove - e ordinò di erigerne di nuovi. Far rivivere lo splendore passato di Ayutthaya divenne un’importante campagna politica ufficiale e un motivo di orgoglio nazionale. Alcuni templi furono restaurati secondo lo stile originario, mentre altri subirono influenze del periodo di Bangkok. I dipinti murali di molti edifici vennero restaurati e ne furono disegnati di nuovi come, ad esempio, quello interno al Wat Pradu Song Tham, raffigurante una processione, realizzato durante il regno di Rama IV. Il restauro delle antiche rovine di Ayutthaya continua ancor oggi, in una Thailandia sempre più moderna e in corsa per uscire dal sottosviluppo: l’importanza storica dell’ex capitale del Siam rappresenta un patrimonio insostituibile per i thailandesi.


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REPUBBLICA CECA - LE PIPE DI RE CARLO


Il negozio di pipe di Karel (‘King Charles’) Hingar e del figlio David.
A Praga.

Al n. 19 della Štěpánská, traversa di piazza Venceslao, Praga, c’è un piccolo negozio che sembra uscito da un libro di fiabe. E il proprietario, soprannominato ‘King Charles’ (Re Carlo), non è da meno. Si tratta dell’impronunciabile negozio di pipe Království dýmek, del pipaio Karel - Charles o Carlo, appunto - Hingar e dal figlio David.

Pipe fai-da-te, per chi non si accontenta di fumare
Nel negozio si possono acquistare, o anche solo ammirare, tutte le marche di pipe ceche, in parte (10%) fatte artigianalmente, da quelle a testa di toro, a quelle decorative, di ceramica, a quelle ‘grezze’, per i gentlemen che desiderano modellarle da sé. Cubi grezzi di radica, a cui è stato apportato un semplice foro e applicato il bocchino, adatti a chi entra in negozio senza sapere esattamente che cosa acquistare. Il resto, signori, ve lo fate da voi. Potrete così dare loro la forma che vorrete. Smeriglio e fantasia, gli unici ingredienti necessari per questo ‘Lego degli adulti’. Agli inizi David dava una mano ai clienti fai-da-te, poi, viste le dimensioni esigue del negozio-laboratorio, ha dovuto abbandonare questo divertimento.




Tra le pipe fatte dagli Hingar - un centinaio all’anno, solo occasionalmente su commissione - si annoverano le Kopson-King Charles (completamente fatte a mano dai due), le Krška, le Kopa (entrambe fatte a mano) e le Jirsa (fatte a mano per metà). Queste ultime sono simili, come produzione, alla maggior parte delle altre pipe ceche, fatte a macchina e parzialmente a mano. A queste si aggiungono le gigantesche pipe di ceramica bianca con disegni naturalistici, una tradizione mitteleuropea diffusa nella Repubblica Ceca, in Austria e in Germania. Oggi usate più per bellezza che per fumare, fanno coppia con le pipe dalle medesime forme, ma in legno, tradizionali della Boemia e della Moravia. Il negozio, ovviamente, vende anche un gran numero di pipe straniere, provenienti soprattutto dalla Danimarca, dal Regno Unito, dalla Germania, dall’Irlanda e dall’Italia. Tra queste ultime si annoverano le Savinelli, Ser Jacopo, Mauro Armellini, Cavicchi, Ascorti.




Clienti, prezzi, tabacco, storia
I prezzi delle pipe vendute da Království dýmek sono davvero per tutte le tasche. Si parte da una pipa ceca da 150 corone (circa 6 euro) a una Dunhill inglese da 17.000 (680 euro). Svariati pure i tipi di tabacco in vendita, ma nessuno prodotto nella Repubblica Ceca,. Quello più ‘locale’ ha nomi cechi, ma è fatto in Germania per il mercato ceco. A questo si aggiungono quelli importati dalla Danimarca, dalla Svezia, dal Regno Unito e dall’Irlanda. Tra i clienti stranieri, che scoprono il negozio grazie a qualche guida turistica o al passaparola tra portieri d’albergo della zona (Nové Město, la ‘Città Nuova’), ci sono italiani, tedeschi, danesi e, ultimi arrivati, russi. Veri e propri cultori della pipa, gli Hingar hanno curato per sette anni una rivista trimestrale dedicata alla pipa (l’ultimo numero risale al 2000) e ne hanno addirittura pubblicato due libri - uno su come fumare la pipa (1999), l’altro sul tabacco (2000): 1100 tipi differenti, a seconda della pipa utilizzata -, purtroppo solo in ceco. Lingua non per tutti…
La loro avventura nel mondo della pipa iniziò nel 1990, quando - riprese le liberalizzazioni dopo un quarantennio di comunismo - Karel Hingar si mise a vendere le sue pipe su un banchetto presso il vecchio mercato all’aperto di Havelský trh, mercato con circa un secolo di storia alle spalle. L’anno successivo inaugurò il negozio (aperto dal lunedì al venerdì dalle ore 10 alle 18, tel. 00420-222232431; solo David parla inglese, niente italiano), specializzato soprattutto in riparazioni. E, nel 1995, le pipe Hingar fecero la prima comparsa on-line (www.kralovstvi-dymek.cz, e-mail hingarkarel.dymky@seznam.cz). Sito sul quale sarà possibile acquistarle, nel prossimo futuro.



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INDONESIA - SUMATRA, RICEVIMENTO KARO


I Karo sono una delle cinque etnie Batak che popolano il Nord dell'isola di Sumatra, una delle tremila presenti in tutto l'arcipelago indonesiano. Sono per il 90% di religione protestante - importata dal colonialismo olandese - e conservano tradizioni di antica data. Sono gli unici, in tutta l'Indonesia, a possedere gli ‘uomini-medicina’, specie di dottori che curano gratuitamente chiunque ne faccia richiesta. Gli ‘uomini-medicina’ utilizzano le più svariate ricette per ricavare i loro unguenti naturali. Un elemento comune, che è alla base di tutti i loro farmaci, è l'Uruk Benga, un uccello in via d'estinzione - proprio a causa della sua utilità -, necessario, dicono, a ricongiungere le ossa spezzate. È questo un animale singolare, in quanto se gli vengono rotte le ossa, è in grado di ricominciare a volare in un paio di giorni. L'uccello viene solitamente cotto, tutto intero, nell'olio, e ciò che ne rimane è utilizzato come farmaco. Il governo indonesiano sta studiando un piano per difenderlo dall'estinzione, con scarso successo.
I Karo, però, non sono noti solo per gli ‘uomini-medicina’. Essi hanno anche la peculiarità di organizzare fastosissimi ricevimenti nel periodo che precede il matrimonio. Prima di congiungersi, ogni coppia che si rispetti deve tenere una grande festa, a cui partecipano centinaia di persone. Il ricevimento è frutto di anni di preparazione, nel corso dei quali si lavora duramente per mettere da parte il denaro necessario a coprire le molte spese, e poter manifestare, così, il prestigio delle due famiglie. Una volta raccolta la somma, si preparano i costumi e si spediscono gli inviti a tutti i conoscenti nei villaggi vicini e, verso le dieci del mattino del giorno stabilito, inizia la grande kermesse.







Il luogo di ritrovo è una grande tettoia che può ospitare, sedute, più o meno cinquecento persone. Alla mattina presto, o addirittura il giorno prima, il lavoro attorno al capannone è intenso. Si tagliano a fette enormi pezzi di carne di maiale, si preparano veri e propri bidoni (usati in origine per il kerosene) di riso, si pulisce e si ricopre di tappeti il pavimento, utilizzato nelle altre occasioni come piazza principale del villaggio, in cui incontrarsi, giocare a pallone, tenere il mercato. Le donne si occupano della pulizia del locale e preparano centinaia di stoviglie; gli uomini pensano alla cucina. Improvvisamente un annunciatore/coordinatore inizia a impartire ordini ai presenti, urlando a squarciagola in un microfono o in un altoparlante, aggirandosi nervosamente per il piazzale, predisponendo tutto l'occorrente per la buona riuscita della festa: «Un tappeto va messo per il lungo anziché per il largo, quel cane si sta mangiando la carne per gli invitati, prendetelo a calci!». L'annunciatore, che parlerà instancabilmente durante tutto il ricevimento, è una delle tre figure ricorrenti della cerimonia Karo, l'Anak Beru: è il principale responsabile della riuscita della festa, e appartiene alla famiglia dello sposo: è, di solito, il fratello (tutti, in Indonesia, hanno almeno un fratello o una sorella). Alle sue dipendenze, per eseguire gli ordini, l'Anak Beru ha un folto gruppo di aiutanti, i Menteri.
Incominciano ad arrivare, ammassate nei bemo - specie di Ape-car usate come taxi -, le famiglie degli sposi, rigorosamente separate all'interno del piazzale. Sotto l'ala sinistra si siedono i parenti dello sposo, a destra quelli della sposa. Una rappresentanza di entrambe le famiglie si dispone in piedi lungo l'entrata principale del capannone. Iniziano così eterni stringimani a tutti gli invitati che, lentamente, arrivano a frotte e si accalcano sotto la tettoia, divisi in gruppi, a seconda della sottotribù Karo di appartenenza.







I parenti degli sposi indossano costumi coloratissimi. Le donne hanno un enorme cappello (tudung), unico nel genere al mondo, che tengono chiuso con spille da balia; gli uomini, sopra alla giacca e i pantaloni 'buoni', 'da festa', portano un sarong, abito tradizionale indonesiano, intrecciato da fili dorati.
Tutti gli invitati e gli appartenenti alla famiglia dello sposo devono fare, all'entrata, lunghissime riverenze e felicitazioni ai diversi Puang Kalimbubu, seconda figura caratteristica del ricevimento, la più importante fra tutte. I Kalimbubu appartengono alla famiglia della sposa, e vanno rispettati quasi come dèi lungo tutta la durata della festa. Costoro, tuttavia, non sono obbligati a fare altrettanto con la famiglia dello sposo, considerata inferiore.
L'ultima figura ricorrente della cerimonia è il Senina, generalmente il cugino della sposa, il quale ha la stessa importanza dello sposo. Questa divisione di ruoli - che viene utilizzata anche in occasione dei funerali - deriva dal sistema patriarcale dei Karo, ed è piuttosto democratico, in quanto permette alle persone di cambiarsi di ruolo da una festa all'altra: chi è Anak Beru durante un ricevimento, in quello successivo potrà essere Kalimbubu, e viceversa. Tutti, dunque, possono essere, almeno per una volta, 'importanti' come il Kalimbubu.
Finalmente arrivano i futuri sposi, con un lungo seguito di parenti più o meno stretti. Gli stringimani si moltiplicano, e i due vengono fatti accomodare al centro della sala. L'annunciatore parla a voce sempre più alta, e il volume dell'altoparlante, quasi al massimo, fa piangere i bambini più piccoli.





Da questo momento in poi continueranno nel corso di tutta la mattinata discorsi interminabili, prolusioni commemorative a non finire, lunghe e noiose, tenute un po' da chiunque: amici, parenti, anziani saggi. Ogni tanto alle parole si alternano canti lamentosi e stonati e, nelle feste più imponenti, si ascolta anche musica, e tutti ballano, mentre l'Anak Beru parla della felicità futura degli sposi e inventa nuovi ordini da impartire ai lavoranti.
Durante il ricevimento, presso appositi banchetti, vengono raccolte donazioni in denaro per gli sposi: nessuno, fra gli invitati, si esime dall'offrire almeno una piccola cifra. I nomi degli innumerevoli donatori e la relativa somma versata sono accuratamente annotati su lunghissimi elenchi e, a fine giornata, l'ammontare sarà piuttosto elevato. Oltre al denaro, i parenti stretti fanno regali in natura: riso, sarong, e due grandi materassi nuovi, ancora avvolti nel cellofan, portati fino al luogo di ritrovo arrotolati sulla testa delle donne.
I discorsi ora si trasformano in ammonizioni per il futuro, e i due promessi sposi ascoltano in silenzio, con aria assorta. Vengono quindi avvolti da un'anziana del villaggio in un enorme sarong e, se già hanno dei bambini, alle femmine sono infilati i primi orecchini. È quasi normale avere da tempo dei figli, dal momento che la coppia convive già da un lungo periodo, durante il quale non ci si è sposati perché la somma necessaria per organizzare il ricevimento non era ancora stata raccolta.
L'Anak Beru non ne può più di parlare, guarda impaziente l'orologio e ormai non sa cosa inventare: parlare in continuazione, per ore ed ore, e dire sempre qualcosa di sensato non è facile.
Ora le raccomandazioni sembrano finite, e lo sposo ringrazia timidamente al microfono, pronunciando un breve discorso, l'ennesimo, a voce bassa. Un'altra anziana lancia goffamente nell'aria alcune manciate di riso, contro gli invitati, quindi, finalmente, arriva il momento più importante del ricevimento, da tutti atteso con ansia: il pranzo. Giganteschi pentoloni di riso, assieme a secchi (veri e propri) di carni con litri di sughi, vengono portati sul piazzale, e i Menteri riempiono le centinaia di piatti che distribuiscono, attraverso lunghe catene umane, a tutti gli invitati.




Il piatto di base è riso con fagioli, carne e vegetali; ma i Kalimbubu e gli ospiti d'onore - come qualche raro visitatore straniero - hanno diritto a una prelibatezza in più: le terites, il bolo non ancora digerito dalla vacca al momento della macellazione. Appena estratto ha colore e puzzo di un escremento, ma, una volta cotto, si riesce a mandare giù. Per i Karo questo piatto è una squisitezza, e gli ospiti 'd'onore' non possono fare a meno di mangiarlo, per buona educazione. Prima di gustare il pranzo, però, tutti devono pregare, a occhi chiusi: per pochi secondi la sala, dopo ore di baccano come sottofondo, cade in un silenzio profondo, interrotto solamente dai bambini che piangono. I meno religiosi e i più affamati, con poco rispetto, non attendono che la preghiera sia terminata, e assaggiano le prime boccate di cibo, quasi di nascosto.
Dopo l'amen finale, esplode un'abbuffata generale, frenetica e rapidissima. Le posate sono costituite dalle mani - come in molte parti dell'Indonesia - e i pochi visitatori stranieri, non abituati a consumare il cibo in questa maniera, impiegano il triplo di un Karo per terminare il proprio piatto. Sembra quasi che molti invitati siano venuti al ricevimento esclusivamente per abbuffarsi, vista la loro voracità, ma non può essere così, dal momento che ognuno ha versato una cifra ben superiore al costo del cibo.
Le donne masticano in continuazione foglie di betel, che colora la bocca di rosso e ne accelera la salivazione. Radunate in circoli sotto la tettoia, raccolgono le grandi quantità di sputo rossastro in barattoli riciclati di latte condensato, andandoli a svuotare, ogni tanto, fuori dalla recinzione del piazzale.
Non appena tutti sono satolli, la festa, improvvisamente, si spegne. In pochi minuti l'annunciatore saluta per l'ultima volta, riavvolge il filo del microfono, e ognuno se ne torna alle proprie abitazioni, negli altri villaggi. Come lentamente il ricevimento si è protratto lungo tutta la mattinata, ora, in un istante, tutto finisce, la magia del luogo scompare, e non rimane altro che un po' di amaro in bocca (dovuto probabilmente alle terites), oltre, ovviamente, allo stomaco strapieno.

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