lunedì 24 ottobre 2011

CINA - TUTTE LE STRADE (CINESI) PORTANO A SHANGHAI


FORSE LA CITTÀ A CRESCITA PIÙ RAPIDA DEL GLOBO, SHANGHAI CI RIPORTA A MOLTI ‘ALTROVE’: AMERICA, EUROPA, ASIA. TUTTO - ARCHITETTURA, CUCINA, ARTE - QUI SEMBRA AMALGAMATO IN UN UNICUM VOLUTAMENTE INTERNAZIONALE. 
FIN DALLE SUE ORIGINI.

Tutte le strade portano a Shanghai’, si potrebbe dire, volendo scimmiottare il detto degli antichi Romani e, soprattutto, il disegno filosofico-architettonico di Victor Sassoon, mecenate/imprenditore miliardario che volle l’Hotel Cathay, rinominato Peace nel 1956. Per capire il suo disegno basta entrare nella hall che connette la reception alla sala da tè e al corridoio che porta alle camere. Sarete catapultati indietro nel tempo, verso il periodo scintillante dell’Art Deco e verso le vostre prime lezioni di geometria. Quasi come in un caleidoscopio, qui nessuna linea è lasciata al caso. La struttura ottagonale, sul pavimento e sulla cupola-lucernario, porta irrimediabilmente lo sguardo al centro. Disegno volutamente simbolico, tracciato nel periodo in cui la città era il centro del mondo, almeno di quello asiatico, al terzo posto per la finanza dopo Londra e New York. Qui succedevano cose, e Mr. Sassoon ha voluto ricordarcelo per l’eternità. L’Asia è sempre stata Asia-centrica, rivolta verso il proprio ombelico, anche se oggi sembra voler imitare l’Occidente in mille maniere - la moda, le finte bionde, le auto importate, un inglese sempre più diffuso - e anche quando nei momenti di boom economico si è dovuta/voluta aprire al mondo di fuori. Mentre gli architetti tiravano le righe del Cathay, dell’epicentro dell’universo, il jazz arrivava in città. Accolto con successo, perché Shanghai, a differenza della millenaria Pechino, non aveva ‘muri della tradizione’ che impedivano l’accesso al nuovo e all’importato. La città era appena nata, costruita quasi a tavolino dopo una spartizione commerciale fra inglesi, francesi e giapponesi, sulle ceneri di un’accozzaglia di prosperosi villaggi in cui si viveva di riso, pesca e tessitura. Terreno fertile, su cui costruire il Nuovo. La strategica posizione geografica, sul delta dello Yangzi, ne faceva una ‘portineria’ naturale. Non a caso il Cathay fu costruito su un gomito della grande autostrada d’acqua, nel cuore del Bond, la via più ‘vecchia-Europa’ (e/o imitazioni americane e russe) d’Asia. Dalle sue sale si poteva - e ancor oggi si può - ascoltare la sirena delle imbarcazioni che si trascinavano sulle acque del fiume. La sua sala da tè - Mr. Sassoon era un cultore maniacale della bevanda; sfogliate le decine di pagine del menù odierno riservate al tè, capirete tutto o quasi di questo luogo - era una specie di sofisticato salotto dal quale, mettendo il naso fuori dalle finestre, si poteva capire chi era arrivato in città. Entrare qui, allora, non era cosa per tutti, ma se ce la facevi indossavi immediatamente un accappatoio invisibile che profumava di élite, di eletto fra gli eletti. E accedere al salone da ballo, poi, era una specie di terno al lotto, riservato solo a chi era Davvero Qualcuno e aveva prenotato con mesi d’anticipo. Al Jazz Bar suonavano band arrivate da Saint Louis, Louisiana, seguite anni dopo da gruppi locali che avevano imparato e imitato alla perfezione il sound giunto dall’altra parte della terra. Poi arrivarono i giapponesi, che trasformarono l’hotel in una specie di campo di concentramento per diplomatici stranieri. Poi i comunisti, e Mr. Sassoon lasciò la sua intrasportabile, mastodontica creatura Deco e se ne andò a godere gli ultimi dieci anni di bagordi della propria vita alle Bahamas. Poi il capitalismo alla cinese, e l’hotel è risorto dalle ceneri, tornando a fasti di antica memoria.






Il primo periodo del boom economico e di immagine internazionale della città, alla fine degli anni Venti del secolo scorso, deve essere stato un momento in cui i ricchi con ego importante, sogni di eternità e ambizioni di riconoscimento competevano per attribuirsi la centralità del mondo. Nel suo ‘piccolo’, negli anni Cinquanta, epoca comunista che rivedeva le cose, il meno quotato Park Hotel, allora l’edificio più alto della città a qualche isolato dal Cathay-Peace, fu riconosciuto come vero centro da cui calcolare le distanze, come chilometro-zero di Shanghai. Lo ricorda, con tanto di lucetta rossa nel cuore, una mappa metallica dorata nella hall dell’albergo. Qualunque fosse o sia il centro dei centri - dettaglio da ingegneri -, certo è che a Shanghai c’è da divertirsi a giocare con linee e geometria. Uscite dal Peace Hotel, per esempio, e raggiungete la base (ma attenti a non calpestare l’erba!, altrimenti un soldato vi sgriderà dicendovi cose brutte) della statua di Mao. Tracciate una linea ideale fra la sommità del tetto del Peace (77 metri d’altezza), il naso di Mao e la sfera superiore della Pearl Tower, il simbolo più recente, Manhattan-style, della città-camaleonte, dall’altra parte del fiume, nel quartiere di Pudong. Con questo esercizio virtuale da geometra avrete connesso, in qualche centinaio di metri, le tre epoche fondamentali della crescita urbana: Deco scintillante da città leader nel panorama asiatico, rivoluzione comunista, neocapitalismo architettonico per stabilire, ancora una volta, il primato (stavolta reale: la Cina, economicamente e demograficamente, travolgerà tutto e tutti). Tratta questa linea, percorrete la sua perpendicolare, trascinandovi lentamente lungo la Grande Passerella pedonale urbana, East Nanjing Road. Lì le linee ideali, e quelle reali dell’architettura, verranno continuamente spezzettate dal viavai umano, di locali e di turisti, intenti a fare lo ‘sdruscio’ tra vetrine di marchi presenti in ogni angolo del globo e quelle dei primati locali (il primo grande magazzino di abbigliamento di Shanghai, il primo dedicato al cibo). Se, poi, porterete in giro il vostro volto da turista occidentale - soprattutto se maschile - in mezzo all’umanità brulicante, la vostra linea retta, in direzione della People’s Square, sarà tutta una Z. Sì, perché dovrete fare un incessante slalom tra spacciatori di shopping (borse, orologi falsi), di droghe (mediorientali e russi che la polizia pare lasciar lavorare indisturbati) e di compagnia (graziose fanciulle free-lance che vi inviteranno a ‘bere un caffè’, guarda caso nel bar di un amico-complice che vi presenterà un conto esorbitante; indovinate chi dovrà pagare…). Già la seconda volta che si percorre la lunga via pedonalizzata, visti questi incontri così stimolanti, si viene irrefrenabilmente presi dalla tentazione di infilarsi sul trenino per turisti pigri, quello che per un paio di yuan vi trasporta da un capo all’altro di East Nanjing Road senza salti agli ostacoli. Ma così facendo si rischia di perdere il piacere degli incontri autentici, come ad esempio le occasionali adunate danzanti dei shanghainesi di mezza (o di terza) età. Almeno una volta alla settimana, verso l’ora del tè, si radunano più o meno a metà della grande via. Un sassofonista si piazza su un balcone e intona hits globali, un po’ da crociera, che fanno muovere agilmente le anche e tutto il resto a qualche scatenato Fred Astaire locale. Grande spettacolo, veracissimo, e se sapete ballare e vi butterete nella mischia lascerete una traccia memorabile nei racconti dei vecchietti locali. Uno di loro, saputo che ero italiano, ha iniziato a intonarmi Santa Lucia in cinese, esperienza impagabile, uno di quei rari momenti che ti fa dimenticare tutte le fatiche di un viaggio in Cina.






Alla fine del Grande Imbuto, di East Nanjing Road, si apre la Grande Piazza, ampia e dai contorni qua e là difficili da distinguere, sparpagliata a macchia d’olio e dominata, al centro, dal bel Renmin Park. Laghetti, coppiette, vecchietti che fumano fino all’ultimo pezzetto di polmone rimasto sano, giocatori di carte che investono tutti i loro averi, rane che si accoppiano sconciamente sotto gli sguardi dei bambini, qualche statua di Gloriosi Eroi del Popolo. Lì vicino, impossibile non vederla, l’ingombrante sala delle esposizioni per la pianificazione urbana, grande contenitore di un diorama gigantesco, in scala quasi 1:1 (città nella città), in cui se non avete ancora capito come vanno le cose da queste parti (vecchio = muffa da abbattere con le ruspe; nuovo = benessere scintillante, cemento a go-go, progetti faraonici sventra-vecchi-quartieri) vi farete al volo un’idea sulla Shanghai che i Sommi Pianificatori hanno stabilito in nome di tutti. Abitanti di vecchi quartieri luridi e pulciosi inclusi, in pratica deportati - ‘trasferiti’, secondo la diplomazia linguistica tutta cinese - in altri quartieri per far spazio ai sogni di grandezza di architetti, investitori e politici tutti improntati al Santo Futuro. Sul diorama date uno sguardo a com’era la città-villaggio agli inizi, e poi correte (con la metropolitana) alla base della Pearl Tower. Farete così un viaggio nel tempo che sa di teletrasporto. In meno di un secolo, in pratica, Shanghai ha bruciato tappe architettoniche come poche altre città del pianeta, nel bene e nel male. Certo è che, arrivandovi, si può provare una forte sensazione di déjà vu. Camminare a Pudong, lungo Century Avenue, ai piedi dei suoi grattacieli, oppure nei pressi delle strutture matte erette per l’Expo dell’anno scorso, vi catapulterà a Manhattan, o in qualche altrove in cui arte moderna e architettura sembrano essersi messe d’accordo per stupire a tutti i costi il piccolo essere umano. E se volete un po’ di vecchia Europa, elegante e a volte magnificente, basta passeggiare lungo il Bond, naso all’insù, per fare ooohhh a ogni palazzo mai umile, sempre volutamente intriso di messaggi importanti (ricchezza, eternità, spesso buon gusto). Poi, per un’Europa più raccolta, meno impegnativa e più amichevole, fate una bella camminata, partendo dalla Piazza del Popolo e percorrendo gran parte di Central Huaihai Road, quindi di Hengshan Road. Le vetrine - le solite, globali -, con i Grandi Nomi del primo tratto, assumeranno fisionomie più gentili, così come l’architettura residenziale, nell’ultima parte del tragitto. Gironzolate dalle parti di Dong Ping Road, in un mix tra Cina che fu e Quartier latin parigino, tra panetterie che sanno quello che fanno e negozietti da cui è quasi impossibile uscire a mani vuote. Oggetti non dedicati all’estrema sopravvivenza, ma al bello & futile. E poi ristorantini per palati esigenti. Insomma, un po’ di simil-Francia, nel cuore di quella che fu la Concessione Francese, quartiere-ghetto nato a metà Ottocento per scopi commerciali, all’epoca specie di isola felice per stranieri intoccabili (da parte delle leggi cinesi). Oggi tirato a lucido, con casette basse da farci un pensiero, se solo i costi non avessero prezzi da Manhattan. Poi, mangiata una baguette adeguatamente croccante, ricordiamoci che siamo in Cina. E inseguiamola.






Missione non facile, quella di inseguire la ‘vera Cina’ a Shanghai, soprattutto se per vera Cina intendiamo quella che fu. Un po’ perché la città, paragonata ad altre, millenarie, del colosso asiatico, è una specie di neonata, e un po’ perché, come detto, il nuovo avanza a velocità della luce. E sembra battere perfino quella della stampa editoriale. Investendo una trentina d’euro per acquistare l’ultimissima, recentissima, aggiornatissima edizione della Lonely Planet, su cui stanare un quartiere ‘vero, autentico, vecchio’, finirete con il prendere la metropolitana fino a Quibao, nella periferia sud-occidentale di Shanghai. Il quartiere-villaggio è indicato come città antica, ma, scusate lo snobismo europeo, forse gli australiani della Bibbia per Viaggiatori hanno poco chiaro il concetto di antichità. Oppure, più probabile, il trasformismo cinese batte, con tempi olimpionici, le stampe tra un’edizione e l’altra delle guide. Certo è che, sbarcando nella città antica, non si ha esattamente l’impressione di essere giunti a Pompei. Il quartiere, specie nei fine settimana, pare una specie di Disneyland per il turismo cinese. Architettura tirata a lucido, ma in pratica invisibile all’occhio umano, ricoperta com’è da bancarelle in cui si vende tutto ciò che è ipotizzabile vendere. Souvenir e gadget di natura assortitissima, ma soprattutto quantità industriali di cibo, a volte di difficile interpretazione per l’occhio/naso occidentale (amate i quiz? provate a riconoscere, nella mischia, la radice di fiore di loto riempita con riso e ricoperta da sughetto dolciastro appiccicoso). Quasi tutto, qui attorno, sembra divertente, inclusi i giretti in barca lungo il canale, per sentirsi un po’ in gondola. Ma, di certo, non antico. Sensazione identica che si prova nello sterminato bazar che ha fagocitato gli antichi giardini Yuyuan, in tutt’altra zona di Shanghai, a due passi dalla cosiddetta ‘città vecchia’ (altra datazione da rivedere). Il mercato è una vorticosa babele clonata da quella di Quibao (o il contrario?), ma se riuscirete a svicolare, come anguille, tra la folla dello shopping e a infilarvi in uno degli ingressi dei giardini annuserete la tanto ricercata antichità. Architettura d’altri tempi, tutta cinese, con micro-laghetti che fanno da casa alle carpe, tetti arricciati, belle piante, rocce-scultura, angolini appartati (ma attenzione al gruppo di turisti giapponesi, incombente dietro l’angolo). Tutto ciò vi sembrerà terribilmente antico, soprattutto se vi arriverete dopo un giro mattutino all’Expo (sveglia all’alba, nei fine settimana: per visitare il Padiglione Cinese ci vogliono due ore e mezza di coda) o, almeno, alla base dei grattacieli di Pudong. Se era la Cina che volevate - quella idealizzata, dei dépliant -, la Cina, finalmente, avrete trovato.






Ente Turismo Cinese
Via Nazionale 75 - 00184 Roma
Tel. 06 4828888
Fax 06 48913429
www.turismocinese.it

IN RETE
http://www.travelchinaguide.com/cityguides/shanghai.htm
Sito in inglese con svariate informazioni sulla città, dagli alberghi ai ristoranti, dai musei agli eventi, mappa della metro
http://en.wikipedia.org/wiki/Shanghai_cuisine
Sito in inglese di Wikipedia dedicato alla famosa cucina di Shanghai
http://www.historic-shanghai.com/?p=43
Pagina in inglese dedicata al jazz di Shanghai, nel passato e odierno


DOVE DORMIRE
Per un soggiorno da sogno a Shanghai concedetevi il lusso offerto dal fantastico Peace Hotel (20 Nanjing Road East, www.fairmont.com/peacehotel, tel. 021-63216888, fax 021-63291888, peacehotel@fairmont.com), all’angolo tra la parte finale di East Nanjing Road e il Bond. Il massiccio edificio, classe 1929, nasconde un tesoro di magnificenza ed eleganza. Gestito oggi dalla catena alberghiera canadese Fairmont, ma di proprietà statale, è forse l’hotel più prestigioso di Shanghai. Con 270 stanze e suite, ricche di tutti i comfort (caffè Illy, internet, vasca da bagno con televisore), a partire da 1929 yuan a notte, è un tempio dell’Art Deco. Le nove suite sono ispirate ad altrettante nazioni: Cina, Gran Bretagna, America, Italia, India, Giappone, Spagna, Germania e Francia. Due i ristoranti, entrambi eccellenti: The Cathay Room (9° piano) per la cucina internazionale e la colazione a buffet, con vista panoramica su Pudong e sul fiume Yangzi; Dragon Phoenix (8° piano) per la cucina cinese, ottima e curata, in una grande sala con belle decorazioni. Riaperto nel 2010 dopo tre anni di restauro, è ricchissimo di dettagli: marmi di Carrara, lampadari dell’epoca, decorazioni con levrieri Deco - simboli dell’hotel -, oggetti di vetro Lalique. Interessante la galleria-museo, con testimonianze dello sviluppo dell’albergo e dei numerosi VIP che vi hanno alloggiato.


DOVE MANGIARE
A Shanghai, un po’ come in tutta la Cina, i ristoranti sono aperti ogni giorno e si mangia presto. La mancia non è comune (a volte vi verrà restituita!) e quasi dappertutto si fuma ai tavoli, nonostante la legge lo proibisca. Infinite possibilità per la cucina cinese, in tutti i quartieri. Per quella shanghainese doc Lynn (99-1 Xikang Road, Jing’an, tel. 021-62470101, dalle 11,30 alle 14,30 e dalle 17,30 alle 22, 30), in un bell’ambiente Art Deco, oppure Yè Shanghai (338 Huangpi Road S., Xintiandi, Luwan, tel. 021-63112323), con dim sum brunch nei fine settimana e musica dal vivo a cena sempre nei weekend (non economico, dai 250 yuan in su). Per piatti dello Sichuan, Pin Chuan (5° piano, Plaza 66, 1266 Nanjing West Road, tel. 021-62888897), mentre per un mix di cucina shanghainese, cantonese e dello Huaiyang, Original Cuisine (63 Miaopu Road, Pudong, tel. 021-58609636). Nel cuore della Concessione Francese, vicino alla stazione della metro Hengshan Road, c’è solo l’imbarazzo della scelta per una cucina a 360°. Per una vera boccata d’aromi francesi, La Crêperíe (1 Tao Jiang Road, tel. 021-54659055), locale carino e accogliente, propone ottime crêpe e vini della Bretagna. A pochi passi Simply Thai (5C Dong Ping Lu, tel. 021-64459551, dalle 11 alle 23) offre piatti classici tailandesi in un bel locale. Nella stessa zona, la Brasil Steak House (Lot 8, 4 Hengshan Road, tel. 021-62559898) è una churrascaria brasiliana con servizio a rodízio (portate non-stop sugli spiedi direttamente a tavola) e buffet di antipasti, contorni e dolci, a prezzo fisso (88 yuan a pranzo, oltre i 100 a cena). Per un espresso italiano, in tutt’altra zona (vicino a People’s Square), Città (318 Fuzhou Road, tel. 021-51782065) ha anche piatti di pasta e pizza. A qualche isolato, l’ottimo e semplice ristorante giapponese Sagami (666 Fuzhou Road, tel. 021-63917618, dalle 11 alle 23) propone piatti saporiti ed economici, da un menù ampio, con qualche influsso cinese.


SHOPPING
Svariati oggetti interessanti possono essere acquistati in alcune boutique raffinate della Concessione Francese. Il Zen Li Fe Store (18 Yueyang Road, tel. 021-54665690, con altri due negozi in zona, entrambi al 7 di Dong Ping Road), vende begli oggetti ‘zen’: essenze per ambiente, artigianato, oggetti ricchi di design per decorare la casa. A breve distanza, l’interessante Pureland (1 Hengshan Road, quasi all’angolo con Dong Ping Road) ha ‘mobilio creativo’, in particolare colorate ceramiche dipinte con motivi cinesi, una volta tanto non kitsch. Non che offra prodotti caratteristici cinesi, ma vale la pena visitare la filiale locale di Alfred Dunhill (796 Middle Huai Hai Road, sempre nella Concessione Francese). Il negozio - home, come viene indicato in maniera altisonante - è all’interno di un bel complesso storico lungo la ‘via delle belle vetrine’ ed entrandovi, tra borse da viaggio e accessori di lusso, godrete di un’atmosfera da elegante museo. Chi cerca strumenti musicali a corda dovrebbe visitare la parte della Città Vecchia nei dintorni della fermata Yuyuan Garden (linea 10): tra violini Stradivari-style e strumenti tradizionali cinesi (violini, flauti, piano) c’è solo l’imbarazzo della scelta.


IL VIAGGIO
IL VOLO
Cathay Pacific (http://www.cathaypacific.com/cpa/it_) ha ottimi voli dall’Italia (4 da Milano e 7 da Roma ogni settimana) per Shanghai, con coincidenza a Hong Kong di circa un ora, a partire da 835 euro in economy. Eccellente il servizio di bordo e una business class rinnovata di recente, confortevole come poche altre.


COME MUOVERSI
Con oltre dieci linee, l’ottima metropolitana connette tutte le zone di interesse turistico, così come il centro ai due aeroporti (con il veloce treno Maglev per quello internazionale di Pudong, partendo dalla stazione Longyang della linea 2). I biglietti si comprano nelle stazioni presso i distributori automatici in inglese e il costo (pochi yuan) varia a seconda della distanza. Il biglietto va fatto scorrere sul sensore delle colonnine d’ingresso e inserito nelle medesime all’uscita. Da evitare le ore di punta, se possibile. I taxi sono relativamente economici ed efficienti, dotati di tassametro che emette la ricevuta per l’importo dovuto (di solito non occorre contrattare), difficilmente reperibili nelle ore di punta e all’uscita dei locali notturni più frequentati. È bene avere con sé un biglietto da visita o una guida con i caratteri in cinese da mostrare all’autista: nessuno parla inglese.






Fuso orario
Sette ore in più rispetto all’Italia, sei quando da noi è in vigore l’ora legale.

Documenti
Passaporto con almeno sei mesi di validità. Visto da ottenere in ambasciata o consolato (o presso le agenzie apposite), valido 30 giorni. È possibile ottenere l’entrata multipla (30 + 30 giorni), che però vi impone di uscire dal Paese dopo un mese, per poi rientrarvi.

Periodo migliore
Durante la nostra primavera e il nostro autunno, pressoché corrispondenti a quelle della zona di Shanghai.

Lingua
La lingua ufficiale è il mandarino, ma a Shanghai è diffuso il dialetto locale (‘Shanghainese’, del ceppo Wu). Poco diffuso l’inglese, se non tra alcuni giovani e in ambienti turistici.

Moneta
La moneta ufficiale è lo Yuan (RMB): un euro ne vale 8,50 circa.

Prefissi
Il prefisso internazionale per la Cina è 0086, quello di Shanghai 021. Per chiamare l’Italia: 0039.

martedì 18 ottobre 2011

CINA – IL PAESE GENTILE


Piccole storie di quotidiana maleducazione cinese

Leggete, se riuscite a stanarlo in libreria, La tigre con le dita nel naso – Guida pratica contro il mal di Cina (Giacomo Danieli, Editrice Zona, 2009). Dopo la lettura, se avevate voglia di visitare il Paese ‘dalla cultura millenaria’ probabilmente vi passerà. E se già la conoscete o vi abitate - come molti italiani all’in$eguimento di una delle poche economie globali dove forse è ancora possibile accumulare qualche spicciolo (se dotati di fortuna e scaltrezza) - troverete tutte le conferme, raccontate in maniera esilarante, del quotidiano orrore che vi circonda appena uscite dalla vostra stanza per immergervi nella giungla della maleducazione.
Se possibile, oggi la Cina è il Paese più capitalista al mondo. Avvolto in un plaid ufficiale di comunismo di Stato, all’atto pratico, nella vita di tutti i giorni, è il luogo in cui più l’individuo è lasciato a se stesso (se il Berlusca lo viene a sapere si rimangia tutto quello che ha sempre detto e pensato sui comunisti mangiabambini e termina i suoi giorni di latitanza nel buen retiro cinese, in un harem di troie – si dice che i cinesi, oltre alla pasta e a mille altre cose, abbiano inventato la prostituzione, here you go…). Sia da cittadino cinese, sia da turista, è desolante e deprimente dover vivere una vita da salto agli ostacoli, non appena si prova a mettere il naso in strada. Vediamo assieme come può essere una ‘giornata tipo’ in una città cinese qualsiasi.



Se vi è andata bene, e i vostri vicini di camera non vi hanno tenuti svegli tutta la notte con il loro televisore acceso a volume da deflagrazione e/o con il puzzo delle loro sigarette, avete dormito discretamente. Sveglia presto, perché la Cina lavora e accumula, non tergiversa a letto, è antiproduttivo. I rumori del mondo di fuori vi chiamano. E poi, se siete in un albergo, a quest’ora i vicini di stanza vi avranno già tirati giù dal letto, sbattendo la loro porta manco i cardini li regalassero, in ferramenta. Le addette alle pulizie sbattono porte e si urlano facezie lungo i corridoi, quando non prendono ordini dalla direzione via walkie-talkie, a volume deflagrante pure quelli, ça va sans dire. Primo passo: prendere l’ascensore, per scendere dal venticinquesimo piano del mostro di cemento in cui siete alloggiati. Davanti alle porte non c’è nessuno, vi mettete su un lato e premete il pulsante, attendendo che la scatola di latta arrivi. Quando è al piano, all’improvviso sbucano da chissà dove alle vostre spalle almeno cinque individui di sesso ed età assortite che apparentemente lottano all’ultimo spasimo per tagliarvi la fila e vincere la medaglia d’oro dello sport nazionale cinese (altroché pingpong): l’arrivo-prima-io (sport unisex, nella Cina comunista non c’è distinzione fra generi). Se non siete stati educati dalle orsoline e guardate un po’ troppi film americani d’azione, non appena avrete presagito con la coda delle orecchie lo sciame che si avvicina darete una spallatina al gruppo brado e la medaglia la vincerete voi. Se siete dei veri provocatori, poi, a vittoria conclusa, guarderete dritti negli occhi i perdenti, con voglia di sfida. Trattandosi appunto di perdenti, abbasseranno lo sguardo, e voi potrete leggere i loro pensieri (‘Straniero di merda, vabbè, lasciamo stare, tanto sono tutti matti’). Dentro la scatola, mentre scendete, potrete scacciare la noia deliziandovi i timpani con un’alternanza di suoni gutturali (le mattine, soprattutto quelle uggiose, sono ricche di catarro, che va espulso al più presto; il più presto è all’apertura delle porte dell’ascensore, nel posacenere all’ingresso) e urla al telefono cellulare, non importa se a tre centimetri dalle vostre orecchie. I telefoni portatili cinesi hanno sempre campo, anche se state girando su un carrello da minatore nelle viscere della Madre Terra; e i cinesi hanno sempre molte cose, tutte urgentissime, da dirsi. Arrivati a destinazione (pianterreno), preparatevi alla centrifuga. Il popolo dietro di voi vi spingerà come se l’ascensore stesse prendendo fuoco, quello che aspetta di entrare in realtà non aspetta alcunché, entra e basta, anche se voi siete ancora lì che cercate di uscire. La Cina non è un Paese per vecchi rincoglioniti, dunque prendete l’iniziativa, sapendo ciò che vi aspetta, e batteteli sul tempo: una spallata decisa a chi sta per entrare, una gomitata ai mufloni alle vostre spalle. Se non siete incappati in qualcuno più grosso e incarognito di voi ce l’avrete fatta, avrete conquistato il primo tassello della giornata: la strada. Ora sono davvero cazzi.


Il marciapiedi, così vi avevano insegnato durante l’età dell’innocenza, serve, servirebbe, a far marciare i piedi. Visto che di piedi in Cina ne circolano più o meno un miliardo e trecento milioni x2 (uno per gamba), potete fare un rapido calcolo e avere l’idea di quanto sia mediamente affollato un medio marciapiedi di una media città cinese. Il Grande Paese, però, non ama sprechi, dunque perché lasciare libero qualche centimetro quadrato di asfalto pubblico? Quando camminate fate spazio all’esercito di motorini – la bicicletta ormai è out, fa troppo contadino – che provano ad azzopparvi. I migliori, quelli che meglio aiutano le aziende produttrici di protesi degli arti inferiori, circolano in città come Guilin (Guangxi). Sono elettrici, dunque quasi-ecologicamente corretti. L’inquinamento sembra essere zero, anche se i marciapiedi prospicienti i negozi (tutti) sono un continuo salto agli ostacoli degli scooter sotto carica (produrre energia elettrica non inquina?). Se rispettosi dell’ambiente in senso lato, senz’altro questi motorini non sono rispettosissimi di parte del suddetto ambiente – voi -, almeno a giudicare dalla guida di chi li cavalca. La strada scorre lì, di fianco a voi, ma un motorino cinese che si rispetti predilige il marciapiedi. La strada, intasata da camion e autobus con le spalle grosse e da auto di potente cilindrata manovrata da nuovi ricchi che hanno appena comprato la patente non è indicata per le carrozzerie sottodotate. Le linee continue che imporrebbero il divieto di sorpasso devono essere trasparenti per gli occhi di autisti di camion e di autobus. La strada è pericolosa, il marciapiedi meno: cozzando contro le ginocchia di qualcuno il motoguidatore si fa molto meno male che andando a sfrantecarsi contro il paraurti di una betoniera. Occhi e orecchie spalancati, dunque, se volete arrivare a fine marciapiedi con le ossa ancora tutte d’un pezzo. Il nemico è alle porte, cioè alle vostre spalle. Arriva silenziosissimo – il motore elettrico fa il rumore di un’ape che ronza attorno a un girasole – da dietro, spesso condotto da un/a telefonista impegnato/a a dire cose di importanza storica per il futuro della nazione (telefono in una mano, l’altra sul gas, per centrarvi meglio). Dio bonino, quanto ho goduto quella sera a Yangshuo, dopo aver pasteggiato in strada, dal mio pusher personale di noodles saltati nel wok. Satollo, mi incammino per fare ritorno alla cuccia, percorrendo un marciapiedi di larghezza medio-bassa, decorato e intasato da ciarpame dei negozi, motorini parcheggiati alla bruttodio e cani e gente randagia. A un certo punto la vedo. Donnetta a bordo di Munstang a due ruote, fanali abbaglianti puntati contro le mie sante pupille, timone di bordo puntato sulle mie rotule. Velocità da crociera cento nodi. La larghezza del marciapiedi può contemplare al massimo il mio passaggio e il suo, purché a piedi. Uno specchietto retrovisore è di troppo, non ci sta. Con fare di chi sta pensando a cose ultraterrene, e con sguardo diretto al drago verde di plastica proposto dal negozio di giocattoli alla mia destra, allargo di un micron il gomito sinistro. Tanto quanto basta per sfiorare il suddetto specchietto in più. Senza farmi del dolore, senza farmi notare e, soprattutto, facendo deviare quanto basta la traiettoria del missile (al liceo in fisica me la cavavo benino). Risultato della lezione di applicazioni tecniche: come uno Shuttle impazzito, il Munstang e il carico subumano che lo cavalca vanno a rotolare rumorosamente tra i cesti del negozio. La zoccola si tira su, per fortuna non si è fatta male, e ancor più per fortuna non ha scalfito il bellissimo drago verde. Specchietti e fiancate della moto si sono scalfite, Dio esiste. Essa mi urla cose cinesi. Ma io non parlo né mandarino né dialetti minori, e poi sono concentrato sulle cose ultraterrene. Lei, ad altezza del terreno, non mi interessa. Un italicissimo ma và a caghèr le augura una buonanotte e un buon carrozziere (per fortuna non interviene alcuna Guardia del Popolo a farmi fare la fine di Richard Gere in L’angolo rosso). Credo di aver smesso di ridere mezz’ora dopo essermi addormentato.












Un utilizzo peculiare è quello che si fa a Guangzhou, ex Canton, di alcuni scooter arancioni. Il governo locale li concede (finalmente un po’ di comunismo applicato) ai portatori di handicap. Questi mezzi, però, non sembrano mai davvero finire nelle mani di chi ha qualche problema fisico. C’è sempre un parente dell’intestatario della moto con necessità di arrotondamento che si presta a fare il moto-tassista nel centro della città. Soprattutto dopo il tramonto. Gli stranieri sono i clienti preferiti, pagano meglio e non rompono le scatole. I più scaltri si portano appresso il familiare handicappato, e appena trovano un cliente lo abbandonano a zoppicare su un marciapiedi, per passarlo a riprendere a servizio concluso. Falsi invalidi italiani, pensavate di essere i più furbi? Avete perso. I cinesi vi hanno battuto non solo in termini di basso costo della manodopera, di taroccatura dei prodotti, di data di battesimo degli spaghetti e dell’escortaggio. Vi hanno fregato anche nel campo della creatività. 


Dalle due alle quattro ruote il salto è breve. Anche perché, prima o poi, il marciapiedi finisce, e dovrete attraversare la strada. È questa la vera prova del nove. Sì, perché anche se la comunità locale ha speso soldi pubblici in vernice bianca con cui decorare l’asfalto, come dice il sommo Danieli, le strisce pedonali sembrano servire più agli autisti per prendere la mira e centrarvi, che non ad attraversare incolumi. Anche in questo campo, peraltro, non abbiamo da insegnare alcunché a chicchessia, le strisce pedonali italiane servono ad ammazzare tanta gente quanta in Cina. La differenza, a voler essere dei puntigliosi ricercatori di sfumature, è che da noi, tra i pedoni, circola ancora la leggenda popolare che le strisce diano qualche specie di diritto a chi le calpesta, mentre in Cina questa velleità non è manco presa in considerazione. Nel Paese che un bel giorno tutto dominerà, si sopravvive alle strisce pedonali solo agli incroci regolati da semaforo + sbirro in uniforme a vigilare il flusso degli assassini su quattro ruote, L’unico vero deterrente che funziona è lo spauracchio della multa. Toccate i soldi a un cinese, è come se aveste dato della zoccola alla madre di un camorrista mentre siete a passeggio nei Quartieri Spagnoli. Non arriverete alla tazzulella e cafè.









Attraversare una strada in Cina, decorata o meno da inutili strisce bianche, è un’impresa non per tutti. Non per gli anziani, non per i bambini. E, a volte, semafori e strisce non bastano. Se un neoricco locale ha appena acquistato l’ultima Mercedes lanciata sul mercato, che cosa credete, che abbia speso tutti quei soldi solo per lasciarla in garage e far bella figura con gli amici? Un neoricco locale che si rispetti non attende un cazzo, perché Alte Missioni lo aspettano. Anche se siete nel mezzo dell’attraversamento pedonale mentre il semaforo lampeggia e l’omino verde vi fa l’occhiolino, dunque  starebbe a voi passare, non vorrete mica distogliere il commenda indigeno mentre parla al telefono e vi passa con copertoni Pirelli sulla punta delle scarpe? Cos’è, non siete sensibili all’economia che avanza? Siete per caso degli sporchi comunisti anticapitalisti??
Il più delle volte, affrontando lancia in resta un attraversamento pedonale, si rischia di passare poi al reparto ortopedico o, almeno, dal lustrascarpe. Attraversare fuori dalle strisce, su strade non regolate da semafori+sbirri, è puro suicidio. Non fatelo, se non dopo aver controllato tre volte tre che all’orizzonte nulla si muove. Non mi credete? E male avete digerito il trancio di montone al porridge che avete mangiato mezz’ora fa? Volete vomitare, ma non ce la fate a infilarvi due dita in gola? Guardatevi il video al link (in portoghese brasileiro)


dove una bambina viene trasformata in ragù da pneumatico, sotto gli occhi zero comunisti dei passanti. Dopo averlo visto, non ci sarà più dèpliant dell’Ente del Turismo Cinese che farà breccia nei vostri sogni da turista. La Muraglia Cinese, per voi, sarà crollata per sempre.


Se oggi è il vostro giorno fortunato, e per un puro caso del destino siete riusciti a raggiungere incolumi la Terra Promessa, l’altro lato della strada, ora vi sentirete invincibili. Non vi fermerà più nessuno. Potete anche affrontare le viscere della terra, se non su un carrello da minatore almeno su un vagone della metropolitana. Molte grosse città, in espansione rapidissima, negli ultimi anni si sono dotate di linee metropolitane fantastiche, da fare invidia a qualunque metropoli occidentale. Vagoni comodi e ipertecnologici, macchine automatiche per la distribuzione dei biglietti. Quello che manca, però, è il contorno: l’addestramento dell’essere umano all’utilizzo della suddetta tecnologia. Per accedere alla metro scendete una lunga scalinata, facendo il salto agli ostacoli tra venditori di pelli di bestie scuoiate e di DVD taroccati. Arrivati alle macchine automatiche, scovate il pulsante per l’inglese, ed evitate che qualche peone provi a tagliare la fila. Preso il biglietto, si parte. In giro ci sono cartelli più che evidenti sul divieto di fumo, ma il furbastro che se ne fotte c’è sempre, d’altronde nessuno si prende la briga di dirgli qualcosa. Sul pavimento davanti alle porte dei vagoni – che si fermano con precisione millimetrica – è tracciato, visibilissimo, un settore per fare la fila. Nessuno, a parte voi, la fa. Come il vagone arriva e le porte si aprono ci sarà sempre qualche testina di cippa che, aggirandovi alle spalle, vi passa davanti e si intrufola all’interno del vagone, quando ancora il flusso di gente sta provando a uscire. Fategli/le lo sgambetto, sarà come darvi una carezza da soli. E preparatevi a essere presi a schiaffi: non dallo/a sgambettato/a, ma dagli aliti all’aglio all’interno del vagone. Brutta bestia da digerire, soprattutto se ci fai la colazione. Cercate un posto a sedere, se c’è, a distanza di sicurezza da aliti velenosi e telefonatori compulsivi. Non vi interessa ciò che hanno da dire, cioè urlare, ai loro punti di riferimento. Anche perché, come già detto, non capite il cinese. Sopravvissuti all’attacco chimico, ora preparatevi ai quarterback di sfondamento: quelli che, mentre cercate di uscire dal vagone, proveranno a sfondarvi la cassa toracica per impossessarsi del posto a sedere prima della vecchietta zoppa e incinta che li precede. Gomiti in fuori, come sempre in funzione di ariete difensivo. Se siete dei provocatori incurabili questo sarà uno di quegli istanti che arricchirà la vostra giornata. Ogni incornato vi darà almeno un micro-orgasmo, lo giuro.





Ohhh, finalmente. Dopo tutta quella gente e quelle lamiere impazzite potete godervi il meritato pranzo. Ieri, passando di qui, avevate scorto un ristorante che deve avere i suoi perché. Propone la famosa zuppona mongola, portate non-stop di ciccia da cuocere con le vostre manine in un tegamone bollente ricco di verdure esotiche e funghi, nell’insieme un ben-di-dio a prezzo basso e fisso. E fin qui ci siete arrivati. Ma il problema ora è ordinare. Nessuna cameriera nel raggio di cinque chilometri, forse mille, parla inglese, e il menù è scritto in venusiano. Dopo troppi tentativi riuscite a ordinare solo perché quelli del tavolo vicino sono poliglotti e parlano lingue impossibili e sono riusciti a ordinare uno zuppone molto simile a quello che vorreste. I funghi sono un po’ diversi, ma non dovrebbero essere velenosi. A tempo di record vi arriva ciò che avete ordinato, ma mentre state per infilarvi in gola il primo succulento pezzetto di carne dietro il separé alle vostre spalle si scatena la Terza Guerra Mondiale. Baccano infernale. Siete un ficcanaso, per cui andate a ficcare naso e pure gli occhi dietro la tenda che vi separa da Babele. Nessuno sta sgozzando un maiale. Si tratta solo di tre cari amici, e relative fidanze, che pasteggiano allegramente. Alcol a go-go, urla da curva Sud allo stadio, per dirsi chissà cosa a distanza di venti centimetri l’uno dall’altro. Siete nervosetti, parecchio scossi, lo sapete già, la vostra ex moglie ve lo ha fatto notare mentre eravate dal giudice a firmare la separazione. Per cui chiedete (fate capire in qualche modo, magari trascinandovi la tovaglia appresso) alla cameriera di traslocare qualche tavolo più in là, in una zona del ristorante desolata e deserta. Lo zuppone vi segue. Dopo i primi due pezzetti di carne venite affiancati, nel tavolino alla vostra destra, da una coppietta di fidanzatini. Passeranno il tempo a masticare la ciccia e a masticarsi le labbra, vi dite e sperate. Dopo un po’ squilla il telefono, di entrambi. Urla al telefono, come se si trattasse di mayday da una cabina di pilotaggio in picchiata. Seguite a ruota da sigarette pestilenziali. Il fumo da sigaretta, è noto, segue sempre la direzione di chi è nei paraggi e odia il fumo ed è nervosetto. Nonostante gesù nostro signore ci abbia dotati di ben 360 gradi, state tranquilli che il fumo nicotinico non desiderato sarà sempre sintonizzato sulla vostra latitudine+longitudine, qualunque siano le strategie antivento da voi studiate e applicate. Lo zuppone non lo avete ancora terminato, ma è comunque meglio pagare e scappare da McDonald’s. Sembra che, almeno lì, quei fanatici antitabagisti dei gringhi abbiano imposto davvero il divieto al fumo.





McDonald’s, che dolci ricordi. Quando nel 1994 andai a Guangzhou in luna di miele, la mia dolce mogliettina subì una specie di terapia d’urto. Sognava resort tropicali e cenette al lume di candela, la costrinsi a seguirmi nel buio Medio Evo (poi uno si meraviglia, se finisce divorziato). Mentre affondavo le fauci in un hamburger, mi fece notare che il gentile avventore seduto davanti a noi si scaccolava gli alluci con un indice della mano destra, usato a mo’ di grissino. Mi passò l’appetito, chissà perché. La pulizia cinese è globalmente nota. Uno dei luoghi più odorosi che ricordo, impresso per sempre nel mio cervelletto, è una guest-house di Penang, in Malesia. Il proprietario cinese offriva camerette così-così a prezzi abbordabili, ma il cesso alla turca in comune – un asse di legno con un profondo e misterioso buco nero su cui era meglio non indagare - era un vero ciesso, davvero inabbordabile. Miasmi di escrementi diluiti da secchiate di ammoniaca buttate qua e là ogni tanto. Mi ci sono seduto vent’anni fa, ma lo ricordo come fosse oggi.






Fino al McDonald’s di Guanghzou avevo una sensibilità bassina circa i rumori volgari del popolo, ma dopo quel viaggio la mia ex mi regalò, per sempre, un’ipersensibiltà nei confronti degli scaracchiatori. Ogni volta che sentiva un essere virtualmente umano grattugiarsi la gola con suoni da ospedale per tubercolotici le veniva la pelle d’oca. Ora viene a me. Tornato a Guangzhou nel 2010, mi hanno fatto un po’ impressione i cartelli a fumetti voluti dall’amministrazione cittadine per educare il pueblo in occasione dei Giochi d’Asia (afflusso di stranieri a vagonate): non si sputa per terra; non si lancia monnezza dalle finestre; non si guida ubriachi; non si tagliano le file. Belli, surreali.
Le stesse ondate di ribrezzo ora le provo per i succhiatori di noodles, idem per quelli che mentre mangiano biascicano, a bocca aperta. Un cinese (e un coreano, e un giapponese) che si rispetti risucchia rumorosamente i noodles perché: 1) sono roventi e aspettare mezzo minuto prima che si raffreddino gli farà perdere il treno; 2) equivale a un complimento allo chef. Accettato in qualche modo tutto ciò (la famosa Cultura di cui tanto si straparla in giro?), non sono ancora riuscito a capire perché quando mangiano lo debbano fare biascicando, come se il cibo che hanno nel palato facesse schifo (la cucina cinese, in media, è notoriamente buona), fosse sporco, e toccarlo con le pareti del palato contaminasse il masticatore. Un po’ come fanno gli indiani quando bevono direttamente da una bottiglia di plastica, senza mai toccarla con le labbra. Misteri dell’uomo fatto bestia, imperscrutabili. Qualcuno di ampi orizzonti mi spieghi, per favore.