lunedì 18 luglio 2011

CUBA - I PUROS


I sigari dell’Isla Grande

Già durante la sua prima tappa cubana Cristoforo Colombo, nel corso della cerimonia rituale che gli stregoni della tribù taíno facevano per predire il futuro (sikar), aveva notato il tobago, la pipa di canna con la quale inalavano il fumo delle foglie secche di cohiba (il tabacco, appunto) direttamente nelle narici, aspirandolo da un piatto. In seguito i colonizzatori spagnoli imitarono questa pratica, arrotolando le foglie e riuscendo, così, a fumare con la bocca. La “nuova moda” si diffuse, e nel 1580 i castigliani iniziarono a coltivare il tabacco (Nicotiana tabacum) per scopi commerciali. In quell’anno importarono semi della pianta di tabacco dallo Yucatan, trasformandolo nel 1700 nel prodotto cubano più esportato: l’uso del fumo si era largamente diffuso in Europa, e soprattutto i coloni provenienti dalle Canarie si erano specializzati in questa coltura.
Nei secoli successivi i sigari furono prodotti su scala industriale: il prodotto finito si otteneva nelle fábricas de tabaco, riservate esclusivamente a questa attività; la fabbricazione, tuttavia, è rimasta artigianale e manuale fino a oggi. Nel 1863 fu adottata l’usanza della lectura anche nelle manifatture: inizialmente diffusa nei monasteri (dove i monaci ascoltavano brani di letture sacre mentre consumavano i pasti) e, quindi, nelle prigioni (i detenuti venivano così “acculturati”), la lettura di brani letterari arrivò all’El Figaro, il più importante sigarificio dell’epoca all’Avana. Un lectór istruiva gli operai analfabeti o intratteneva quelli che già sapevano leggere e scrivere (una stretta minoranza), leggendo soprattutto pagine del settimanale La Aurora. In seguito questa pratica fu adottata anche da altre fabbriche, ma l’oligarchia che deteneva il potere - primi fra tutti i proprietari delle manifatture - iniziò ad avversare questa pratica di “educazione del popolo”. Con il pretesto che la lectura distoglieva gli operai dal lavoro, nel 1866 fu addirittura proibita. Venne reintrodotta dodici anni dopo, con una “concessione” populista del governo.


Prima della Rivoluzione castrista la produzione dei sigari portava a Cuba 33,5 milioni di dollari all’anno e si potevano contare oltre novecento tipi diversi di avana, il nome con il quale i puros cubani erano e sono internazionalmente chiamati (le prime fabbriche erano concentrate nella capitale). Allora i maggiori produttori erano Dunhill e Zino Davidoff.
Fra i tanti fumatori accaniti di sigari cubani, Winston Churchill fu uno dei VIP più “assuefatti” del Novecento. Basti pensare che alla vigilia della Seconda guerra mondiale, intuendo il clima degli anni seguenti, lo statista inglese - che aveva alcuni fornitori privilegiati nell’isola - fece incetta di circa quattromila avana e li nascose nella sua casa del Kent, in una stanza appositamente climatizzata. Si narra che anche John Kennedy, lo stesso presidente che decretò l’embargo a Cuba (1962) dopo la presa del potetre da parte dei Barbudos, fece riempire le cantine della Casa Bianca di sigari cubani.


Durante la Rivoluzione la produzione fu nazionalizzata (la Cubatabaco iniziò a gestire il monopolio) e razionalizzata: Castro e Guevara - quest’ultimo divenuto Ministro dell’Industria - ridussero notevolmente il numero di tipi di sigaro, mantenendo i nomi dei più pregiati e noti (Romeo y Julieta, Montecristo, Partagas, Upmann, ecc.) e migliorandone la qualità. I due comandanti introdussero e incentivarono la produzione dei Cohiba, i preferiti dal Che. Per quest’ultimo, infatti, «fumare un sigaro non era un lusso, ma una parte del business della Rivoluzione, il complemento ideale di una vita vissuta tra difficoltà e pericoli». Il sigaro, dunque, può essere considerato come uno dei tanti simboli, per certi aspetti romantici, della Rivoluzione cubana e, al tempo stesso, del consumismo capitalista.
Durante il periodo socialista la produzione è aumentata di anno in anno, anche se il sistema collettivizzato ha tolto parte dell’entusiasmo agli operai e ai vegueros (i coltivatori, diminuiti in questi anni), riflettendosi negativamente sul prodotto. Il governo, per aumentare la produzione, recentemente ha introdotto incentivi nelle zone di produzione, come quello di convertire in cooperative alcune grandi piantagioni statali.
Nel 1997 Castro organizzò una grande festa al Cabaret Tropicana per commemorare i trent’anni del Cohiba. Vi parteciparono diversi attori di Hollywood (Jack Nicholson, Arnold Schwarzenegger, Danny De Vito, tutti estimatori dell’avana), sfidando apertamente il blocco economico del loro governo. L’inasprimento dell’embargo statunitense, approvato da Clinton nel 1996, impone multe di 50.000$ e la confisca delle proprietà ai cittadini statunitensi che si recano a Cuba senza l’autorizzazione del loro governo; i sigari cubani, se trovati in valigia all’ingresso negli USA, possono essere confiscati dai doganieri. Qualche anno fa quattro gestori di noti ristoranti di New York sono stati arrestati perché “commerciavano con il nemico”: dopo cena offrivano sigari cubani ai clienti migliori.
Le cifre ufficiali cubane riguardanti la produzione annua sono da prendere con le dovute precauzioni: non tengono conto dell’enorme mercato nero (sigari “falsi” o venduti sottobanco), pari a circa dieci volte quello legale. Attorno alla metà degli anni Novanta sono stati prodotti ufficialmente circa 103 milioni di sigari e la produzione media di tabacco si aggira sulle 40.000 tonnellate, pari a meno del 3% delle entrate in valuta. Negli Stati Uniti ogni anno entrano di contrabbando 52 milioni di sigari cubani, di cui solo 5 originali. A New York una scatola da 25 pezzi (tra i più pregiati) può arrivare a costare 800$.


La produzione
A Cuba le vegas, piantagioni di tabacco, sono diffuse principalmente in due zone: nella cosiddetta Vuelta Abajo (la regione di Pinar del Rio, la più importante) e nella Vuelta Arriba (la provincia di Villa Clara). Dalla prima, dove iniziò la produzione nel 1760, proviene circa l’80% del raccolto nazionale; nel 1995, in quella regione, ne furono prodotte 17.400 tonnellate. Lunga 110 km e larga 30, limitata a nord dai monti e a sud dal mare, la Vuelta Abajo ha numerose piantagioni - nelle hoyos (“buche”), le valli della Sierra de los Organos, dalle quali proviene il tabacco più ricercato - che, in media, coprono un’area di tredici ettari e impiegano quaranta contadini.
Nei campi si semina alla fine della stagione delle piogge, mentre il raccolto va da gennaio a marzo. Nel periodo di riposo (estate), vengono seminate altre colture che permettono al terreno di conservare la fertilità: mais, banane, boniato (patata dolce cubana). Le piante di tabacco diffuse a Cuba, le più pregiate al mondo, a quanto pare, riescono a crescere al meglio solo lì: se trapiantate nella vicina Santo Domingo (leader mondiale del settore; o in Honduras, altro importante Paese produttore) il primo raccolto è eccellente, il secondo scadente. Ciò è dovuto alla terra, ricca di sabbia, oltre che alla giusta quantità d’acqua (molta) ricevuta: a Cuba l’alternarsi delle piogge alla stagione secca è piuttosto regolare, Niño permettendo, e il clima umido è fondamentale per la crescita di questa coltura.


Secondo il mito, che ha numerose correnti di pensiero contrastanti, una pianta di tabacco può crescere meglio (o meno) a seconda che il coltivatore le parli o che si sviluppi con la luce della luna. La pianta inizialmente viene seminata in un vivaio, dove rimane per circa un mese. Viene quindi trapiantata nel campo, di solito tra la fine di ottobre e l’inizio di dicembre. In due-quattro mesi raggiunge il metro e mezzo di altezza e le foglie misurano, all’incirca, 25 cm di larghezza e 30 di lunghezza. Le piante migliori sono protette con grandi teli plastificati, per non farle bruciare dal sole. Per difenderle dagli insetti si usano delle reti, piuttosto dei pesticidi, che potrebbero rovinare l’aroma del tabacco.
La raccolta delle foglie si fa esclusivamente a mano, alla mattina o alla sera, quando non c’è la rugiada. Le foglie migliori sono quelle più giovani, che spiccano sugli apici delle piante. In generale, le foglie sono classificate in negras e blancas. Le prime, usate per i sigari, a loro volta si dividono in criollas, corojos (da un tipo di palma) e pelo de oro. Quelle bianche, invece, sono usate per fabbricare le sigarette (assieme agli scarti di produzione dei sigari), dopo essere state spezzettate con i macchinari appositi. Il tabacco peggiore, dunque, viene usato per le sigarette: fumare o anche solo annusare da lontano una Populár lo conferma.


Dopo una prima selezione per tipo, le foglie sono appese a essiccare nelle casas de curar, capanne con tetti spioventi di foglie di palma, molto diffuse nella regione di Pinar del Rio e Viñales. In questi ambienti il tabacco mantiene un’umidità e una temperatura costanti per uno-due mesi, e le foglie sono ciclicamente bagnate, così da favorirne la fermentazione e l’uniformità della colorazione. Si è calcolato che dalla semina al prodotto finito un sigaro comporti ben duecentoventidue fasi di lavorazione.
Le foglie vengono quindi selezionate da un esperto clasificadór, che divide quelle interne da quelle esterne e da quelle di supporto. Le esterne sono quelle che avvolgeranno il prodotto finito, dunque quelle che devono presentare meno imperfezioni. Se ne contano ventisette tipi, in base allo spessore, al colore, all’elasticità, alla quantità di nervature. Separate secondo la specie, le foglie sono radunate in mazzi e, successivamente, in balle destinate alle manifatture dell’Avana o degli altri centri di produzione. Le foglie migliori, quelle giovani cresciute sugli apici, vengono racchiuse all’interno delle balle, così da non subire danni durante il trasporto. Le balle sono avvolte da corteccia di palma reale e da fibre di agave tessile (henequén).
Come giungono nella manifattura, le balle vengono aperte e le foglie sono umidificate sulle punte dal mojadór (“bagnatore”). La foglia, dunque, riprende il processo di fermentazione momentaneamente interrotto. Nuovamente immagazzinate, le foglie subiscono un’ulteriore selezione, dopo una fase in cui vengono tolte le nervature. Solo allora ha inizio l’arrotolamento manuale della foglia, divenuta elastica e resistente. Su una tavola di legno di mango il tabaquero (sigaraio) avvolge le foglie all’interno della migliore e più forte, che funge da supporto.


Il lavoro, se non più dalla lectura, oggi viene accompagnato da alcuni cantanti, solitamente di Salsa, che diffondono le loro note a squarciagola attraverso microfono e casse acustiche, disseminate in ogni angolo dello stabilimento. Da un palco posto al centro della sala maggiore, i cantanti si esibiscono spalleggiati dai ritratti di Camilo Cienfuegos, Che Guevara e Fidel Castro, la 'Trimurti' della Rivoluzione. Il volume, come sempre a Cuba, è assordante e il suono esce distorto dalle casse, ma gli operai riescono a trovare il ritmo per il lavoro, nonostante l’intontimento che il Son dà. Alcuni sigarai che non condividono le scelte musicali dell’azienda si danno un ritmo personale, ascoltando la loro musica con un walkman.
Il sigaro rozzo viene sistemato tra le maglie di una pressa di legno di cedro per circa mezz’ora. Quindi, con una chaveta, un coltello arrotondato, si tagliano le foglie di copertura e si ricava l’imboccatura. Questa viene incollata con gomma vegetale. Dopo l’ultimo taglio di rifinitura, i sigari sono ulteriormente selezionati e divisi a seconda del modello. Ogni tipo di habanero viene decorato con la fascetta che ne indica il nome (a Cuba è diffuso il collezionismo di queste fascette) e collocato in maniera scrupolosamente geometrica in una cassetta di legno di pino o di cedro da 10 o 25 pezzi. Tutti i sigari devono avere un aspetto uniforme. Se la scatola non è di cedro - anch’essa costruita a mano, assicella per assicella -, l’operaio solitamente vi pone all’interno, prima di sigillarla, un pezzetto di legno di cedro, utile a mantenere inalterata la fragranza dei sigari. Alcuni tipi di sigari, solitamente i più pregiati, prima di essere chiusi nelle scatole vengono messi singolarmente in appositi contenitori di latta, con la marca sopra riportata. Le scatole vengono quindi chiuse definitivamente con una serie di sigilli incollati (la scritta Totalmente a mano, Hecho en Cuba e il sigillo della Cubatabaco) che, in teoria, dovrebbero garantire l’originalità del prodotto e giustificarne gli alti costi.


Si calcola che, in media, un torcitore di sigaro riesca ad arrotolare un centinaio di sigari al giorno, anche se l’obiettivo delle manifatture sarebbe quello di 150-160 unità. Oltre a percepire un salario (piuttosto misero, a cottimo), gli operai possono fumare tutti i sigari che vogliono, purché sul luogo di lavoro. Alcuni, correndo grossi rischi, arrotondano lo stipendio nascondendo sigari negli indumenti (da rivendere al mercato nero) o, addirittura, vendendoli direttamente ai turisti in visita nelle manifatture (di nascosto e frettolosamente) a un prezzo inferiore rispetto a quello dei negozi. Le fasi di arrotolamento dei sigari, oltre che in alcune manifatture (principalmente all’Avana e a Pinar del Rio), possono essere osservate in molti dei maggiori alberghi dell’isola, dove spesso qualche torcitore lavora su un banchetto nella hall: uno spettacolo interessante che invoglia molti visitatori ad acquistare il prodotto finito nel negozio attiguo.
Sempre secondo il mito, soprattutto in passato, era credenza diffusa quella secondo cui i sigari migliori, più ricchi di aroma, fossero quelli arrotolati dalle operaie mulatte, che li avvolgevano appoggiandoli sulle gambe...


Commercializzazione e tipi di sigaro
A Cuba ci sono due canali per la commercializzazione del sigaro. Il primo è quello ufficiale, che passa attraverso gli spacci (in realtà lussuosi negozi) delle manifatture o le tiendas specializzate, dirette esclusivamente al turismo apportatore di dollari, negli aeroporti, alberghi di lusso, centri commerciali, stazioni di servizio, villaggi vacanze, ecc. In queste rivendite, tutte di proprietà del governo, i sigari - venduti sia in scatole sia singolarmente - sono originali e hanno prezzi da capogiro. In base al tipo, una scatola da 25 pezzi può costare centinaia di dollari. Il grosso del commercio - soprattutto quello che si riversa all’estero -, in realtà, è sotterraneo e illegale. In tutte le città cubane i jineteros (procacciatori d’affari con i turisti, illegali) di strada o i proprietari delle casas particulares (abitazioni private adibite a ospitare gli stranieri) propongono l’acquisto di scatole di sigari. Quasi sempre questi sigari sono 'falsi', nel senso che sono una seconda (o terza, o quarta, o...) scelta rispetto a quelli prodotti nelle manifatture. Sono sigari di scarto, fatti in casa, sottratti di contrabbando alle manifatture, o che non “tirano” come dovrebbero: quasi mai originali. Il loro prezzo, di conseguenza, è (dovrebbe essere) molto inferiore rispetto a quello dei prodotti originali, variabile a seconda del grado di faccia tosta del venditore e della capacità contrattuale dell’acquirente. Di solito, una scatola qualsiasi (per esempio di Cohiba, i più falsificati) da venticinque pezzi non dovrebbe costare più di 25$, anche se, in realtà, il prezzo massimo sarebbe di 10$. I falsificatori sono estremamente abili nell’imitare anche i sigilli delle scatole originali, e solo un fumatore che realmente conosce i puros e sa distinguerne le differenze aromatiche può capire se quello che sta fumando è un habanero originale o meno. Non ha molto senso, dunque, acquistare una scatola originale da centinaia di dollari, a meno che non si sia esperti conoscitori o si voglia fare un prezioso regalo a un cultore del genere: se il regalo è per un fumatore comune, anche una scatola di sigari “falsi” (pur sempre buoni, almeno per il neofita) può essere gradita. Questo discorso, anche se non “politicamente corretto”, può trovare giustificazione a fronte degli alti prezzi, inaffrontabili per buona parte dei visitatori e, certamente, per tutti i cubani. Le tariffe variano da tipo a tipo di sigaro e, per lo stesso tipo di puro, a seconda delle dimensioni: quanto più è grande, tanto più caro. Indicativamente, una scatola da 25 pezzi di sigari originali costa:

Bolívar 45-65$
Cohiba Coronas Especiales 200$
Cohiba Espléndidos (quelli del Che, reperibili anche in Italia) 300$
Diplomáticos 70$
Larrañaga 30$
Montecristo n°3: 70$
Montecristo n°4 (il preferito da Castro, prima che smettesse di fumare per problemi di salute; 12,9 cm per 1,6 di diametro, può durare un’ora): 55-60$
Montecristo Cabinet 110$
Partagás: da 50$ a 90$; le scatole da 5 pezzi piccoli costano solo 5$; il modello Lusitanias, “da leggenda” (19,4 cm per 2), può durare oltre un’ora e mezza
Punch 65$
Romeo y Julieta (quelli di Churchill): dai 65 agli 80$; 35$ per 10 pezzi inlattati

Quando si compra una scatola attraverso i canali illegali, però, bisogna sempre controllare il contenuto: non sono da escludere truffe a base di carta di giornale o simili. Altri sigari cubani prestigiosi sono l’Upmann (destinato esclusivamente al mercato inglese), il Rey del Mundo (reperibile anche in Italia), il Ramon Allones (di fabbricazione antica), l’Hoyo de Monterrey (piuttosto diffuso) e il Sancho Panza (leggero e poco pubblicizzato). Ai cubani, invece, sono riservati i Colosos, i sigari destinati al mercato interno, venduti a prezzo politico (1 peso, un ventesimo di dollaro) nei negozi dove si acquista con la libreta, proibiti agli stranieri. Il colore delle foglie di tabacco non ha una grande influenza sulla qualità di sigaro; quelle più scure, tuttavia, di solito sono più forti e dolci. Per conservare i sigari, soprattutto nel lungo periodo, è indispensabile un luogo appropriato: l’ideale sarebbe una vetrina (umidificatore) o un luogo dotato di termostato, dove sia mantenuta una temperatura di 22° e un tasso di umidità del 65%. In commercio si trovano anche umidificatori da viaggio, i quali mantengono un’umidità costante tra il 70 e il 73% e una temperatura tra i 18 e i 21°.


All’uscita da Cuba, in teoria, è vietata l’esportazione di oltre 200 sigari a persona. I puros, sempre in teoria, dovrebbero essere accompagnati da una ricevuta che ne attesti l’acquisto presso una rivendita ufficiale. Nella pratica, però, è ben raro che il controllo sia effettuato e molti visitatori esportano sigari fasulli.

Per saperne di più
Avana, la leggenda del sigaro, libro fotografico di Charles Del Todesco, Mondadori.

Dove assistere alla lavorazione dei sigari
Fabbrica Partagás, Calle Industria 520 (dietro al Capitolio), Centro Habana; visite guidate in spagnolo e inglese dal lunedì al venerdì alle 10 e alle 14 (non occorre prenotare, basta presentarsi qualche minuto prima).
Fabbrica Francisco Donatien, Calle Maceo 157 Oeste, Pinar del Rio; visite guidate, aperta dal lunedì al venerdì dalle 7,30 alle 16, il sabato dalle 7,30 alle 11,30.

Dove acquistarli
Oltre che nei negozi delle manifatture sopracitate, un indirizzo nella capitale può essere quello del Palacio del Tabaco, Calle Zulueta 106, entre Refugio y Colón, Habana Vieja.






NICARAGUA - SULLE RIVE DEL MAR DOLCE


È così che i nicaraguensi chiamano il lago che porta il nome del loro Paese, il più vasto dell'America Centrale e il decimo al mondo. Tra vulcani e piantagioni di banane, reliquie coloniali e arte di arrangiarsi, isole e barche, nella repubblica che, sfuggita alla morsa di sandinisti e contras, torna a vivere, ballare e commerciare

Arrivo in Nicaragua dal Costa Rica. Passata la 'terra di nessuno', disseminata di cartelli che avvisano della presenza di mine, un caro ricordo del periodo sandinista, la sorpresa è grande. Mi rendo subito conto che la gente - i nica - è carina e cordiale e che in Europa non si sa nulla di questo Paese. Quello che arriva sono notizie vecchie come il cucco. Fatto che non disturba, il turismo di branco è quasi inesistente e riassaporo quell’autenticità del viaggio che non provavo da tempo.


Dove sono finiti gli squali?
Il grande Lago de Nicaragua, chiamato mar dulce dai primi ficcanaso spagnoli e Cocibolca dagli indios, è il più vasto dell’America Centrale e il decimo del mondo. È la prima, impegnativa meta che mi do oltre frontiera. Nel Cocibolca sfociano ben quarantacinque fiumi e si contano oltre quattrocento isole e isolette. Gli squali che un tempo abitavano il lago risalendo il Rio San Juan dall’Atlantico, unici pescecani d’acqua dolce al mondo, però sono scomparsi, grazie a una stramaledetta compagnia di pesca cinese. Stando a una delle tante interpretazioni, gli squali, lunghi circa tre metri, così come altri pesci marini (pescispada e pesci sega), sarebbero rimasti imprigionati durante l’epoca della formazione del lago. Il Cocibolca, così come il Lago di Managua, in origine avrebbe fatto parte della costa del Pacifico, poi chiusa ad anello attorno a queste acque da diverse eruzioni vulcaniche. I pesci, così intrappolati, si sarebbero adattati gradualmente al nuovo ecosistema. Qualunque sia stata l’origine dei pescecani, i cinesi, anziché rimanersene a pescare nel Mar Giallo, sono venuti fin qui a saccheggiare.


Granada, la Gran Sultana
La terza città del Nicaragua per dimensioni dopo Managua e León, ma fondata per prima nel 1524 da Francisco Hernández de Cordoba, Granada è la ciudad nicaraguese che più conserva lo spirito coloniale. La case del centro, soprattutto lungo La Calzada, la bella via che collega il Parque Central al lago, hanno grandi porte di legno e patios freschi, mentre le sedie a dondolo, soprattutto la domenica, ingombrano i marciapiedi. Per non inciampare nelle gambe di qualche anziano che si dondola bisogna fare continui slalom. I calessi, colorati con tinte brillanti, completano il quadro.
Alloggio all’Hospedaje Cabrera, il meno scadente della Calzada. Il posto è una specie di mecca per i backpacker anglofoni, che ne affollano le camere grandi come celle di clausura. Mi accaparro la numero 3, quella più chic. Di chic, in realtà, non ha proprio nulla, l’illuminazione è da catacomba, non appena spegni la luce le zanzare piombano in picchiata, l’asse del water è evaporata, come in ogni alberghetto nicaraguese che si rispetti, e la porta che dà sulla strada fa da cassa di risonanza a tutto ciò che di vivo o di meccanico passi là fuori. L’unica cosa chic sono le dimensioni, nella stanza ci potremmo dormire in quindici.
Mentre noi chiamiamo, o chiamavamo, Genova 'La Superba' e Venezia 'La Serenissima', qui Granada la chiamano 'Gran Sultana', soprannome che si guadagnò con gli sfarzi dell’epoca coloniale. Durante il periodo della Conquista, infatti, la città accumulò enormi ricchezze, sia grazie alla posizione strategica (di qui passava tutto il commercio, proveniente da buona parte del Centroamerica settentrionale e diretto all’Europa attraverso il lago e il Rio San Juan), sia per merito della terra fertile e dell’agricoltura che seppe sfruttarla. Un benessere che attirò le mire dei pirati inglesi e francesi in più occasioni: tra il 1665 e il 1685 Granada fu saccheggiata e incendiata cinque volte. I corsari William Dampier e Henry Morgan, 'firme' note dell’epoca, parteciparono con sentimento agli attacchi.


Las Isletas, una per ogni giorno dell’anno
Chi dice siano 354, chi sostiene 356, chi arriva a 368. Nessuno si è preso la briga di contarle e ne conosce il numero esatto, così per far prima dicono che sono una per ogni giorno dell’anno. Parlo delle isletas, le isolette formate dalle eruzioni del vulcano Mombacho, la bocca di fuoco che sovrasta Granada. Per raggiungerle bisogna prendere una barchetta dai porticcioli di Puerto Asese o di Cabaña Amarilla, a qualche chilometro dalla Calzada. Ai moli se sei gringo o hai la faccia da dollaro, ma basta anche solo quella da europeo, devi tirare fuori le unghie. I corporativi barcaioli, riuniti in una cooperativa tutela-privilegi, una specie di casta di notai, impone cifre relativamente alte e la contrattazione prevede peli sul petto e animo da massaia al mercato del pesce. Per scucire una tariffa sostenibile passa così tanto tempo che faccio arrivare l’ora del tè, e il mio barcaiolo si vendica per lo sconto impostogli portandosi appresso la fidanzata. La gita si trasforma in un pucci-pucci di smancerie, sorrisetti e bacini, zero attenzione alla rotta e alle esigenze fototuristiche del Cliente Pagante, fiacca a poppa, odio per i morti-di-sonno a prua.


Le isletas più prossime ad Asese ospitano qualche piccola costruzione, bar o ristoranti attivi soprattutto durante i fine settimana, quando i bifolchi della capitale con i fuoristrada e i jet-ski vengono a spendere e spandere. Su quelle più lontane alcuni alberghi dai bungalow scintillanti, decisamente costosi, fatturano in valute forti. Più interessanti sono le isole situate oltre la Penisola di Asese. Qui, vista l’esuberanza della natura e i costi bassi, Steven Spielberg girò il secondo film della serie 'giurassica', Il mondo perduto. Fra queste isole spicca Zapatera, la seconda del lago per dimensioni. Dichiarata parco nazionale, era un luogo di culto e un cimitero per gli indios. Nel 1849 un diplomatico statunitense vi trovò quindici statue precolombiane, oltre ai resti di un tempio a forma di piramide. Due di queste statue, poco diplomaticamente trafugate, si trovano allo Smithsonian Institute di Washington.


Ometepe, l’isola dei vulcani
Ed eccomi a Ometepe, il pezzo forte del lago, la bella e selvaggia isola a forma di otto che, vista dall’alto dei cieli, deve sembrare una specie di reggiseno imbottito con due vulcani al posto dei seni. Per arrivarci sono sopravvissuto alla bagnarola che collega San Jorge, l’imbarco sul 'continente', a Moyogalpa ('luogo delle zanzare'), il centro principale. Il lago è così grande che durante la traversata le onde stavano per travolgerci, e il fatto che il motore a brandelli si spegnesse ogni cinque minuti non ci ha aiutati. Ci tengo a mantenere un certo stile per cui alloggio all’Hotel Ometepetl, il migliore del paese, nel senso che è il meno scomodo e che ha meno muffa degli altri. Prima di impossessarmi della camera ho provato a fare un giro anche all’Hotel Bahía, lungo la stessa strada, ma ne sono fuggito con i capelli dritti. Il posto, nonostante il sorriso a quaranta denti del buttadentro, si è rivelato una vera bettola, per la quale anche pochi dollari sono una tariffa insultante: camere roventi e ammuffite situate sopra il bar-ristorante-discoteca-sala da biliardo, da cui sono separate solo con qualche asse di legno. Una sinfonia di rumori & odori che consente il riposo, bene che vada, tra le due di notte e l’alba, previa sbronza. L’Ometepetl, invece, offre una scelta maggiore: le camere che danno sul giardino hanno come sottofondo sonoro mezza dozzina di galli che viene a cantare sul tetto, il loro pollaio di fiducia; quelle dell’ala centrale danno sul ristorante e sui suoi avventori etilici; quelle più vicine alla strada si affacciano sul baretto di un gringo trapiantato che tiene lo stereo sempre al massimo. Per stare sul sicuro ho sperimentato tutti e tre i tipi di stanza, facendo impazzire l’addetta alle camere (ogni volta ho aperto i bagagli, saggiato il letto, imprecato al primo rumore, rimpacchettato lo zaino, chiesta una camera migliore, che non esiste).


Risolti, più o meno, i problemi logistici, mi do al turismo. Il villaggio è minuscolo ed è tutto un saliscendi, prima o poi, anche se non vuoi, ripassi per la duecentesima volta dal molo, l’unico vero cinema e teatro di Moyogalpa. Quando lo fai, però, devi avvicinarti con passo felpato. Se hai anche solo leggermente un’andatura da alpino i ragazzini, gli scaricatori, i marinai e tutti quelli che per futili motivi si trovano lì, a fischi urla e gesti faranno tornare indietro la barchetta appena salpata per San Jorge, convinti che tu la voglia prendere. Hai un bel da spiegare, poi, che sei lì solo per osservare il tramonto.


Ometepe, in lingua nahuatl, quella degli indios locali, significa 'due' (ome) 'cime' (tepe), con riferimento ai vulcani che la formano: il Concepción (1610 metri) e il Maderas (1395 metri). Il primo è ancora attivo (l’ultima eruzione risale al 1983), mentre il secondo è estinto da circa 2600 anni. I vulcani sono uniti da un istmo, formatosi in seguito a un’eruzione del 1804. Lungo l’istmo oggi si trova la bella spiaggia di Santo Domingo, la più nota dell’isola: nuovi alberghetti sono in crescita costante, sebbene nei giorni feriali il bagnasciuga sia frequentato solo da lavandaie e mandrie di mucche al pascolo.
Dopo un po’, anche agli esseri più meditativi o in luna di miele, Moyogalpa può diventare stretta, e non si può evitare di trasferirsi all’altro centro abitato dell’isola, Altagracia, che non è New York. Qui i due grandi concorrenti che si contendono i backpacker sono l’Hotel Castillo e il Central. Nel primo, il proprietario, l’anziano Señor Castillo, è una logorroica autorità locale per quanto riguarda le informazioni sull’isola: nonostante l’età, sembra avere un atlante storico al posto del cervello. I fiori all’occhiello del Central, invece, sono il cameriere Elvis, non appena lo vedrete capirete il motivo del suo nome, e gli stranissimi ragni nei bagni, scusate la rima, davvero mai visti prima. Amo il contatto con la natura e la musica, dunque scelgo il Central.


Altagracia ha qualcosa in più da vedere. Innanzitutto le statue precolombiane che, come semafori, svettano nella piazza centrale, sul ciglio della strada. E poi c’è la Grande Fatica, ossia la passeggiata, meglio, scalata, fino alla vetta del vulcano Concepción. Ci ho provato, ma devo ammettere che il fisico, appesantito da una dieta di ragù e computer, non ce l’ha fatta. Mario, la guida affibbiatami dall’Hotel Central, ha l’aspetto di un ragazzino, probabilmente lo è, ma ha anche un passo da mulo degli alpini in grado di battere ogni trekker allenato, oltre a un coltello dell’esercito sandinista che fa sembrare quello di Rambo un temperino svizzero. S’inizia lentamente a salire, attraverso campi di fagioli dove l’adiós! scambiato con tutti quelli che s’incontrano è d’obbligo. I bei mot-mot, gli uccelli azzurri apparentemente specializzati nel decollare un decimo di secondo prima del click dell’otturatore, ci osservano dall’alto degli alberi. A metà cammino sono obbligato a gettare la spugna: ogni dieci minuti devo strizzare la camicia intrisa di sudore (l’umidità è insopportabile), il cuore va sulle montagne russe, le piante in faccia e le nuvole di zanzare mi hanno fatto una sabbiatura da carrozziere.


Memore del fallimento, non mi faccio prendere dalla malinconia per una seconda scalata quando visito il 'campo base' dell’altro vulcano, il Maderas. Il punto di partenza è (sarebbe, per gli altri) l’Hacienda Magdalena, una cooperativa agricola fondata nel 1988, in epoca sandinista. La vasta baracca di legno ospita di tutto: camere e ristorante iperspartani, magazzini per il caffè, un murale scrostato del tempo delle bombe e dei coltelli, una sala computer, un quaderno dove l’unico italiano passato prima di me ha annotato come la caratteristica principale della camminata sul Maderas fosse il fango. Mi accontento di una gita fra i campi a scovare qualche petroglífo, antichi disegni su pietra risalenti a circa ottocento anni prima dell’arrivo degli spagnoli. Presenti un po’ in tutto il lago, quelli dell’Hacienda Magdalena sono tra i più numerosi e conosciuti. A grandi linee i loro disegni si dividono in zoomorfi, antropomorfi, curvilinei e spiraliformi. Le ipotesi circa l’origine di questi graffiti sono diverse: secondo alcuni studiosi sarebbero contrassegni del territorio, mentre per altri rappresenterebbero cordoni ombelicali sacri. Oltre a questi temi ricorrenti, a volte, si possono trovare due spirali unite da una corda, chiaramente una raffigurazione dell’isola, dove le spirali simboleggiano i coni dei vulcani. A quei tempi, è plausibile pensarlo, il bikini non l’avevano ancora inventato.


San Carlos, tra il lago e il fiume
Per arrivare fin qui, dalla parte opposta del lago rispetto a Granada e Ometepe, ho preso un aeoroplanino giocattolo della compagnia La Costeña da Managua. Costa poco, siedo praticamente sulle ginocchia del pilota e il passeggero al mio fianco suda come una fontana per la fifa. Lungo il tragitto abbiamo fatto scalo a Nueva Guinea, uno dei tanti centri sperduti del Nicaragua, e il suo 'aeroporto', in realtà, si è rivelato essere il campo da calcio, in terra ben poco battuta. Quando sorvolavamo l’abitato mi ero posto l’abusata domanda retorica «dove atterriamo?», dall’oblò di lavatrice che mi avevano venduto come finestrino non vedevo altro che tetti e terra, poi ho capito che il campo da bocce poteva essere il capolinea, in tutti i sensi. L’aeroporto di San Carlos, invece, a confronto sembra il JFK. Asfalto vero, bilancia che al check-in ti pesa assieme al bagaglio, tasse aeroportuali, persino un elicottero dell’esercito adibito a scarrozzare i familiari dei militari.


La cittadina, situata all’estremità sudorientale del lago, nel punto in cui le sue acque si mescolano a quelle del Rio San Juan, fu di grande importanza per gli spagnoli fin dall’inizio della colonizzazione. Dal Castillo de la Inmaculada Concepción, situato lungo il fiume, i castigliani difesero il territorio dagli attacchi dei corsari inglesi e francesi. Prima della costruzione del Canale di Panama, inoltre, la città, allora nota anche al di fuori dei confini nazionali, era un punto di passaggio obbligato per merci e persone da un oceano all’altro: soprattutto per i cercatori d’oro diretti in California che, sbarcando sulla costa atlantica a Greytown (oggi San Juan del Norte), risalivano il fiume, attraversavano il lago, proseguivano in diligenza e in treno, raggiungevano la costa del Pacifico e lì, finalmente, s’imbarcavano per gli Stati Uniti.
Dopo la costruzione del canale, San Carlos perse quasi tutta la sua importanza, trasformandosi in un paese lagunare qualsiasi,  frequentato soprattutto da pescatori, squali e raccoglitori di caucciù. Dato che il posto ha un suo fascino, i turisti, sia nica sia stranieri, sono in aumento. Insieme ai prezzi.
Questo, però, sembra essere il destino di tutto il Nicaragua, un Paese verso cui bisogna affrettarsi, prima che gli speculatori lo spolpino e i turisti dalle tasche ben imbottite lo vizino.


Pubblicato su Panorama Travel


ALTRE FOTO SU




MADAGASCAR - LE TOMBE DEI MAHAFALY


Il particolare culto dei morti, nella grande isola africana

La costruzione delle tombe, per i mahafaly, tribù del Sud-ovest del Madagascar, è di primaria importanza: i loro sepolcri costituiscono una vera e propria forma d’arte. Visitare i cimiteri dei mahafaly, anche per chi non è un necrofilo, può essere il motivo più interessante per viaggiare in questa zona del Paese. Costruiti per durare nel tempo, i sepolcri sono più lussuosi e meglio conservati delle abitazioni.
Le tombe, enormi e visibili (volutamente) dalle strade principali, si trovano un po’ dovunque, partendo dalla città di Tulear, capitale regionale del Sud-ovest, e arrivando fino a quella di Fort Dauphin, situata sulla costa sudorientale. Le tombe dei mahafaly sono riservate, generalmente, solo agli uomini ricchi (qui la ricchezza viene calcolata secondo il numero di zebù posseduti, animali che costituiscono il capitale familiare). Hanno tutte una pianta rettangolare, con lati che vanno dai dieci ai quindici metri, e sono costituite da pietre intere che s’innalzano per un metro o più. A seconda della localizzazione, esse variano nel tipo di decorazione, particolare fondamentale in tali costruzioni. A grandi linee, si può fare una distinzione fra le tombe che recano la vita del defunto dipinta - come in un fumetto - sulle pareti esterne, e quelle decorate dagli alo-alo (letteralmente “messaggeri”). Gli alo-alo sono steli in legno scolpito, posizionati verticalmente all’interno delle tombe (specie di totem), raffiguranti situazioni che evocano la personalità del defunto, i suoi beni o, più semplicemente, scene di vita quotidiana (steli simili sono presenti in altri Paesi africani). Gli alo-alo, commissionati a scultori professionisti (anticamente pagati con zebù: uno per alo-alo, cinque per opere eccezionali), hanno oggi un costo piuttosto elevato. Sono inoltre divenuti, nel tempo, elementi decorativi anche di abitazioni, alberghi, ristoranti. Gli alo-alo possono raffigurare di tutto: zebù, uccelli, fumatori di pipa, motociclisti, militari, guerrieri con fucili e lance, impiegati seduti alla scrivania d’ufficio, funzionari coloniali (riconoscibili dal cappello) a cavallo, coppie danzanti, lottatori, giocatori di carte, scene erotiche. Ma anche: un uomo che lotta con un coccodrillo, una donna che munge una mucca, un aereo, un minibus (probabilmente il defunto è scomparso in seguito a un incidente aereo o terrestre), una casa, due uomini che discutono, un funerale, una donna che allatta, un piccolo cimitero mahafaly. Tali soggetti sono ricoperti di vernice, che gli agenti atmosferici presto sgretolano.








La rappresentazione di queste scene di vita quotidiana, però, corrisponde a un’evoluzione relativamente recente dell’arte funeraria mahafaly. Anticamente gli alo-alo erano decorati esclusivamente da uccelli o da zebù. Al massimo, recavano una figura antropomorfa intagliata all’altezza della base, come una donna con il busto scoperto o un guerriero. Sempre anticamente, il diritto di erigere gli alo-alo sulle proprie tombe era riservato esclusivamente al re e ai membri di certi clan dominanti. In seguito, lentamente, tale diritto venne esteso, dietro pagamento, ad altre famiglie, e anche agli antandroy, tribù confinante. Il termine alo-alo probabilmente deriva dal malgascio alo, che significa “intermediario”, “messaggero”. Si può dunque ipotizzare che tali sculture servano da intermediari tra i morti e i vivi, sebbene alcuni studiosi rifiutino tale interpretazione.
Il luogo più noto in Madagascar per le tombe mahafaly è la piccola cittadina di Betioky, situata a 158 chilometri da Tulear (sei ore abbondanti d’autobus), lungo la strada, in gran parte sterrata, che porta a Fort Dauphin. Il luogo, però, non merita la fama attribuitagli: le poche tombe presenti si trovano a una certa distanza dall’abitato (la prima a sette chilometri), i tassisti vi ci conducono a tariffe relativamente esorbitanti, e le decorazioni presenti non sono alcunché di speciale, se comparate con quelle di altre zone. Betioky, inoltre, non ha una ricettività alberghiera adeguata, per l’unica notte che si è costretti a passarvi, se si utilizzano i mezzi pubblici per arrivarci. In caso si decida di visitare e fotografare queste tombe è comunque bene conservare qualche banconota da elargire alle guide locali, solitamente parenti del defunto: il denaro servirà, secondo l’usanza, al morto, nell’aldilà (vanno evitate le monete: sono considerate un’offesa). Prima di fotografare, inoltre, bisogna sempre chiedere il permesso, in segno di rispetto nei confronti del defunto (per alcuni può essere fady, tabù, dunque è meglio informarsi prima).




La zona migliore in tutto il Madagascar per visitare i sepolcri mahafaly si trova più a sud, proseguendo lungo la stessa strada, fra Ampanihy e Beloha. Qui, oltre a trovarsi le tombe più originali (quella dell’unica donna vazaha - bianca -, sposata a un malgascio; oppure quella con un grande aereo scolpito sul muro principale), i sepolcri sono facilmente visibili, in quanto volutamente disposti quasi sul ciglio della strada, per ostentare il prestigio economico del defunto. Ad Ampanihy, piccolo centro agricolo, le tombe si trovano ai confini del villaggio e proseguono, per decine di chilometri, lungo la terribile strada nazionale n°10. Qui possono essere viste tombe costruite sia secondo lo stile antico sia secondo quello moderno. Le prime, in pietra grezza, sono caratterizzate da due alti vatolahy, monoliti in pietra, con funzioni commemorative della figura del defunto, poste lungo i lati principali del sepolcro. Agli angoli, quattro grandi massi fungono da pilastri. Alcune piante fantsilohitra, o “alberi della pioggia” (contenenti acqua all'interno), crescono agli angoli principali della tomba o, più raramente, a fianco di un grande albero nei dintorni.



Il valavato (tomba) è situato in una zona dei campi o del deserto, a seconda della ricchezza del defunto. Gli alo-alo vanno dai quattro ai sedici per sepolcro, collocati secondo un ordine strettamente geometrico, e le figure sono invariabilmente orientate verso est. Quanto più il defunto era ricco, tanto maggiore è il numero di zebù che, al suo funerale, viene sacrificato. Nota è la tomba del re Tsiampody, sulla quale furono contate circa settecento corna. I crani degli animali immolati decorano la tomba, con le lunghe corna che spuntano fra le pietre sotto le quali è conservata la salma. Le loro carni, invece, vengono mangiate dagli ospiti durante la cerimonia funebre. È questa una tradizione che ritroviamo, con sfumature differenti, anche in alcune isole dell’arcipelago indonesiano, terre dalle quali il popolo malgascio trae le sue origini.
A volte, tra le pietre di un sepolcro, può risaltare anche una valigia, atta a simboleggiare il viaggio dello scomparso verso l’aldilà. Una tomba sufficientemente adeguata non può coprire una superficie inferiore ai cinquanta metri quadrati, ed è opinione comune, tra i malgasci più tradizionalisti che abitano questa regione, che una bella tomba valga più di una bella casa. La costruzione dei sepolcri è costosa, ed esige diversi mesi di lavoro. In alcune zone, tuttavia, le tombe tradizionali, in pietra grezza, tendono a cedere il posto alle più moderne, in pietra cementata e intonacata. In questi casi, i muri che delimitano il sepolcro recano alcuni dipinti dai colori vivacissimi, raffiguranti motivi geometrici o scene realiste, tratte dai momenti principali della vita del defunto.





Un esempio molto interessante di questo secondo tipo di tombe può facilmente essere incontrato lungo la buona strada asfaltata che, partendo da Tulear, si dirige al bivio che conduce a Fianarantsoa o a Fort Dauphin. Dopo circa quaranta chilometri, uscendo da Tulear, in località Andranohinaly, sul ciglio della strada sono immediatamente riconoscibili le prime costruzioni. Altre, di uguale interesse, si trovano dopo sette chilometri, sempre nella stessa direzione. Questi sepolcri recano dipinta la vita del defunto, come in un fumetto, sulle pareti bianche di fondo, e una casetta sacra, decorata con specchietti o ulteriori disegni, situata al centro del tumulo. Interessantissimi sono i particolari: se il defunto era un soldato, ecco che vengono raffigurate scene di guerra, a volte esagerate, che il milite, magari, mai ha vissuto di persona (esplosioni di bombe a mano più simili a funghi atomici). Sulla facciata principale di una di queste tombe è stato persino dipinto l’alto costo dovuto alla realizzazione del sepolcro (come segno di vanto), 200.000 franchi malgasci, in passato pari a circa 100 dollari, un vero capitale.





Questo cambiamento di “stile”, rispetto ai valavato più tradizionali, è dovuto al desiderio di costruire tombe dall’aspetto lussuoso. La pietra grezza viene ritenuta, da alcuni, “fuori moda” (soprattutto per le generazioni più giovani), che preferiscono utilizzare il cemento intonacato. Scarsi sono i tentativi dell’amministrazione locale e dei clan per convincere la popolazione che l’arte legata agli avi racchiude una ricchezza culturale ed estetica incomparabilmente superiore a una tecnologia d’importazione, che poco ha in comune con le tradizioni mahafaly.
A Tulear c'è anche un minuscolo museo, sponsorizzato dall’università locale, e dedicato all’arte funeraria mahafaly. Vi sono contenute piccole ricostruzioni di tombe, con qualche, interessante alo-alo (per esempio quello raffigurante una squadra di calcio). Una mostra fotografica permanente e qualche libro specifico sulla materia, esclusivamente in malgascio, approfondisce la conoscenza di una tale tradizione.


Il rito funebre
Il rito funebre mahafaly prevede che si attenda la decomposizione della salma prima di poterla collocare nella tomba. La morte non viene vista come una separazione, ma rappresenta il passaggio verso un rango più elevato dell'esistenza. Per raggiungere questo stato e diventare “antenati” i morti devono abbandonare fisicamente ogni elemento di “umidità”, caratteristico dei vivi, ritenuti effimeri. Per fare ciò i morti vanno letteralmente “essiccati”, e l’unico metodo per ottenerlo è di riesumarli. È anche usanza dare alla persona scomparsa un nuovo nome dopo la sua morte. Il famadihana, il rito della riesumazione delle ossa dei defunti, viene ripetuto periodicamente (da luglio ad ottobre, quando non piove), in base alle capacità economiche dello scomparso.
Più il defunto era ricco, più le feste che seguono la sua scomparsa sono imponenti: a volte durano anche due giorni. Si sparano numerosi colpi di fucile, quindi si sacrificano gli zebù, con il cui sangue va cosparsa la base della tomba. Il primo dovere nei riguardi del morto è quello di chiudergli gli occhi, quindi viene lavato e avvolto in un lamba mena, un drappo di colore rosso di seta. Se il corpo è di una donna, i capelli vengono intrecciati, e i gioielli indossati.
La notizia del decesso viene diffusa per il villaggio e, verso sera, quando la toilette funebre è terminata, i parenti, gli amici, i vicini arrivano e danno inizio alle lamentazioni, cominciando la veglia funebre. Le dimostrazioni di dolore sono sempre piuttosto rumorose, e vengono ingaggiati anche dei “lamentatori” professionisti che, in cambio di denaro, si fanno prendere da crisi acute di dolore e gemono all’impazzata. Contemporaneamente, ha inizio una musica assai vivace, suonata con tamburi e flauti, che danno il ritmo a una vera e propria festa. Tutti si eccitano, e il primo zebù (fampian-driarofo) viene sacrificato.



Ciò costituisce i preparativi del rito. I mahafaly hanno l’abitudine di non interrare il corpo immediatamente dopo la morte e, presso alcuni clan, di attendere, addirittura, che la decomposizione abbia luogo. Inutile sottolineare come queste veglie funebri siano poco gradevoli, continuate per lunghi giorni tra miasmi nauseabondi che appestano l’aria, sopportati solo grazie a lunghi sorsi di vino o di rhum. Questo singolare costume ha il significato di non voler interrare il morto con le sue parti putrescenti, ritenute impure. I sepolcri sono considerati provvisori, come vuole la tradizione delle “seconde esequie”, che ritroviamo anche in Borneo.
Dopo essere stato adeguatamente lamentato (per questo sono necessari dai cinque agli otto giorni), il corpo, finalmente, segue la vera e propria inumazione. Il defunto viene sistemato su un tronco d’albero, appoggiato a terra, nella sua stanza domestica. L’uscita del corteo funebre si effettua lungo il perimetro sudorientale (gli altri sono considerati tabù) dell’abitazione, il cui muro viene abbattuto in tale occasione. Numerosi colpi di fucile sono sparati verso est. Il corteo si mette in cammino, con i parenti e gli amici che seguono la salma, cantando e danzando con grande eccitazione. Giunto in prossimità del sepolcro, il feretro viene delicatamente deposto, e alcuni zebù sono fatti circolare intorno a esso più volte: questa formalità è detta variombola, e assicura ai vivi la benedizione del defunto.



ALO-ALO AL MET DI NEW YORK

Davanti alla tomba tutti restano nel silenzio più completo, uno zebù viene sacrificato, e la fossa è preparata. Dopo le preghiere di rito, il corpo viene sistemato in una specie di bara fatta di tronchi di mendoravy - albero del Sud -, e ha luogo l’inumazione. La folla, per un istante ancora in silenzio, riprende i suoi canti e danze, poi si disperde, salutando con colpi di fucile sparati in aria. Importantissima, oltre al luogo, è la data dell’inumazione: la sepoltura deve coincidere con una precisa fase lunare, nell’ora più propizia di un giorno stabilito. Il luogo, inoltre, va scelto adeguatamente: lontano da un’abitazione (se l’ombra del tumulo la raggiungesse coprirebbe di sventura chi la abita) e in una posizione adatta: se il morto venisse seppellito in un luogo sbagliato, si potrebbe trasformare in un “nemico insaziabile”, una specie di fantasma sempre intento a richiamare a sé i vivi prima del termine concesso loro.

Pubblicato su Smoking, Frigidaire


ALTRE FOTO SU