lunedì 18 luglio 2011

INDIA - IL VINO DI SHIVA


La nuova industria del vino indiano

Mignoli levati al cielo mentre afferrano un bicchiere, gli indiani hanno scoperto il vino. Brodaglia imbevibile fino a qualche anno fa, ora iniziano a circolare le prime bottiglie degne di tale nome. Grazie anche, e soprattutto, agli italiani.

Goa, l’antica osteria dell’India
Quattrocentocinquanta anni di dominazione portoghese non hanno lasciato, nel piccolo stato della federazione indiana, solo la lingua di Camões tra i vecchietti, una miriade di chiese e una saudade indefinita per un passato coloniale ormai tramontato. Oltre ai crocifissi, sparpagliati un po’ dovunque, la traccia dei lusitani è a ogni angolo di strada di Panjim, la capitale dello stato, oggi ribattezzata Panaji dalla nomenclatura indù. Bar. Questa la parola chiave che, ogni sera a partire dal tramonto, calamita almeno metà della popolazione maschile adulta dentro a locali grandi come sgabuzzini ma nei quali si vola alto. Lasciate le mogli a casa, i goani doc non sanno rinunciare al whisky, meglio se d’importazione (ma troppo caro, per i più; abbordabile, invece, quello prodotto in loco). Qualcuno, magari di fede indù, ha un giorno alla settimana di ‘digiuno’ alcolico (di solito il lunedì), ma gli altri giorni, specie se le cose a casa non vanno benissimo, prevedono una seduta alcolica quasi quotidiana con gli amici. In alternativa si marcia a feni, il potente distillato ottenuto dalla fermentazione del caju, il frutto che dà l’anacardo. Chi, invece, a casa non ci vuole tornare barcollando (è frequente, di notte, incappare in qualche zombie reduce da una sessione intensiva di feni che cerca il cammino verso il letto, tra pericolosi zig-zag in mezzo alla strada), si accontenta di qualche birra. La popolare Kingfisher o, da un po’ di tempo, l’americana Budwaiser che, nonostante abbia il sapore e la gradazione alcolica dell’acqua, sta spopolando tra i bevitori locali. Sullo sfondo di questo panorama, inoltre, sopravvive il portoghesissimo Porto, seppure fatto con intrugli autoctoni che a Oporto farebbero rivoltare nella tomba generazioni di vinai.



Un po’ come gli indiani degli altri stati vengono a Goa a spiare le sporcaccione turiste straniere in bikini (ieri spiate da lontano, con il binocolo, da dietro gli scogli; oggi, con l’avanzamento tecnologico, fotografate con il cellulare, facendo finta di niente), i medesimi piombano su Panjim e spiagge limitrofe (Calangute, Baga, Candolim) a caccia di roba da trangugiare. Nella stragrande maggioranza degli altri stati della federazione, infatti, l’alcol è proibito o venduto quasi come fosse eroina, in pochi e controllatissimi negozi dove solo a entrarci già ti senti in colpa (karma in picchiata). E la mancanza di abitudine al bere dei turisti baffuti, ogni tanto, fa assistere a scene spettacolari negli abbeveratoi della città. “Una volta ero seduto con gli amici al solito bar e sono entrati otto tipi visibilmente non di qua. Molto probabilmente del Karnataka - mi racconta Shekar, amico e bevitore di lunga data -. Hanno ordinato una birra e otto bicchieri. Forse pensavano che fosse Jack Daniel’s”. Mentre me lo racconta, come a confermare quanto sopra, gli inquilini del tavolo di fianco a noi stanno mescolando whisky a Fanta. Corro in bagno a ridere, non è educato farlo in faccia alla gente.
Panorama tragicomico, dunque, laddove i bevitori sono neofiti. Ma il mercato, si sa, ha sempre le antenne tese. Ecco dunque, più o meno a partire dal nuovo millennio, l’ingresso del vino sulle tavole indiane. O, meglio, nei negozi che vendono alcolici e in qualche ristorante ispirato al mondo di fuori. Bere vino, fra l’élite indiana, cosmopolita e proveniente dalle grandi città - Bombay, Delhi, Bangalore, Pune -, oggi fa molto chic.


Nashik, la ‘capitale’ del vino indiano
Nel vicino stato del Maharashtra, di cui Bombay (oggi Mumbai) è la capitale, a partire dal 2001 il governo ha deciso di investire sul vino. Fino ad allora già la parola vino era considerata tabù, ma il nuovo millennio sembra aver portato nuove idee in alcune regioni del Paese dominato da mille religioni proibizioniste. Grazie alla Grape Processing Industrial Policy, inaugurata quell’anno, è stato più facile ottenere licenze per produrre vino ed è stato dato sostegno ai viticoltori che da allora sono proliferati. In particolare nella valle di Nashik, città a nord-est di Mumbai, e della vicina Sangli. Oggi, soprattutto in quella zona, ma anche in altri luoghi del Maharashtra, si contano oltre 50 cantine. Qualcuna grande e numerose di piccole dimensioni, destinate perlopiù alla vendita entro i confini regionali. Nel 2005 si è calcolato che 23.000 ettari di quello stato fossero destinati alla coltivazione di uva (non eccezionale), di cui solo un migliaio riservati a quella da vino. Il dato è in forte crescita, grazie al boom che sta avendo la bottiglia. Tanto che oggi addirittura esiste la Indian Wine Academy (www.indianwineacademy.com), un’azienda di consulenza enologa fondata a Delhi nel 2003. L’accademia è autrice di delWine, la prima newsletter indiana sul vino (e sul cibo di qualità), e dell’Italian Wine Guide, una guida dei vini italiani distribuiti negli alberghi e nei ristoranti del Paese, volume commissionato dal nostro ICE (Istituto per il Commercio Estero).
La stragrande maggioranza delle uve da vino coltivate in India hanno origine francese. Chardonnay, Sauvignon Blanc, Chenin Blanc. Tra i bianchi: Viognier e Clairette. Rossi: Cabernet Sauvignon, Shiraz e Merlot, quest’ultimo peraltro non di grande successo nel Paese asiatico. E poi Zinfandel, un’uva ‘immigrata’ in America ma di origine italiana, da cui si ottengono rossi e rosé semidolci. Fino a una quindicina d’anni fa, in India, era pressoché impossibile reperire una bottiglia di vino prodotto in loco che fosse bevibile. Oggi, a seconda delle opinioni e del gusto, variabili come le condizioni climatiche, sembrano esserci tre produttori (le aziende familiari dei Grovers, dei Chougules e dei Samants) che hanno raggiunto un livello di qualità interessante. Anche i produttori italiani, francesi, australiani, sudafricani, statunitensi e cileni sembrano aver puntato gli occhi su questo mercato nascente. E alcuni viticoltori indiani hanno iniziato a importare vino fatto all’estero e a imbottigliarlo in India. Al momento il governo indiano ha deciso di investire su un’ampia promozione del vino nazionale, con un’opera di marketing nuova del Paese. Fiere del vino hanno iniziato ad essere allestite negli stati più sensibili a questo ‘nuovo’ prodotto. È così arrivato il primo ordine dagli USA, mentre i prossimi ‘bersagli’ saranno l’Europa, il Sudafrica e il Sud-est Asiatico.


La top ten, secondo alcuni
Nel 2006, qualche intellettuale del vino ha stilato una graduatoria delle dieci aziende vinicole più importanti dell’India. La maggiore, per dimensioni e valore, sarebbe la Indage, chiamata anche - secondo una ridicola moda francesizzante - Chateau Indage. Pioniera della viticoltura in India, con vigneti a Narayangaon (lungo la strada fra Pune e Nashik), ha iniziato l’attività con l’etichetta Marquise de Pompadour nel 1986, seguita dal Riviera e, nel 1989, dal (terribile) Chantilli, quest’ultimo assai diffuso a Goa. Indage punta sulla grande produzione e distribuzione a basso costo, con ovvi effetti sulla qualità. Tra questi vini ‘da battaglia’ si annoverano le etichette Vino, Vin Ballet e Figuera, derivati dell’uva imbottigliati a contratto.
Al numero due viene la Groves Vineyards, inaugurata a Bangalore nel 1989, dopo aver testato i terreni in diverse regioni. I primi suoi vini furono prodotti nel 1992 e tre anni dopo il loro La Réserve (un Cabernet Shiraz) ottenne un importante premio come nuovo vino rosso. Un prodotto a basso costo di questa azienda è il Santé.
Terza classificata è la Sula, cantina inaugurata nel 2000 e oggi presente in tutte le fasce di prezzo e di prodotto (piuttosto scarsino, seppure con un marketing agguerrito e con una distribuzione capillare, almeno a Goa). La ND Wines, che fornisce uve e vini a marchi più noti (soprattutto Sula), è la quarta azienda per dimensioni e importanza, anch’essa con vigneti vicino a Nashik.
Seguono la classifica aziende minori. La Sankalp Wines fu la prima ad usufruire della legge del 2001, e oggi distribuisce in tutta l’India l’etichetta Vinsura, lanciata nel 2003. Con vigneti a una trentina di km da Nashik, produce Chenin Blanc, Sauvignon Blanc, Zinfandel bianco e Zinfandel rosso. La Renaissance Wines (sento i francesi inorridire per i nomi; per non parlare degli italiani…), anch’essa nei pressi di Nashik, ha una cantina che sembra uscita dalle campagne francesi e un packaging piuttosto elegante.
La Vintage Wines, nella stessa zona, secondo alcuni opinionisti produrrebbe il miglior vino indiano, il Reveilo, reperibile soprattutto a Mumbai. Con una produzione limitata (circa 100.000 litri nel 2006), questa azienda ha una politica commerciale originale. I suoi prezzi di vendita sono uguali in tutta l’India, nonostante costi di distribuzione e tasse altamente variabili da regione a regione. La Vintage Wines, inoltre, nel Maharashtra consegna direttamente i propri prodotti, così da evitare gli squali della distribuzione, in quello stato particolarmente avidi. Il Reveilo è ottenuto grazie alla consulenza del nostro Andrea Valentinuzzi e ai macchinari italiani. La prima vendemmia di questo vino risale al 2005, anno in cui vennero immessi sul mercato quattro tipi di Reveilo: il Chenin Blanc, lo Chardonnay, lo Syrah e il Cabernet Sauvignon.
Chiudono la graduatoria tre marchi minori. La Mandala Valley, con sede a Bangalore e vigneti nel Karnataka, ha prodotto le prime bottiglie nel 2006 sotto contratto nel Maharashtra. La Flamingo Wines, con vigneti nell’area di Nashik, sta avendo difficoltà nel distribuire e vendere i propri prodotti. La Vinicola, infine, a Goa, produce un gran numero di bottiglie, distribuite soprattutto nella regione.


La top one, secondo me
A personalissimo giudizio di chi scrive, tuttavia, i migliori vini oggi prodotti in India sono quelli della Chateau de Banyan (perdonatele l’ennesimo ‘castello’ francese; lo farete senz’altro dopo aver assaggiato il suo Cabernet Sauvignon). Azienda ai primi passi (secondi: è solo alla seconda vendemmia), con sede a Bangalore, vigneti a Nashik e cantine a Cuncolim, nel Sud di Goa, produce l’etichetta Big Banyan (come l’albero sacro per gli indù) in cinque bottiglie: il già citato e osannato Cabernet Sauvignon, lo Shiraz e lo Zinfandel tra i rossi, il Sauvignon Blanc e lo Chenin Blanc tra i bianchi. Una bottiglia costa attorno agli 8-9 euro, un lusso in India, ma in linea con i prezzi di alcuni altri vini indiani, seppure con una qualità decisamente superiore. Anche nel caso del Big Banyan c’è lo zampino italiano. Grazie alla saggia consulenza del nostro enologo Lucio Matricardi (consulente del dipartimento di Viticoltura ed Enologia dell’Università di Milano) e della sua équipe, il Big Banyan è in rapida e meritata ascesa tra i consumatori che non si sono bruciati il palato con le spezie al lanciafiamme della cucina indiana. Oggi è reperibile a Goa, dove ha un punto di vendita e promozione anche al mercatino hippy del sabato sera di Arpora, oltre che nei vicini stati del Karnataka, del Kerala e dell’Andhra Pradesh. Comprando uve nella valle di Nashik e di Sangli, grazie a Matricardi la Chateau de Banyan ha ‘innalzato’ il livello del vino prodotto in India. Se, fino all’arrivo del nostro enologo, tutti o quasi i produttori raccoglievano le uve al primo raggio di sole, con ovvie conseguenze sui prodotti finali (vini ‘fiacchi’, tenuti su da quantità industriali di zuccheri aggiunti), da un paio d’anni Matricardi ha avviato una selezione più accurata, acquisendo uve fatte maturare maggiormente sul vitigno, seppure a costi maggiori (i coltivatori ci marciano: più giorni sulla vite, più rupie). Il risultato è sul palato di tutti o, quanto meno, di chi si può permettere una bottiglia di Cabernet Sauvignon Big Banyan. Un vino destinato alle tavole più esigenti, anche fuori dalla grande Madre India.



Pubblicato su Smoking

3 commenti:

  1. WOW! grande madre India, che adoro e che visito ogni anno, anche il vino ora....mi tocccherà dimenticare la kingfisher...grazie per l'articolo!

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  2. wow era ora... sono certa che se si diffondesse la cultura del vino nell'aspetto dell'ebbrezza dionisiaca, il lato rigido e patriarcale della cultura indiana potrebbe magari retrocedere in favore di quello + matriarcale shivaita prevedico. il vino è diVino e fa miracoli

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