Casual Vietnam
Sorprendente Vietnam. Paese non facile, privo di grandi monumenti, mezzo ateo, con una lingua marziana e con gente assatanata per il Dio Dollaro, affatto passiva (Vietcong docent), piuttosto reattiva e incazzereccia al primo sentore di abuso. Rissa fuori dalla cattedrale di Hanoi, vista con i miei occhi, all’uscita dalla messa di natale, per le ritrite questioni di traffico stradale, subito dopo l’andate in pace. Ma pure un Paese che, visitato una volta, ti entra dentro, nel sangue. Il giorno dopo che lo hai lasciato ti viene subito voglia di tornarci, anche se fino a ieri hai passato il tempo ad arrabbiarti per questo e per quello (piccole truffe, clacson deflagranti, traffico folle, inquinamento orrendo, cani per merenda, grande difficoltà a comunicare, il frigo della Coca-Cola con solo un pesce sul fondo e di fianco, fuori, una cassa di birra ad abbronzarsi sotto i quaranta gradi centigradi dei tropici, tu assetatissimo; i vietnamiti di campagna bevono birra calda, annacquata con il ghiaccio). È un mistero della psiche umana cui è difficile dare risposta: anche se ostico su più aspetti (ma molto più facile della Cina, mi ha sottolineato un giovane dentista tailandese incontrato alla stazione ferroviaria di Lao Cai, reduce da un osticissimo viaggio nella vi-Cina ), il Vietnam ti lascia qualcosa di indefinito - la bellezza delle sue donne? la bontà dei suoi involtini primavera? il caffè migliore del mondo? - che ti porterà, prima o poi, a tornarci. Paese in rapida evoluzione, con tutti i contrasti del caso. Il Partito domina, ma la quotidianità è fatta di mille micro-avventure improntate all’individualismo più sfrenato (motor-bike? ogni vietnamita, riconosciutoti come turista, ti offrirà di fare un giro sul suo cavallo a motore), per mettere assieme il pranzo con la cena. Un’arte di arrangiarsi, un po’ alla cubana, per arrotondare sugli spiccioli dei salari ufficiali, soprattutto da quando i ficcanaso stranieri con la smania di viaggiare per noia hanno iniziato a frequentare sempre più il Paese. Costi per noi irrisori, e manodopera a prezzi stracciati, soprattutto per gli industriali occidentali. Oggi persino la Cina investe e produce in Vietnam. In madrepatria il tenore della vita è cresciuto e gli operai si sono messi in testa di giocare al sindacalista e hanno iniziato a chiedere di più, dunque basta oltrepassare la frontiera e affidare la produzione a qualche instancabile e sottopagato battaglione di operai vietnamiti. Produrre, guadagnare, lavorare: questa la Trimurti del Vietnam moderno, con tutti i pro e i contro. Anche nel campo della moda femminile.
In pigiama, a tutte le ore
Produrre, dicevo. E chi produce, a meno che non sia il manovratore del tutto (il padrone della fabbrica/negozio/hotel, con villa piscina-dotata nei quartieri da ricchi di Hanoi od Ho Chi Min City), non ha grosso tempo/energia/denaro a disposizione per occuparsi della cosiddetta futilità. Esigenze primarie: guadagnare, riempire lo stomaco, se possibile stanotte dormire con un tetto sulla testa, sono previste piogge monsoniche. Futilità: tutto il resto. Il guardaroba è re di futilità, quello che importa è non andare in giro nudi. Dovendoti mettere qualcosa addosso, però, evviva la creatività. Altro che passerelle di Milano, Parigi o New York. Oggi la vera fantasia, il vero casual è vietnamita (e, in seconda analisi, nella vicina Cambogia, stilisticamente allineata). Stilisti di tutto il mondo: rifatevi gli occhi, ribaltate gli schemi abusati. Annullate il concetto di ‘colori in tinta’, ‘accostamento’, ‘pendant’. Buon gusto ed eleganza, filosofie da primo mondo tediato, buone per signorine che hanno bevuto troppi tè con i biscottini. Tutto da rifare, il Vietnam è alle porte. Inconsapevole del suo essere tremendamente trendy, offre un panorama di abbigliamento (e di accessori) da far cadere il mento di invidia a qualunque tardo-hippy, neo-grunge, post-moderno, punkabbestia o raver che si rispetti. Colori in libertà, prezzi stracciati, poche ma granitiche necessità: queste le regole d’oro per un viet-guardaroba DOC. Il pezzo forte, dominante, è il pigiamino. Se possibile con i pantaloni che riprendono i disegni della parte superiore, ma non è indispensabile. Leggero, elastico, economico. Buono per andare a fare la spesa al mercato, per un bel giro in moto con la famiglia quando cala il sole, per cucinare e, perché no, pure per dormire. Aderente nelle parti basse delle signore, a volte può raggiungere persino punte di erotismo, cosa che non guasta, almeno per gli amanti del sesso casereccio. Scarpe: dalle ciabattazze di plastica turchese con fori d’areazione ai sandalini sexy da cubista, tutto va bene. Le prime senz’altro più pratiche, i secondi più ricchi di vanità. Elemento che li accomuna: spesso un bel calzettone multicolor, non importa se fuori ci sono settecento gradi all’ombra. Il maledetto Sole è nemico del Vietnam (e di mezzo Sud-Est asiatico, della Corea e del Giappone). Abbronzatura fa contadino, povero, proletario, zappaterra.
In maschera, non necessariamente per fare una rapina
Risalendo il lungocoscia: arriviamo alla parte superiore del pigiamino, grande pianura arcobalenica attorno alla quale scintillano, come diamanti, accessori più unici che rari. Come già detto, la pelle tendente al marroncino fa contado. Il massimo della vietbellezza è il bianco latte UHT, sterilizzato da tutte le componenti melaniniche, bianco-che-più-bianco-non-si-può, bucato dopo il passaggio della nonnina con l’Ace, ex-rosa, abbronzatura norvegese, diciamo. Ecco, dunque, fantastici guanti ascellari, specie di collant da braccia fatti in simil-seta (acrilico al 101%, con quello che costa la vera seta). Poi, più su, la testa/faccia, vero fuoco dell’attenzione dei vietstilisti. Calcolate almeno un motorino spetazzante cinese (giapponese per il ceto medio, Vespa per i veri ricchi) a famiglia vietnamita, e presto avrete ottenuto l’inquinamento per metro cubo nell’etere del Paese. Una mascherina è d’obbligo. Il mercato degli accessori non sta a guardare, e la vietmoda è intimamente legata alla cultura della motor-bike. In ogni angolo del Vietnam troverete quella giusta per la vostra dimensione mascellare e per il vostro gusto. Bandiera americana? C’è. Palloni da calcio? Ci sono. Cuoricini rossi rossi? Con le paillettes? Ci sono pure loro, basta cercare. Giacciono appese su espositori ad hoc, in tutti i negozi di abbigliamento. I più seri le espongono persino su manichini. Le più piccole hanno dimensioni da mascherina per gli occhi, da aereo. Quelle più grandi, il vero trend attuale nelle città maggiori, hanno dimensioni da pannolone, da assorbente per donnone con le triple ali. Svolgono la duplice funzione di tenere lontani i gas di scarico e di coprire quanta più faccia possibile, in funzione anti-abbronzatura. Per indossarle ci vuole circa un quarto d’ora, è più o meno come annodare un corsetto settecentesco o infilarsi in uno scafandro, però l’efficacia è garantita, a prova di marmitta.
Casco, il cappello che in lavatrice non infeltrisce
L’effetto chador, solo gli occhi scoperti (salvo occhiali), è completato da ciò che decidiamo di mettere sul cranio. La media è composta da un bel cappello, soffice e a tese molto larghe, sormontato dal casco d’ordinanza. Le tese, ancora una volta, in funzione tendone contro i raggi solari. Ma, anche in questo caso, non esistono regole fisse. Basta che vi mettiate per dieci minuti al centro di una rotonda di Hanoi o dell’ex Saigon a osservare ciò che passa su due ruote (i famosi Bastioni di Orione), presto vi renderete conto di come non ci siano confini alla vietfantasia. Le signorine cool delle due grandi città, oltre ad aborrire i pigiamini, adorano la nuova generazione di caschi, ‘firmati’. Eleganti, con logo taroccati Gucci o D&G, forse non indistruttibili nel momento dello schianto, ma anche in certi luoghi del pragmatico Vietnam l’occhio vuole la sua parte. Di solito vengono indossati mentre la fanciulla guida e manda un SMS, con mezzo occhio sul traffico e uno e mezzo sul telefono. Ogni tanto una vecchia contadina, scesa in città con l’assurda pretesa di utilizzare un’obsoleta bicicletta, viene travolta dalle telefoniste. Ma, si sa, la tecnologia travolge tutto. Donna e uomo vietnamiti, stilisticamente parlando, si incontrano nel territorio dei caschi. Non per quanto riguarda quelli firmati, prerogativa delle signorine (un vero vietmacho non li porterebbe mai), ma per quelli multiuso. Il Vietnam va oltre l’etimologia di questo accessorio, in teoria utile se caschi e non ti vuoi frantumare il cranio. Nel Paese un casco va bene per tutte le occasioni. Protegge dal maledetto sole (non importa se, con il calore che c’è, tra capelli e parte interna del casco si possono coltivare i formaggi), dalla pioggia, funge da cappello per ogni situazione. E poi, con tutto quell’allaccia-slaccia, non si può mica metterlo e toglierlo in continuazione, no? Ecco, dunque, chi se lo porta (sulla testa) a tavola, mentre pesca, va a fare la spesa tra le bancarelle di un mercato, o vi vende tre galline e una papera.
Evviva la tradizione!
Non pensate, però, che i nuovi accessori abbiano spazzato via gli abiti tradizionali vietnamiti. Per fortuna. Le ragazze che frequentano le scuole superiori, soprattutto nei centri minori, vestono ancora il sensuale, candido ed elegantissimo Áo Dài. Svolazzante e leggero, spesso ‘contaminato’ (scusatemi la parolaccia) con accessori più moderni: mascherine, maglioncini molto casual quando la temperatura si abbassa di un grado, cappellini da pescatore grunge. Chi lo indossa sono giovani in età tardo-adolescenziale, non immuni agli influssi della moda. Nel Nord, abitato da grandi quantità di etnie che vestono abiti tradizionali, il mix fra i medesimi e i nuovi accessori raggiunge effetti spettacolari (caschi a go-go, piumini di plastica viola portati su abiti millenari). Qualche anziana può arrivare a portare casco e Non Quai Thao (o Non La), il cappello conico da mondina vietnamita, non chiedetemi come perché la geometria è una materia difficile da descrivere a chiacchiere. E, più di rado, si può scovare un anziano con coppole alla francese o alla siciliana. La più bella che ho mai visto, al mercato di Bac Ha, era grigia e pelosissima. Sembrava fatta con topo scuoiato.
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