giovedì 1 novembre 2012

MONDO - FETICCI DI VIAGGIO

Piccoli oggetti, grandi ricordi


1) banconota finta da 100 $, piegata e ripiena di cascarilla, polvere rituale della Santería cubana. Datami come portafortuna da un’amante jinetera. I denti non mi sono ancora caduti tutti, dunque non porta sfiga.



2) ‘foglia d’oro’ birmana, pezzettino d’oro preso a martellate per ore dagli schiavi dei laboratori artigianali birmani, fino a trasformarlo in un quadratino dallo spessore infinitesimo, poi venduto in una bella bustina di carta. Si applica sulle statue di Buddha, per la buona fortuna. Appena divento buddista la applico.



3) l’Occhio di Dio, il feticcio più importantissimo. Pietrazza di natura ignota, regalatami in Guatemala dall’artigiano-pusher Hector Fulton (poi gli scippai il nome, firmandomi così su svariati articoli pubblicati su Frigidaire). L’ho portata appesa al collo per un decennio buono. La succhiavo, durante i decolli e gli atterraggi in aereo, in funzione antisfiga.



4) tappi di cera svizzeri. Indispensabili come l’ossigeno, per difendere il santo sonno da vicini che trombano, spostano mobili, guardano Mario de Filippi a volume osceno, cani isterici, galli con l’ansia della sveglia, capodanni cinesi e musicazza negli autobus indiani. Unica controindicazione (oltre ai 7,50 euro per scatolina da 20 pezzi): danno assuefazione. Senza, dopo un po’, non riesci più a dormire, nemmeno in una camera iperbarica. E, se li usi un po’ troppo, quando il rosa si trasforma in nero, arriva l’otite.



5) il plettro di Dio, all’anagrafe Jorge Ben. Conquistato a gomitate in prima linea (bordo palco) durante un concerto elettrizzante dei suoi, a Umbria Jazz, anni fa. I vicini di gomito mi invidiarono tantissimo.


6) il tappo per le orecchie di Dio, all’anagrafe Lenine (musicista brasileiro, non rivoluzionario russo). Conquistato a gomitate in prima linea (bordo palco) durante un concerto elettrizzante dei suoi, a Central Park, NYC, anni fa. I vicini di gomito mi invidiarono tantissimo, anche se al tatto era viscido di anima di orecchie.



7) pass della comune di Osho, Poona, India. Te lo davano solo dopo essere stati promossi all’esame dell’AIDS. Poi, dentro la comunità, era tutta festa. Ah, che bei tempi.



8) tessere stampa tarocche, artigianato asiatico utilissimo per accedere a qualche evento imperdibile (campagna elettorale di Lula a Salvador de Bahia nell’89, per esempio). La prima, a sinistra, fu fatta con i trasferelli da un maestro quasi orafo al mercato di Divisoria, Manila. La seconda, dove la facciazza mi si era arrotondata, è un frutto delle volpi di Khao San Road, Bangkok. Per 10$ puoi scegliere fra patente internazionale, tessera stampa o studentesca.



9) carte per studiare i kana (Hiragana e Katakana), l’ABC del giapponese scritto (quello insegnato ai bimbi giapponesi in asilo; dalla prima elementare in poi si inizia a fare sul serio, con i kanji, un vero dolore nel tenue). Indispensabili, i primi tempi in Giappone, per capire al supermercato se quella roba fritta che stai comprando è pollo o pesce.



10) agendina tascabile di sopravvivenza. Pagina dedicata all’immondo coriandolo, se sai come si chiama nelle altre lingue (hindi del Sud, hindi del Nord, vietnamita) lo eviti nei piatti al ristorante. Gesù, alla faccia di quel bidone aspiratutto di Anthony Bourdain, quanto l’ho usata.



11) la mia prima racchetta Forzanes (5*) da frescobol, la mia prima pallina Penn (lucida per l’uso). Quanto sudore, quanto divertimento.


12) accessorio fotografico d’antiquariato: ’90 gradi’, uno zoom finto da 007 (lire 100.000, mica poche, per un pezzo di vetro), in pratica uno specchio camuffato da lente fotografica. Girandolo in maniera adeguata permette di fotografare qualcuno puntando lo zoom a perpendicolo rispetto al soggetto, così da far pensare che si stia fotografando altro. Il marchingegno, però, è di difficile manovrabilità, e dopo la terza foto fatta con quello strumento, a polso quasi slogato, l’ho archiviato nello sgabuzzino.



13) oggetto semplice e santo: panno-sciarpina giapponese antisudore. Passate un’estate a Okinawa, capirete a che cosa serve.



14) borraccetta gringa per l’acqua. Una volta, quando vedevo gli americani che andavano sempre in giro con ‘sta roba qui, non li sopportavo. Poi me l’hanno regalata. Poi l’ho usata. Non vivo più senza, nemmeno quando esco a cena. Con quello che costa la Ferrarelle.


15) feticissimo. DVD autografato da Keifer Sutherland, in arte Jack Bauer, protagonista della serie ‘24’, fondamentale nella costruzione dei veri uomini. A New York feci la fila come un adolescemo in calore, neanche troppo tempo fa, da Best Buy. Il sommo stringeva mani e autografava, io tremai di eccitazione e gli dissi che la sua voce doppiata in italiano faceva cagare. I know, mi disse.



16) forse ancora più feticcio del n°15: sceneggiatura O-RI-GI-NA-LE di un episodio di ‘24’, ottenuta non chiedetemi come (l’italiano ha le sue conoscenze, si sa), nonostante la chiara dicitura apripista (CONFIDENTIAL). Non la vendo a nessun prezzo, è inutile insistere.


17) back-gammon da viaggio, arrotolabile, FATTO CON LE MIE MANINE. Copiato da quello di una fighessa tetesca che lavorava in un negozio di cose inutili a Panajacel, Guatemala. Come lo vidi, me ne innamorai (del back-gammon, non della fig.). Tappeto di infinite battaglie.



18) mascherina anticancro, per guidare la moto nel traffico pazzo e schifoso di Saigon. Come si può notare, in Vietnam gli americani non hanno lasciato solo le bombe.



19) l’unica cravatta che ho, per le occasioni davvero eleganti. Il regalo di un caro amico, acquistata in un negozio per cazzoni di New Orleans. Non l’ho usata un granché, ma ha sempre un certo stile.



20) mini-dizionario Lonely Planet (fotocopiato, come fanno i tarocchi in Vietnam non li fanno manco nei Quartieri Spagnoli) di vietnamita. Indispensabile, per esempio, quando arrivi in una piccola città e vuoi spiegare al tipo del bar che nel frigo semivuoto, anziché tenerci solo due pesci, ci potrebbe mettere anche qualche bottiglia di birra che, invece, tiene nella cassa ad abbronzarsi sotto il sole DI FIANCO al frigo.



21) strafeticci. Libri autografati, con tanto di DEDICA, da Dio, all’anagrafe Jorge Amado. Me li regalò quando lo intervistai, nel 1994. Non li vendo a nessun prezzo.



22) ventaglio antigringhi, utilissimo per sopravvivere al caldo schifo di Okinawa in agosto, mentre sei accampato fuori da una base militare americagna a incazzarti per l’arrivo degli elicotteri Osprei, rumorosi frullatori d’aria e di organi intimi.



23) borsina giapponese per la spesa, leggermente freak, fatta con le manine della mia fidanza. Ecologicamente corretta (non compri borse di plasticazza), ha una resistenza da argano. Lo giuro. E poi ha pure la dedica, in basso a dx.



24) schiacciamosche made in Italy (finché non l’ho fotografato ho sempre pensato che fosse made in China), indispensabile per attendere che il vostro taxi-brousse si riempia di passeggeri, oltre che di mosche, in un’autostazione africana. Oppure per riuscire a dormire qualche ora nella bettola che vi hanno venduto per camera, in Amazzonia (funziona da dio anche contro gli stronzi mosquitos).



25) famigerato model release, documento che ogni fotografo serio, oggigiorno, con l’andazzo che c’è (avvocati sempre pronti a farti causa perché hai paparazzato qualcuno), dovrebbe usare dopo aver ritratto qualche umano vivo, se poi vuole venderne la foto. All’atto pratico, quasi nessuno (me in primis) lo usa. Farlo è un secondo lavoro, ci vorrebbe un assistente solo per quello. Ve lo immaginate, mentre siete lì che state fotografando la parata di Saint Patrick sulla 5th Avenue, correre dopo ogni click a molestare chi sfila, chiedendogli la firma e un’infinità di dati? No way.



26) sciarpino nepalese, quasi indistruttibile. Mi ha salvato da infiniti mal di gola, puzze schifose, tubi di scappamento, vicini di bus con l’alitosi. Appena torno in Nepal ne compro quindici.



27) guayaberas, le camicie più belle del creato. Nate per essere usate dai contadini caraibici per raccogliere i frutti di guava – hanno quattro tasche, due all’altezza dei capezzoli, due a quella della cintura -, sono poi diventate quanto di più cool il look da mafioso di Miami possa concepire. Le colleziono, ma ne ho solo 11 (donazioni welcome). In ordine di importanza: 3 di marca Ravgo, il 5* del settore, vendute in un negozio vicino all’autostazione di Merida, Mexxxico, che da solo vale un aereo fino a laggiù; 1 di marca Yucalpetén, sempre di Merida; 1 fatta in Belize e 1 a Panama (si è ristretta, non vale una cippa); 5 made in China, marca Mayan, 10$ ciascuna in un negozio proletario per latinos di Jackson Heights, NYC. Ogni volta che ci passavo davanti ne compravo una di colore diverso. Le uso poco, ma il mio cassetto ne è molto orgoglioso.



28) camicia da best driver di autobus sudcoreano. Finita dio solo sa come in un mercato pulcioso in Laos, dove l’ho comprata per la vorticosa cifra di 2$. L’ho usata nelle occasioni speciali, per guidare la moto fra le risaie del Laos e al carnevale degli stranieri a Goa. Il mio era l’abito più bello, tutti mi facevano ohhhh e mi invidiavanooohhh.


29) adattatori per prese di corrente dell’intero globo. Dio, quando creò tutte le cose, non mi è chiaro perché, decise di fare un bel casino in termini di prese di corrente. Così, viaggiando, mi è toccato dedicarmi anche a questa collezione. Oggi posso infilare i miei cavi in qualsiasi buco.



30) student pass per la rete della metropolitana newyorchese. Trovato per terra un bel dì, l’ho usato di brutto, viaggiando gratis in lungo e in largo nella ragnatela sotterranea della grande città, nonostante l’età dello studio l’avessi passata da un bel pezzo. Un brutto giorno due cops mi fermarono, dopo che ero appena entrato nella metropolitana, chiedendomi di vedere la mia tessera. Gesù è grande e volle che nel portafogli avessi anche un’altra tessera, valida. Per fortuna i due non erano autorizzati a infilare le mani nel mio portafogli, dunque non sono finito ammanettato.



31) scusate l’ovvietà, ecco un iPod®. Attrezzo per me indispensabile, non tanto per ascoltare i miei Artisti di riferimento, ma per difendere orecchie e cervello e sistema nervoso dalle scimmie rumorose che affollano i treni italiani e del resto del mondo (unica eccezione il santo Giappone, dove la buona educazione fa rispettare i timpani altrui). Sì, la socialità è una gran bella cosa, ma le chiacchiere velenose dei vicini sono troppo spesso mortali.



32) longyi birmano, il meglio che c’è sul globo per avvolgere le parti intime e le gambe con una comoda, rassicurante copertina-sottana unisex. In altri luoghi potrete chiamarla pareo o sarong, ma quello birmano è una carezza all’anima, per non parlare delle parti intime.


33) banconota da 1 deception, souvenir più unico che raro, raccattato durante una commemorazione dell’11 settembre a NYC, quando ancora c’era il figlio scemo di quello scemo di Bush. Stampata dai sostenitori dell’”inside job”, secondo i quali l’attentato alle Torri Gemelle fu realizzato da organi interni del governo americano, anziché da saladini in crociata contro i grattacieli gringhi, non ha circolato un granché. Però il suo bell’effetto lo fa.



34) collezione di dépliant delle compagnie aeree su che cosa (provare a) fare in caso di emergenza. In funzione antisfiga, ça va sans dire.


DIARIO D'AFRICA


Ecco quanto rimane del diario d’Africa scritto da mio nonno, il sottotenente Giovanni Natalucci, spedito nel 1939, assieme a molti altri sventurati, a tenere alto l’onore della Patria in ‘Abissinia’. Un reportage d’altri tempi, trascritto esattamente come fu composto (linguaggio rococò, sintassi così cosà, ingenuità e razzismo a go-go, atmosfere di qualche anno luce fa). 
Per fortuna sono nato nel 1965.


10 aprile 1939
Il 10 aprile 1939 d'ordine di S.M. il Re dovetti presentarmi al II Reggimento Art. del "Metauro" per servizio quale richiamato della classe 1911, per prendere parte al conflitto Italo-Etiopico, di cui dovevano sorgere le ostilità da un istante all'altro.
Nei primi tre mesi non vi fu nulla di straordinario, essendo restato in Ancona in servizio. Nel mese di luglio venimmo trasferiti al 12° Reggimento Artiglieria della "Sila", mobilitata per l'Africa Orientale. Eravamo capitati nel periodo delle manovre estive e quindi ne prendemmo parte, restando 49 giorni nell'interno del territorio della Sila, di cui parlarne sarebbe come dire essere già in terra d'Africa. Forse il Governo Italiano, pur avendo fatto moltissimo per detta zona, non ha creduto, date le condizioni del terreno, estendere le proprie opere di carattere fascista e moderno fin là. Quindi in quel periodo di tempo abbiamo quasi vissuto un preambolo di vita africana: creduto, per lo meno.
Dopo tali manovre, un altro mese a Polìstena, in provincia di Reggio Calabria, paese del tutto differente da quello che ci si sarebbe aspettato, dopo quello che avevamo veduto.
All'improvviso, benché si aspettasse ciò da parecchio tempo, venne l'ordine d'imbarco da Messina. Un attimo di perplessità, ed eravamo già nel piroscafo "Conte Biancamano".




È il giorno 11 ottobre del 1939. Partenza da Polìstena alla sera precedente. Arrivo a Messina alle 10 dell'11. Imbarco alle ore 17. Il momento è magnifico. Quelle espressioni del popolo che assiste. Lacrime non trattenute di coloro che avevano fra i partenti marito o figlio o fratello, e finalmente il distacco dalla banchina tra un urlìo frenetico ed un rumore assordante di sirene ed un abbagliare magnifico di fari. Sul molo una infinità di persone che frammischiano gli addii agli inneggi al Re, al Duce e alla Patria con fragorosi alalà partenti da bordo. Si vede qualche soldato ed anche Ufficiali che, avendo certamente lasciato a terra qualche parente, che non sentiva nessun rumore, ma soltanto gli occhi un po’ arrossati, sventolare un fazzoletto bianco in direzione di un punto della folla. Messaggi grandiosi.

12\13 ottobre
Due giorni tra cielo e mare trascorsi magnificamente bene. Tutti i comodi concessi da questa nave di modernissima costruzione. Il Mare Mediterraneo calmissimo. Una vita pacifica, senza noie o pensieri: un Marconigramma a casa e si continua. Abbiamo con noi il Generale Badoglio, Maresciallo d'Italia, che si intrattiene con tutti con animo veramente fraterno. Questa nave contiene oltre quattromila uomini destinati in Eritrea, con scalo a Massaua. Si dice che noi si farà tappa appena giunti a Saganeiti, località a circa 100 km da Massaua.


14\15 ottobre
Alle ore 4 si giunge a Porto Said: spettacolo veramente magnifico: un'infinità di lumi che sembrano sorgere dall'acqua. Chi l'avrebbe detto un anno indietro di dover oggi fare una crociera simile! Eppure durante il corso della vita tante cose non si aspettano ed eppure avvengono lo stesso! Alle 6 la nave tutta contornata di barche, vaporetti e motoscafi, colmi di connazionali che con bandierine tricolori inviano il loro saluto ed i loro auguri ai servi della Patria. In questo momento il soldato stimolato così farebbe cose grandi. Lo spettacolo è veramente grandioso e commovente: tre giovanette in un motoscafo lanciano le loro grida entusiastiche e baci, in un altro due o tre famiglie riunite tutte adorne di nastri tricolori cantano, gridano, inneggiano di fronte al loro popolo inglese che assiste sulla banchina, perfettamente impassibile.
Alle 8 ci distacchiamo e si continua il nostro cammino: in questo momento entriamo nel Canale di Suez ed una macchina, con un gran bandierone in festa a tutta velocità ci raggiunge. Certamente qualche ritardatario connazionale che vuole porgere anche lui il suo saluto. Effettivamente è così: ci segue continuamente lungo la strada: contiene due uomini che portano un quadro del Duce ed una bandiera, e quattro donne che freneticamente si sporgono, in piedi sulla macchina, quasi per avvicinarsi ancor più alla nave. Portano un megafono e gettano grida inneggianti ed auguri. Spettacolo che nel corso della vita di una persona si vede una volta sola: spettacolo che riempie il cuore di una nostalgia calma ed eroica fra il deserto arabico e quello africano. Qualcuno dall'emozione versa qualche lacrima: tra questo qualcuno ci sono anche io che non riesco a trattenermi: verso lacrime che escono al pensiero di trovare alcune persone sparse nel mondo che hanno i medesimi nostri pensieri e che moralmente ci aiutano a compiere il nostro dovere. Hanno già fatto parecchi chilometri dietro di noi e non sanno più che dire: infine gridano i loro nomi attraverso il megafono: Maria Uva, Marchesa Scotto, Ines Scotto, Fedora Scotto. Porto Said. Piccolezze e puerilità grandiose! Infine si fermano, salutano e voltano per andarsene: dopo un minuto le rivediamo ancora: la volontà di lasciarci era meno forte di quella di seguirci; quattro volte, hanno fatto questo lavoro: anime veramente buone! Grandezza di cuore e passionalità del popolo italiano! Bellissimo! Proprio veramente grande.
Appena lasciata finalmente questa macchina , durante il percorso del canale, altre automobili giunte chissà da dove, piene di italiani, in una fantasmagoria di colori bianco, rosso e verde, raggiungono il numero di venti e seguono il percorso della nave. Uomini, donne, vecchie e bambini: tutti in un medesimo grido di gioia gettano dal cuore le loro spontanee espressioni di giubilo. Eppure come è bello vedere tra gente estranea, lontano chilometri e chilometri dal proprio paese, persone che sembra si siano sempre conosciute, benché probabilmente chissà di che paese italiano saranno state! Ci hanno seguito fino a notte. Appena scomparsi ci siamo sentiti così soli da farci tornare in mente un'infinità di ricordi tra quelle zone aride e deserte, dove ogni tanto si intravedeva un palmizio, magari quasi poetico ed una piccola carovana ferma sull'argine del canale.
Alle 23 siamo a Suez: città orientale intravista tra le luci della sera. A tale ora anche qua si ripete lo spettacolo del giorno: ma quanti italiani sparsi nel mondo!
Ogni tanto da una draga nell'oscurità sorge una voce gridando: Duce! Voce italiana che sembra abbia perduta la tonalità propria, abituata in terra inglese. Un vaporetto ci gira intorno come una falena e sembra voler precedere una parte di noi stessi! Come è grande il cuore italiano! Qualche vecchio lavoratore ci grida il nome della propria provincia, perché vuole essere onorato di gridare al vento la propria nazionalità.
Alle 24 si parte anche da Suez ed entriamo nel Mar Rosso, ed oggi 15 ottobre niente di nuovo, tolto qualche isolotto di materia calcarea sulla costa africana. Domani sera probabilmente o al più tardi giovedì mattina, nelle prime ore, saremo a Massaua.



16 ottobre
Il caldo si incomincia a sentire: il barometro segna 33 gradi per tutta la giornata. Nessuna novità a bordo.

17 ottobre
Alle prime ore del mattino si è in vista di Massaua. Il caldo è enorme. Alle ore 9 entriamo nel porto: un caos completamente; fuori scalo un'infinità di navi che attendono di essere scaricate: noi sbarchiamo verso sera perché il caldo del giorno è insopportabile. Massaua non è una città adatta per abitarvi: difatti gli abitanti sono pochissimi perché il clima non lo permette. Le strade sono ricoperte da un alto strato di polvere, dove si affoga. Il movimento stradale è grandioso data la quantità immensa di camions che circolano, specialmente nei giorni di arrivo di truppe. Il movimento fa sembrare Massaua una grande città, specialmente per tutto quello che di nuovo è stato fatto per l'occasione. Ma guardando bene si vede la meschinità del luogo: costruita completamente sulla sabbia, dà proprio l'idea del vero villaggio africano: lontano si delineano i monti che formano l'altopiano eritreo. Sembra proprio di vivere dentro una bolgia infernale. La sera alle 7 scendiamo da bordo e subito dopo saliamo sui camions per essere trasportati nell'interno. Una colonna di 20 di questi si muove alla volta di Shinda che si trova a circa 70 km all'altezza di 900 metri.
Lungo la strada un incidente d'auto ha reso inservibile un camion, per fortuna senza ferire gli uomini che stavano sopra e la colonna è continuata con 19 automezzi. La strada per un certo tratto è abbastanza buona, perché costruita di nuovo ed asfaltata, ma ad un certo punto sembra proprio di attraversare un deserto di sabbia con qualche arboscello qua e là.

18 ottobre
Alle 3 del mattino siamo a Ghinda, paesaggio veramente incantevole, che non sembra proprio di trovarsi in Africa tolto il caldo che si soffre durante il giorno e il freddo durante la notte. Il territorio sembra proprio quello che abbiamo trovato in Sila in Italia. Ci siamo attendati sopra un rialzo di terreno completamente allo scoperto, essendo la zona sprovvista di alberi. Proprio sopra la mia testa passa la ferrovia Massaua-Asmara, che non ha ragione di esistere, dato l'uso limitatissimo che se ne può fare. Durante il giorno un'infinità di negrotti coi capelli in croce vengono a vendere sigarette, caramelle e caffè: miseria enorme esiste fra la popolazione negra. Notizie riguardanti la nostra posizione di fronte agli Abissini di questi luoghi non se ne hanno, quindi non so proprio nulla: prendiamo il nostro destino come viene. La nostra mensa è in paese e viene fatta dai negri: tutto sta nel vincere la prima impressione perché tutto sembra che sia sporco. Con questa penuria di donne, c'è una negra che serve a tavola che farebbe venir voglia ad un eunuco. In giornata sono stato a visitare il villaggio indigeno: veramente caratteristico, ma una sporcizia che non se ne ha un'idea. Curiosi sono gli usi degli abitanti: roba del resto che si può leggere in qualsiasi libro di avventure africano; un ragazzo aveva un cerchio di latta intorno al braccio con altri gingilli attaccati e diceva che glielo aveva messo il padre per preservarlo dai morsi dei serpenti. I capelli vengono tagliati in croce non so ancora per qual motivo. Gli uomini sono gelosissimi delle proprie donne e coprono il loro viso quando va un forestiero a visitarli. Le capanne sono fatte di melma col tetto di paglia.


19 ottobre
Giornata di riposo. La sera alle ore 20 siamo partiti da Ghinda per Uefarit a piedi. Incominciano le marce faticose: 22 chilometri fatti di notte non danno tanto fastidio, ma la strada, benché asfaltata rovina la pianta dei piedi: nessun avvenimento interessante.

20 ottobre
Alle 4 siamo a Uefarit, paese identico all'altro. Tutte queste località sono uguali: hanno pochi abitanti, ma sono punti più che altro di riferimento, come del resto si sono trovati in Sila, tolto il villaggio indigeno. In questa zona siamo a 1900 metri e si incomincia a farsi sentire il freddo di notte, abbastanza discretamente, tanto che mi son dovuto mettere l'impermeabile. Quello che è brutto però che di giorno fa sempre un caldo tremendo per me che non ne sono abituato, che si aggira sempre sui 39 gradi; ma si vive alla meno peggio, con l'ausilio di un po’ di vento.
Credevo di trovare, almeno di notte, qualche animale, ed invece ancora non si vede nulla. Bella è la disciplina del nostro coloniale negro. Alle 23 partiamo alla volta di Radocorò: marcia di 30 chilometri.

21 ottobre
Alle 7 siamo a Radocorò: una marcia di 8 ore che la sentirò per parecchio tempo: mi sembrava di vedere un esercito di deportati in Siberia: ho veduto una scimmia appollaiata in cima ad un albero e niente altro. Ho mangiato il rancio dei soldati non avendo trovato nulla per fare la mensa. Durante il giorno nessun avvenimento degno di nota: soltanto è degno di nota il fatto che sono sprovvisto di lettino e teli da tenda, perché sono dietro col materiale e sto dormendo sotto dei teli imprestati dai soldati, sempre vestito, sulla nuda terra e per guanciale, qualche cosa d'occasione.

22 ottobre
Alle 3,30 si inizia la terza marcia per Decameré di 16 chilometri; questa volta l'abbiamo fatta bene, ma con un freddo terribile. Siamo a Decameré alle ore 8 in un'altitudine di 2090 metri. Qua anche di giorno si sta abbastanza bene, perché spira un forte vento che rinfresca l'aria: però c'è scarsità d'acqua e quella che si beve è cattivissima. Ho una pesantezza di testa che non so come riesca a scrivere: sarà forse data dall'aumento dell'altezza e quindi della pressione. Ho mangiato malissimo non trovandovi roba da mangiare. Domani ultima tappa a Gura, dove c'è il concentramento delle truppe e dove ci si riposerà finalmente qualche tempo. Qui a Decameré oggi ci sono circa trentamila uomini della Gran Sasso e Sila di tutte le armi in una estensione di territorio grandissima.
Porco diavolo! Sono le 18 e sto soffrendo un freddo fenomenale. Son venuto in Africa per soffrire il caldo ed invece mi fanno soffrire il freddo: è roba dell'altro mondo!
Proprio in questo momento son venuto a sapere da voci che circolano, che il Comandante del Reggimento ha ricevuto un fonogramma che spiega come il Negus abbia capitolato. Sarà vero? Vedremo più tardi. Mi dispiacerebbe perché allora che cosa son venuto a fare?

23 ottobre
La notizia sopra è errata, ma si è saputo d'altra parte che il Negus ha concesso l'Abissinia alla Società delle Nazioni, la quale a sua volta ne concederà il protettorato all'Italia e che il Negus verrà fra giorni per parlare appunto di questo fatto con S.E. De Bono. Ma s'intende che anche queste sono notizie sapute così, per via indiretta da voci che corrono e che probabilmente saranno errate anche queste. Questa mattina alle 4 si è iniziata l'ultima marcia per Mai Edagà e ci siamo arrivati dopo 12 chilometri in una località bellissima per posizione, aria ed acqua. Da questa altezza, oltre i 2.000 metri, si gode un panorama stupendo: data l'abbondanza eccezionale di acqua il terreno è fertilissimo e tutta la catena di monti che si estende allo sguardo offre una vista magnifica: un villaggio indigeno (quello di Mai Edagà) è a ridosso di una collina ed è veramente caratteristico. Per la temperatura si sta abbastanza bene, poiché c'è un vento quasi primaverile. Soltanto la notte dalle 6 della sera alle 6 della mattina cambia la temperatura e si sente un freddo abbastanza pungente. Ieri notte, prima che si arrivasse noi in questa località, pochi uomini che già erano sul luogo, hanno inteso gridare iene e sciacalli, e qualcuno di questi animali avvicinarsi alle tende ed alle cucine.

24\26 ottobre
Siamo in completo riposo e questa sosta vivifica le forze che erano incominciate a mancare lungo le marce. Dalla prima notte che son qui, fino ad oggi non ho inteso nulla in fatto di animali, forse perché o ho il sonno pesante oppure perché la gran quantità di uomini e quadrupedi impediscono a tali animali di avvicinarsi, poiché per loro natura sono paurosissimi, ma molto feroci quando vengono feriti. Però a sentire il negro residente qua sembra che sia una zona effettivamente piena di queste bestie. Come benvenuto però la prima notte si è infiltrata sotto la mia tenda una vipera, che è stata trovata la mattina successiva sotto il mio letto a terra. Fortuna quindi che avevo il letto, altrimenti se dormivo ancora a terra quasi certamente mi avrebbe morso e chissà come sarebbe andata a finire! a me questo rettile fa molta impressione perché difficilmente ci si può difendere. Un suo morso, se non si è pronti alle cure del caso, quali sarebbero una pronta fasciatura strettissima della parte ed una iniezione di siero antivipera, fa passare all'altro mondo una persona appena trascorso il periodo di tre ore. Speriamo bene! Mi vengono i brividi solo a pensarci. un animale contro il quale si possa usare pistola, forza, baionetta, va bene, che uno si può difendere: alla peggiore delle ipotesi può ferire, ma non avvelenare e d'altronde può avere la peggio la bestia stessa, che con un colpo di pistola ben diretto può colpire una parte vitale. Però anche da questo canto, tanto la jena che lo sciacallo, per esempio, anche se colpiti in una parte vitalissima, quale sarebbe il cuore od il cervello, vivono ancora tanto quanto basta per sbranare la persona che le ferisce. Morale della storia: è meglio non avere a che fare con bestie di simile fatta, né con altre.
In questi giorni non c'è niente di nuovo. Ho ricevuto l'altro ieri una lettera da casa spedita il giorno 9 ed arrivata a Polìstena. Non ho avuto altre notizie e le attendo con ansia, perché con questa distanza a cui sono, vedere ogni tanto lettere famigliari, leggere parole carissime, avere presente almeno col pensiero la propria famiglia, fa un piacere inusitato e solleva morale ed incoraggia in un modo da non dirsi.
Per quello che si sa il giorno 1 novembre si partirà ancora da qua per raggiungere Senafè, quasi sulla frontiera.

27\31 ottobre
In questi giorni poco di nuovo. Tutte le notizie che correvano in relazione al conflitto per una resa o capitolato sono errate e le azioni sono incominciate di nuovo. A quanto sembra nella notte dal 27 al 28 è stato preso il Forte di Macallè. Noi si accelera il movimento e presto saremo in linea. Questi giorni ho avuto poco da fare: soltanto un servizio di trasporto materiale da Ghinda a qua. Lungo il percorso ho sempre trovato grandi branchi di scimmie che forse emigravano per non trovarsi in compagnia di uomini. L'altro ieri sono stato all'Asmara e certamente non mi capiterà più di vedere una città come quella: non che fosse bella né brutta, ma aveva proprio quel carattere di orientale proverbiale in special modo nel quartiere indigeno: indigeno si chiama poi non so perché, poiché è composto in più gran parte da indiani, greci ed altri che tengono un commercio attivissimo, ma molto caro, in special modo per il fatto che sono in massima parte ebrei, e come tali abituati a rialzare il prezzo delle merci in una maniera fantastica.
La città incomincia ad europeizzarsi ora con la costruzione di strade asfaltate ed edifici europei. Costumi che è magnifico vederli: di tutte le fogge e di tutte le qualità. Ho fatto alcuni acquisti, ma ho speso molto ed ho comperato poco. Però il fatto di essere serviti a pranzo da negri, fa una certa impressione, ma sono sicuro che con un po’ di tempo si acquista tale abitudine.
Domani, come ho detto, andremo a Senafè (80 km da Mai Edagà), in quattro tappe ed in cinque giorni, passando attraverso località di cui io non ricordo i nomi e non mi interessano, poiché io questa volta per fortuna vado avanti in camion direttamente a Senafè, con il materiale che le batterie non si possono portare al seguito.

1\2 novembre
Dovevo partire ieri sera da Mai Edagà per Senafè, ma ancora non sono arrivati i camion e quindi mi trovo qui con pochi uomini, isolato da tutti, poiché questa notte sono partiti gli ultimi resti della divisione. Una noia che non so proprio cosa fare: vorrei andare a caccia, ma la noia stessa mi toglie la voglia di fare qualsiasi cosa. Questa notte appena partiti gli ultimi uomini, ho inteso un gran concerto di jene, distanti molto poco dalla mia tenda: forse erano andate dove stavano le cucine a rosicchiare gli avanzi, oppure avranno disossata qualche carogna di mulo morto. Certo è un concerto che non piace, perché fa venire l'umor cattivo.
Di giorno ci sono delle mosche che mangiano letteralmente: mi trovo in questo momento sotto la tenda e non posso dormire appunto per questo fatto: sono abituate a posarsi in qualsiasi parte del corpo di questi negri, senza che essi le scaccino, e credono quindi che il bianco sia lo stesso; ma si sono sbagliate; ne sto facendo una carneficina: ma proprio che io dovevo venire in Africa per ammazzare le mosche? Questo poi no. Aspetto in seguito: forse c'è qualche cosa di più importante; da quello che ho inteso, il forte Macallè non è stato ancora occupato e sembra che sia una cosa un po’ più difficile delle altre. Dicono che la zona di Macallè contenga dai 70.000 ai 400.000 uomini ed i nostri stanno facendo un accerchiamento di tutta la zona. Questo di Macallè, se riesce bene, sarebbe un buon colpo per l'Italia. Ma si dice che detta zona sia minata e prima di azzardarsi sopra devono provarla, forse mandandoci degli animali. Sarebbe bello trovare dentro al forte qualche bianco che ci vuol male! C'è da aspettarselo! Chissà che anche la nostra divisione non ne prenda parte come rincalzo! Per oggi non ho più voglia di scrivere, perché sto in una posizione proprio orientale e scomodissima: sotto la tenda, disteso su un fianco sopra il letto, scrivo in una latta di benzina vuota, che mi sta facendo un rumore proprio piacevole! Non so proprio che fare: ho una noia che non ne posso più. Incomincia a fare freddo ed è bene che mi vesta: a proposito, oggi prima di mangiare sono stato a fare due passi al fiume ed ho trovato qualche negra che stava lavando i panni: ma che modi barbari di lavare! Prendono un po’ di sterco di zebù e lo accendono con due pezzi di legno strofinati insieme e sopra a questo calore fanno riscaldare dell'acqua e sapone che gettano sopra la biancheria sporca. Ma che biancheria! Io la chiamerei grigeria! Poi lavano con i piedi come se pestassero l'uva, ma non diventa mai bianca la loro zimarra! Ad una di esse, più interessante delle altre dissi di spogliarsi per farle una fotografia, ma non volle dicendo che aveva vergogna; vergogna, forse di far vedere quel petto che arriva fino alle ginocchia! Ma ho fatto una fotografia ad un gruppetto di loro che non voleva assolutamente. Ma caratteristico quel bambino che portano sulla schiena, tutto ricoperto di mosche. Domani voglio andare, se sto ancora qui, al villaggio indigeno a prendere qualche fotografia.

3 novembre
Sono ancora a Mai Edagà e non avendo da fare nulla sono andato a vedere il villaggio indigeno di qua, poco distante di qua. Al primo vedere sembra che non vi siano casa né persone, poi invece entrando si vedono delle specie di capanne con pareti talvolta di mattoni, ma la maggior parte con tronchi d'albero e siepi, uniti insieme da sterco di zebù e capra, che fa l'effetto della calcina, manipolate in un modo loro speciale. Sono capanne che sorgono in iscala su una falda di una collina. Quindi la parete che si trova dietro la capanna è il monte medesimo tagliato verticale. Ma è una cosa da inorridire vedere quelle catapecchie (tukul) in cui vive una famiglia ed insieme tutti i loro mobili formati di terra e tronchi e bestiame e tutto insomma quello che può occorrere ad una tale famiglia che vive di tè, caffè, latte, uova, dura, e talvolta come delle proprie bestie, che uccidono una volta tanto in unione a più famiglie. Appena un italiano entra dentro un villaggio, un'infinità di bambini corrono incontro e gridano: "Arcù, ova?", ("Amico, uova?"). Mi sono presentato dal capo (cicca) che ha una capanna come tutti gli altri, ma è quello che sa meglio l'italiano e che può sembrare più intelligente. Appena veduto, mi si è profferito in gentilezze, mi ha fatto sedere sulla soglia della propria abitazione e mi ha offerto una tazza di tè, come è loro uso. Io ho dovuto far buon viso a cattiva sorte, perché oltre a non essere il mio forte il tè, veduto offrire in una tazzina lavata con acqua calda piuttosto sporca, non mi voleva andar giù e ne ho dovute prendere per forza due tazzine, altrimenti se non si accetta il cicca si offende, perché vuole che gli si dica che la sua roba è buona. Va bene! Come vassoio un piatto che una volta era smaltato a fiori, e posato in terra, come unico tavolo. Quel benedetto tè è tutt'oggi che mi va su e giù. D'altronde bisogna sopportare tutto. A un certo momento sono venute altre persone che si son messe a confabulare in amarico con costui; dopo ho saputo che in quel momento si era tenuta una seduta in tribunale civile. Gli ho offerto una sigaretta, ma non l'ha accettata dicendo che altrimenti il prete gli avrebbe dato tre mesi di quaresima. Alla mia domanda se erano tutti cristiani, mi ha risposto calorosamente che tutti erano cristiani e assolutamente nessuno mussulmano, tanto è vero che tutti portano una croce azzurognola incisa nella fronte. Sono gelosissimi delle loro donne e non vuole che si faccia loro fotografie; quindi io sono stato costretto farne una in compagnia di quelle presenti. Essi bevono quotidianamente birra, che fanno uscire dall'orzo, grano, dura e granturco. Fortuna che non me ne hanno offerta. Il loro paese è fatto appunto di dura, che è una specie di orzo e lo chiamano nghiera, mentre quello che mangiano gli ascari che si confezionano da soli in un attimo subito prima di mangiarlo, è il famoso burgutta.
Qua è assolutamente impossibile avere soldi spiccioli, perché quelli che si aveva si sono spesi in Eritrea, come a maggior ragione in territorio etiopico, non vogliono assolutamente la moneta cartacea, quindi si è ridotti al punto di avere soldi in tasca e non sapere come spendere e talvolta può capitare e capiterà certamente che con viveri che si possono comperare non sarà possibile averne per mancanza di spiccioli. Vedremo in seguito, come si fare.
Ora, mentre sto in tenda, tre negrotti son venuti e alla meno peggio mi son fatto insegnare alcune principali parole del dialetto amarico per poter parlare meglio che sia possibile con questa gente.
A quel che si dice domani Macallè dovrebbe essere presa e noi andremo avanti fino a scavalcare la Sabaudia e la Gavinana per dar loro riposo.


4\18 novembre
Niente di nuovo si è verificato in questi giorni: incomincia a stancarmi questa vita; leggo qualche libro, se ne trovo. Il solito concerto alla notte come diversivo. Non piove da molto tempo, ma non ci si augura la stagione delle piogge, perché dicono che sia terribile. Mi sono accorto che mi sta crescendo la pancia: lo credo, perché non faccio neppure un po’ di moto!

19 novembre
Sono stato invitato dal prete di Svan Seran, un villaggio indigeno a due chilometri di qua ed ho passato una bella mattinata. Per questa gente è un grande onore ospitare qualcuno di noi. Mi ha accolto dentro la sua capanna: madonna che abitazione! Da un lato l'arnia delle api e un'infinità di cianfrusaglie; in un'altra parte dei grandi orci di terra per le provviste di grano e dura; in un angolo il posto per dormire, formato dalla nuda terra, senza pagliericci e senza coperte: così si gettano a terra la sera e dormono. Infine la parte che rimane vuota di quella stamberga è occupata dalle bestie che possiedono: zebù, capre e galline. Un cattivo odore da non resistere, specialmente se accendono per allontanare le api dagli ospiti quelle forme di sterco e melma disseccate. Ho dovuto far buon viso a cattiva sorte e trangugiare tutto quello che mi hanno dato: prima un pezzo di miele naturale, con le celle di cera comprese ed esigeva che le mangiassi: il miele va bene, ma la cera, poi! Mi sembra un po’ troppo; e quindi dopo aver masticato un po’ di quella roba dovevo gettare la cera che mi restava fra i denti. Poi in un bicchiere avuto chissà come, mi ha versato dell'ìdromele, bevanda composta di miele allungato. Dopo questo alcune tazzine di caffè e infine due bicchieri di latte caldo. Ho trangugiato di mala voglia tutta questa roba, che dentro lo stomaco stava un momento ferma e credevo che fosse finita, quando mi dice di incominciare da capo. Questo poi! Si intende che ho rinunziato con tutte le mie forze: mica voglio crepare per lui! Finito, diciamo così, questo trattamento, ha radunato i capi del paese ed ho fatto loro la fotografia: che felicità per loro! Si sono vestiti a festa e si sono messi avanti la macchina e sembrava che la volessero spaccare: facevano la figura di tante mummie. Per le donne non è lo stesso: si riesce a mala pena a prender loro la fotografia. Hanno una immensa paura e vergogna. Appena vedono una macchina fotografica scappano via gridando: uh! uh! bordogna! bordogna! Al diavolo loro e la bordogna! Finalmente me ne son tornato con uno stomaco pieno di porcherie che mi ha tolto l'appetito. Eppure non capisco come al giorno d'oggi si debba essere tanto indietro in fatto di civiltà!

20\22 novembre
Oggi mentre facevo il bagno nel torrente qui vicino, mi si presenta un ascaro con una lettera: dovevo presentarmi subito al Comando di Presidio di Mai Edagà. Mi vesto e in tutta fretta vado. Trovo un telegramma del Comandante di Reggimento dove mi dice di raggiungere immediatamente il Gruppo. Chissà perché! Mi viene di pensare a qualsiasi cosa. Vedremo.

23 novembre
Faccio la mia tenda e con sacco letto e cassetta ed attendente, mi accingo a trovare qualche mezzo di fortuna per raggiungere Uogorò, dove sembra ha sede il Gruppo. Finalmente verso le 11 con l'aiuto del carabiniere di servizio riesco a prendere un camion di una ditta privata che va fino a Senafè. Alle 6, dopo mille sobbalzi in quella strada arrivo a Senafè tutto scombussolato e mi fermo al Comando di Tappa. Qui esiste il materiale spedito di volta in volta da Mai Gurà e trovo alcuni uomini che mi danno da dormire dentro il magazzino dei materiali.
Per mangiare a pranzo mi sono arrangiato con una scatoletta di carne in conserva, ma a cena vado alla mensa del Comando di Tappa, per gli ufficiali di passaggio.

24 novembre
Son fortunato perché di qua parte una colonna di autocarri carichi di materiale e munizioni che va a Uogorò. Arrivo ad Adigrat verso le 11 e mi fermo con la colonna a mangiare qualche cosa: ho ancora una scatoletta di marmellata e mi sazio con quella. Si riparte quasi subito e sono costretto a fermarmi in un posto qualsiasi perché è notte e le macchine non possono più transitare. Faccio costruire la mia tenda in mezzo all'erba e per mangiare mi faccio invitare alla mensa di un battaglione di fanteria che si trova poco distante. In questo momento penso che viso farebbe chi mi vedesse in quelle condizioni, impolverato fino ai capelli, sudicio da far pietà, senza un po’ d'acqua per darmi una mezza lavata, quasi sperduto in mezzo ad un territorio che non faceva promettere nulla di buono, perché, benché conquistato, i negri che lo occupano ieri erano abissini e sono tuttora armati e vagano in mezzo a queste montagne. Sono solo con un autista su un lato della strada e speriamo di poter dormire. è capitato proprio in questi paraggi che un autista borghese si sia fermato con la macchina e si sia addormentato sul volante e che alcuni negri lo abbiano seviziato. Speriamo di dormire tranquillo!

25 novembre
Di buon'ora mi alzo senza aver avuto incidenti di sorta e attendo le altre macchine che erano restate indietro sorprese dalla notte. Di giorno che pauroso effetto questa zona! Al pensiero di aver fatto di notte quella strada che vedo dietro di me, mi viene i brividi solo a pensarci: un zig-zag che scende dalla cima di una montagna, da dove non si vede il fondo del precipizio e la strada ad un solo senso, larga appena il tanto per il passaggio di una macchina, tutta piena di buche immense e sassi, che ognuno dei quali fa fare un salto di un metro. Ma fin qui ci sono e devo andare avanti. Verso le 7 si vedono le altre macchine e proseguo fino a Uogorò dove arrivo verso le 9. Ma non trovo più il reggimento, che mi dicono è partito l'altro ieri alla volta di Macallè. Porco diavolo, devo fare ancora circa sessanta chilometri con queste strade antidiluviane! Però che panorami! Rocce immense che si ergono a picco ad un'altezza immensa, che sembra di vederle cadere da un momento all'altro e subito in basso delle pianure estesissime. Qua bisogna scaricare gli autocarri e caricare tutto sulle autocarrette, perché la strada che ci sarà non è praticabile: figuriamoci cosa sarà, se è peggio di quella fatta. Esiste qui l'autocentro della Divisione, che mette a disposizione delle autocarrette. Bisogna però andare via domani, perché, altrimenti bisogna pernottare in mezzo alla strada e non è consigliabile. Mangio alla mensa ufficiali dell'autocentro e faccio mettere il mio lettino dentro un autocarro e passo una buona nottata, ma ancora sono sempre lurido e non riesco a darmi una lavata.

26 novembre
Alle 7 mi metto in autocarretta e vado alla volta di Macallè. Che disastro la strada! Ed hanno il coraggio di dire che le strade sono già fatte. Ogni tanto il pericolo di ribaltare. Bisogna tenersi forte alle maniglie dell'autocarretta per non essere sbalzato via dal sedile. Questo tormento dura fino alle 2 del pomeriggio, quando finalmente sono a Macallè. Quattro giorni di viaggio e 290 chilometri in camion. Il mio stato fisico è indescrivibile. Appena i colleghi mi vedono si mettono a ridere credendo che venissi dall'altro mondo. Macallè è una località bellissima. Qui in alto si erge il forte, che però ha poco di disuguale da tutti gli altri già veduti ed in basso a circa 200 metri c'è il paese di Macallè, che è molto caratteristico: alla periferia si erge una villa, sede di un capo abissino, di cui non ricordo il nome e che si è sottomesso alla presa di Macallè ed il resto è composto di tante abitazioni in calce che si confondono stranamente col terreno, ma sempre le medesime caratteristiche delle abitazioni indigene.
Sono stato chiamato telegraficamente qua per dare notizie del materiale e per avere il mio stipendio. Valeva proprio la pena di farmi fare 290 chilometri con quelle strade.

27 novembre
Mi fermo tutt'oggi qui e mi riposo e domani devo ritornare indietro per fissare la mia sede a Senafè. Prendo alcune fotografie dei luoghi e mi do finalmente una pulita generale, che ne avevo proprio bisogno. In questa zona tira un vento da non dirsi: non so come facciano le tende a resistere a tale impeto.
Qua in prima linea non si trova assolutamente nulla: quel poco di indispensabile che portano dalle retrovie costa un occhio: per dare solo un esempio, una scatola di svedesi bisogna pagarla una lira.

28 novembre
Riparto da Macallè alle 7 e la strada già fatta a tappe forzate arrivo ad Adigrat la sera alle 8 senza quasi toccare cibo in tutto il giorno: avevo i resti di una scatola di marmellata e ho mangiato quella durante la giornata, senza pane, perché non ne avevo e non ne ho trovato. Ho cambiato in tutto il giorno tre volte il mezzo di locomozione per le esigenze dei mezzi stessi che trovavo.
Cerco il Comando di Tappa e mangio con una fame da lupi alla mensa di Presidio e dormo sotto la tenda per gli Ufficiali di passaggio.

29 novembre
Riparto alle 9.

8 febbraio
Senafè - Oggi un telegramma del Comandante di Reggimento, mi richiama urgentemente al Gruppo, con tutti i soldati, forse per prendere parte all'azione sul... che si dovrà svolgere in questi giorni. Partirò domani mattina e intanto bisogna che metta a posto tutte le mie cose.

9 febbraio
Con mezzi di fortuna mi muovo da Senafè e giungo a sera fino a..., dove pernotto.

10 febbraio
Proseguo e giungo a Passo... alle ore 19, dove dovrebbe trovarsi il Comando di reggimento, ma nessuno sa dirmi nulla e allora con un autocarro giro tutta la zona in cerca di questo benedetto Reggimento che nessuno sa dove sia. Finalmente alla sera alle 20 in piena oscurità, senza fanali, riesco a trovare il Comando Base della Divisione a...

11 febbraio
Raggiungo il mio Gruppo e trovo il nuovo Comandante che mi sembra una brava persona. Sono arrivato giusto in tempo. Questa notte ci sarà uno spostamento e il Gruppo deve prendere parte all'azione sull'Amba Aradam, che scorgiamo da qui, ma che sembra molto lontano e dicono che si troverà una forte resistenza, perché il monte è messo in tal modo da avere verso di noi tutta la parete completamente a picco.


12 febbraio
Questa notte ci siamo spostati e dopo qualche chilometro di marcia prendiamo posizione in un posto di cui non ricordo il nome, perché questi son tanto difficili e di passaggio, che non ci si riesce a ricordarli. Si sparano i primi colpi verso l'Amba Aradam. L'azione va bene. Il nemico si ritira di qualche chilometro e noi facciamo un altro sbalzo in avanti e ci appostiamo in una vallata. Un paesetto è preso di mira e completamente devastato. Incomincia un'azione di fuoco tremenda. Coadiuvati da altre artiglierie c'è un concentramento fantastico. Ogni tanto si vede qualche gruppetto in fondo che scappa con ali ai piedi. Ad un tratto, mentre sto mangiando qualche cosa, ad appena 40 metri da me e più lontano dalle batterie si sentono tre scoppi tremendi. Un nostro aereo ha gettato tre bombe sopra le nostre truppe. Erroneamente l'osservatore aveva preso una vallata per l'altra. Dette bombe prendono in pieno una compagnia di sanità giunta allora ed ammucchiata. Il disastro ha fatto 36 morti e 81 feriti. Un'impressione che è difficilissimo descrivere. La gran massa di uomini e quadrupedi mi ha salvato, perché altrimenti ad appena quaranta metri di distanza ci sarei restato anche io. Figuriamoci, bombe che hanno effetto per almeno 100 metri di raggio. L'impressione è di quelle che si sentono una volta sola . Teste, braccia, gambe, parti del corpo sbranate e lanciate a distanza. Corpi irriconoscibili, muli completamente sfracellati. Sono stato male tutta la giornata alla vista di tale spettacolo. Gente che corre gridando come pazzi, fino a che non si fa un po’ di calma ed accorrono le autoambulanze per il trasporto dei morti e dei feriti. Mi è sembrato ad un certo momento che l'azione avesse da svolgersi a nostro svantaggio, visto il morale degli uomini abbassarsi così tempestivamente. Ma per fortuna la fermezza dei comandanti ha fatto si di rimettere la calma e di continuare ciascuno il proprio compito.
Per questa volta l'ho scampata bella, ma certo che la mia entrata in guerra non è stata priva di emozioni.
Verso le 17 facciamo ancora uno sbalzo di qualche chilometro, questa volta faticosissimo, fino in cima ad un monte di 2.800 metri. Questa presa di posizione è stata una cosa che certamente l'uguale non capiterà più. Arrivati che era notte, senza luna, in un posto tutto precipizi, dove poco prima stavano gli abissini: cose tutte che facevano una grande impressione. Non si potevano accendere lumi. Pensare a mettere a posto muli, uomini e materiale senza avere un luogo fissato, con persone e muli che venivano a battere contro. Ad un certo momento, perché sembrava che non bastasse, il Padre Eterno butta giù tutto quello che poteva: tuoni, lampi ed acqua di cui l'eguale non avevo mai visto. Allora tutti a precipitarsi a far tende. Ma era un'idea. Con quel vento che tirava era proprio una cosa chimerica far la tenda. Ma finalmente, dopo che ci siamo bagnati come pulcini, siamo riusciti a mettere quasi in piedi quattro teli e ci siamo messi sotto in due, ma figuriamoci il freddo. Dormire con la fanteria accanto che sparava a più non posso, senza la sicurezza di poter riposarsi un po’, con la sorpresa di vederci addosso da un momento all'altro qualche orda abissina. Ma spero che questa giornata così ricca di avvenimenti passi presto e il giorno si facci vedere.

13 febbraio
Oggi riposo relativo in quella posizione.

14\15 febbraio
All'alba il Gruppo si sposta in avanti sulla destra dell'Amba Aradam. In tutta la giornata con piccoli sbalzi e per tutto il giorno seguente, senza cibo ci si sposta di parecchi chilometri. La grande battaglia dell'Amba Aradam è nel suo pieno nel giorno 14. Un bombardamento fantastico di due Corpi d'Armata sull'Amba Aradam e dintorni dura dalla mattina fino a sera. A notte i nostri erano sul territorio bombardato il giorno stesso. Gli Abissini si sono dati ad una fuga disperata lasciando sul terreno un'infinità di morti, 6 camion, mitragliatrici, armi e munizioni. Si sono trovati sul terreno anche 2 bianchi, dei quali uno morto e l'altro ferito. Dicono che siano giornalisti polacchi. Quello ferito si trovava in istato di ubriachezza. La loro preparazione sull'Amba era fortissima e molte cose hanno dimostrato che c'era l'intervento di ufficiali bianchi, tanto è vero che si è trovata una borsa di cuoio con dentro viveri ed equipaggiamenti europei. Gli Abissini erano nascosti in caverne con piccoli accessi scarsamente visibili dall'esterno, di modo che essi potevano sparare benissimo dall'interno a ragion veduta, senza che i nostri potessero vederli sia di fronte che dall'alto ed era una posizione effettivamente inespugnabile, anche se avesse contenuto 100 armati, mentre in effetti erano 20.000. La loro fuga è stata precipitosa, lasciando, come ho detto molta della loro roba sul terreno, tutto per effetto della nostra artiglieria, che ha fatto letteralmente un fuoco d'inferno da darci l'idea di un crivellamento della roccia stessa. Sul terreno ho vedute molte custodie di pallottole belghe, francesi e inglesi di modello 1939. Come ricordo ho con me una caratteristica borraccia fatta con un corno di bue rivestito di pelle. Del luogo ho preso interessanti fotografie. Morale: la fuga degli abissini è stata data dal terrore avuto dalla gran massa di fuoco e la scarsità di viveri. La notte tuttavia qualche colpo di mitragliatrice viene sempre tirato, perché qualche sbandato si trova continuamente, magari ancora intanato in un ricovero. Parecchi sono i sottomessi che vengono verso di noi. Dal nostro osservatorio si nota un paese che ha issato bandiera bianca. Un ferito raccolto da noi e curato da noi, mentre il medico si avvicinava con le forbici per tagliarli la benda, si è subito riparato con una mano gli organi genitali per la paura di averli tagliati. E pensare che questa gente si meriterebbero il medesimo trattamento che essi fanno ai morti. Ma credo che qualche camicia nera abbia reso zuppa per pan bagnato.

16\17\18\19 febbraio
Riposo della truppa e ricognizione della zona. Oggi è arrivato il bollettino e racconta le cose come effettivamente ...... In più sento che il giorno della presa dell'Amba Aradam in Italia sono state issate le bandiere in segno di gioia. Questa è una cosa che ci riempie di contentezza e di commozione al pensiero che siamo sempre ricordati dai nostri cari.
Domani all'alba ci spostiamo di nuovo per la presa dell'Amba Alagi e faremo uno sbalzo di 12 chilometri.

20 febbraio
Il Gruppo si sposta alle ore 6 e si dirige verso Enda Debra Ailà, dove prende posizione. Nulla di notevole da segnalare in tutta la giornata.

21 febbraio
Ancora nella medesima località, ma ci spostiamo di qualche chilometro in cima a un cocuzzolo. Sembra che l'Amba Alagi sia libero e che gli Abissini si siano ritirati ancora più in là. Perciò non essendo il nostro obiettivo ....... molto probabilmente ritorneremo a Doghià per dirigersi con automezzi al lago Tana. Questo almeno sembra per ora l'altro nostro obiettivo.

22\25 febbraio
Sempre nella medesima posizione senza sapere quello che si farà in seguito. Ma si è avuta notizia che l'Amba Alagi è stato occupato dagli Abissini e che li abbiamo davanti ad appena due ore di marcia. Perciò tutto forse cambia. La nostra mira sarà certamente di nuovo l'Amba Alagi, ma tutta la divisione Sila ora è smembrata in tanti diversi punti e non si sa quindi quando si riprenderà l'azione. Questa volta però è salutare per tutti, dopo il lavoro sfibrante fatto nei giorni passati...