giovedì 22 marzo 2012

GIAPPONE – JAPAN GOES GREEN


Basta con le centrali nucleari. Nel fantastico Giappone è cresciuta una nuova tribù.
Il loro sogno: tornare alla natura.

I giapponesi vengono da Marte, e come tali sono interessantissimi. Anche dopo quindici vite vissute in Giappone difficilmente potrò comprendere a fondo le loro mille stranezze. Barbieri e parrucchieri con il menù per indicare il tariffario dei servizi, comunisti (pochini) dalle idee confuse che fanno il gesto a pugno chiuso con il braccio destro, il prefisso di rispettoo- (specie di ‘Signore’) al vile kane, lo sporco denaro. La pioniera che mi fece capire come noi e loro provenissimo da pianeti differenti la incontrai un giorno a Marina di Ravenna, quando un amico monomaniacale per le fidanzate giapponesi arrivò in spiaggia con l’ultima della serie. Servita la pizza al tavolo, anziché tagliarla a triangoli come gli altri esseri viventi, la fanciulla vi incise spirali da compasso, partendo dal centro.















Da quel giorno ho continuato l’investigazione privata antropologica, in particolare a un tavolo del Juice Ja Café di Ubud, a Bali. Il caffè-ristorante, oltre a scodellare ottimi piatti a prezzi da backpacker e a fungere da punto d’incontro per gli habitué del paese, si affaccia sul negozio di saponi Kou. Negozietto di dimensioni lillipuziane e di proprietà giapponese, ma dal fatturato serissimo. Ogni giorno, guida aperta sotto il naso, vi arrivano in pellegrinaggio decine, se non centinaia, di clienti giapponesi. Hanno vacanze striminzite, ma se sono a Ubud non possono mancare il negozietto e farvi incetta di saponi. Perché lo dice la guida. Noi italiani, se non troviamo ciò che cerchiamo tutto e subito, possibilmente sotto casa, passiamo ad altro. I giapponesi seguono le guide - così come i navigatori satellitari - ciecamente, manco fossero bibbie detentrici della Verità, anche se per raggiungere la meta devono perdersi in un labirinto. Se hai un’attività commerciale e sei su una guida giapponese hai la pensione assicurata, se non ci sei sono guai. Kou non mi stanca mai, soprattutto perché non riesco a capire per quale motivo ogni giorno coppiette, ragazze da sole o con amiche, preso un aereo da una nazione a qualche ora di distanza debbano arrivare in processione fin qui, seguendo pedissequamente una guida con l’indice puntato sulla pagina, fino a trovare il tesoro profumato. Un negozietto grande come uno sgabuzzino ma, a calcolo veloce, dal fatturato pari a quello del resto di Ubud e dei circa diecimila umani che la abitano. Mi faccio in media tre docce al giorno, ma da qui a fare del sapone - lo stesso sapone che potrei trovare a casa - un motivo di viaggio ce ne vuole. Sarebbe come se noi, con tre giorni di ferie a disposizione, dedicassimo una preziosissima ora a cercare pummarola verace italiana nel Mali o ad Andorra.



Il mistero di Kou, però, è svelato, se si indaga un po’. I suoi saponi, come molto altro a Ubud, sono realizzati con ingredienti organici. Organico biologico, termini terribilmente di moda, di cui si sta abusando. Ma che per la nuova generazione green giapponese sono sacre. Non occorreva Fukushima per dare il la a questa grande tribù trasversale, che di porcherie chimiche non ne può più. Fukushima ha dato il colpo di grazia, è stato il giro di boa - speriamo di non ritorno - dall’artificiale al naturale. I maniaci delle etichette potrebbero chiamare questa generazione ‘impatto zero’: sul pianeta, sulla natura, sulle risorse non illimitate. I giapponesi hanno un’attrazione fatale per il dettaglio, e Madre Natura è ricca di dettagli.



Forse il Giappone è il Paese al mondo con il maggior numero di caffè. Una specie di grande Parigi dei bistrot che fu. Ce ne devono essere tanti quanti i bar in cui sbronzarsi orrendamente dopo l’ufficio. I primi, i caffè, per le donne, i bar per gli uomini, come in una specie di separazione consensuale del gusto e del ritmo della vita. Nei bar si tenta di dimenticare la propria esistenza, nei caffè la si riequilibra, ridandole il giusto ritmo, sorseggiando lentamente liquami non sempre eccellenti, a non meno di 300 yen (circa tre euro), in controcorrente al concetto di espresso. In Giappone il caffè - ambiente, bevanda - serve per rilassarsi, anziché a darci una piccola carica di energia con cui ripartire per le crociate quotidiane (lavoro, traffico, routine). Caffè spesso a imitazione dell’Europa, come la catena Caffè Veloce, che di rapido non ha proprio nulla, se non il servizio (sempre rapido, in ogni settore, in Giappone) e il nome.







È molto variegata, la tribù green nipponica, e non solo al femminile. In primis i neo-hippie, di solito tirati a lucido nelle loro uniformi indiane o guatemalteche, provenienti da Goa o da Panajacel. Colori coordinati, pulizia da bancario medio, look studiatissimo nel minimo dettaglio, nulla lasciato al caso - come tutto, in Giappone. I nostri neo-hippie, in genere, fanno dell’ascella non lavata una bandiera, quelli giapponesi (i più) sembrano appena usciti dalla tintoria. Alternativo non significa necessariamente zozzo, dalle parti del Sol Levante lo sanno benissimo. E poi, oltre ai nuovi hippie che hanno perso il treno degli anni Sessanta, c’è una folla eterogenea, meno appariscente, senza grossi bisogni di riflettori puntati addosso, ma che sta scegliendo sempre più una vita cosciente dei limiti e dei benefici della natura.










Coppie con bambini nati da poco che usano materiali organici - cotone primo fra tutti - per gli abiti, per i giocattoli, che cercano sistemi alternativi al pannolino (sia per il bebè, sia per gli assorbenti femminili) di materiale plastico usa-e-getta. Magari tornando alle vecchie ricette della nonna, quando la sporcizia veniva bollita e lavata via, permettendo di riutilizzare i tessuti senza impestare il mondo di immondizie (e, by the way, risparmiando). Oppure insegnando subito, ai loro bebè, ad acquisire abitudini ecologicamente corrette. Durante l’ultimo viaggio in Giappone ho conosciuto una madre che, oltre ad aver composto una specie di poema sul vasino da notte (le sue capacità quasi taumaturgiche, versus l’eticamente scorretto pannolino), stava insegnando alla figlioletta a usarlo sempre, tutto il giorno, boicottando il nemico industriale. Non sono entrato in dettagli (Cos’è, girate tutto il giorno con il vasino a portata di mano?), anche perché in Giappone la troppa curiosità non è vista benissimo. Fa molto italiano.









Nulla di meglio e di più simbolico della bella Okinawa, quale campione di Jap-green-freak-chic. A distanza di sicurezza da Fukushima (oltre 1700 km), da sempre con una delle diete più salutari al mondo - i suoi vecchietti sono tra i più longevi del pianeta -, oggi meta di moltissimi rifugiati in fuga dalle zone disastrate dallo tsunami, dalle bugie e dai silenzi del governo circa il reale livello di contaminazione nucleare. Alla ricerca di un ambiente più salubre e di un vivere con ritmi più umani di quelli della frenetica, poco sorridente Tokyo (http://ajw.asahi.com/article/0311disaster/life_and_death/AJ201111220017). Alghe e pesce nella cucina di tutti i giorni, sulle tavole di Okinawa, così come nei mercati. L’arcipelago, oltre che ricco di militari americani - dopo appena sessantotto anni dalla vittoria contro il Giappone non hanno ancora deciso di togliere le tende, per fortuna è anche ricco di isole fantastiche, di gente cordiale e di un’atmosfera accogliente.









Il cotone organico di 'Satoko9'

A Naha, la bella capitale di Okinawa, giocate al/la giapponese: un po’ come per i saponi di Ubud, andate alla caccia del tesoro. Il tesoro in questione è il piccolo negozio di 'Satoko9' (Tikutiku-Sato9, - nove il numero simbolo di pace e armonia -, dalle 13 alle 19, chiuso il lunedì, il giovedì e la domenica,http://blog.goo.ne.jp/satoko9_tikutiku/), imboscato nell’oscura galleria al secondo piano dell’Heiwa-dōri, la grande galleria commerciale che, come un labirinto, si dirama da Kokusai-dōri, la via principale dello shopping nel centro di Naha. Al pianterreno negozi con ogni merce ipotizzabile nel settore del souvenir e turisti a caccia dei medesimi. Nella galleria al piano superiore, quasi introvabile se non fosse per qualche cartello dipinto a mano, non ci va quasi nessuno: pochi sanno che esiste, oscurata com’è dalla baraonda di cianfrusaglie al pianterreno. Se la scoverete, e se scoverete il negozio di 'Satoko9', la fatica sarà premiata con una carezza all’anima.










L’articolo più forte sono gli assorbenti femminili fatti a mano, con cotone organico (cercate quelli di tessuto stampato con maialini rosa), lavabili e rispettosi dell’ambiente. Inoltre: astucci per le bacchette per mangiare e per gli uncinetti, puntaspilli, presine e strofinacci da cucina, mini-orsacchiotti per bebè, bavaglini, bottoni, borse. E, dulcis in fundo, da non perdere, i bad boss: pupazzetti-feticcio da maltrattare, a cattive parole, mentre vi siete chiusi in bagno in fuga dall’ultima lavata di testa del vostro capoufficio. Vanno a ruba.







Portabandiera della tribù green a Okinawa sono gli abitanti del piccolo villaggio di Takae, nel distretto di Higashi, nel nord dell’isola principale dell’arcipelago. Circondati dalla bellissima foresta di Yanbaru, hanno gli occhi di Tokyo puntati addosso. I locali non ne vogliono proprio sapere dell’ennesimo progetto di ampliamento degli eliporti per gli elicotteri dei militari statunitensi, a danno dell’ecosistema che vanta svariate specie a forte rischio di estinzione. La loro protesta, anche se non violenta, è comunque considerata un affronto da parte di Tokyo, che sempre più vuole in casa l’amico americano. Il terrore dei comunisti cinesi e nord-coreani sembra aver fatto dimenticare Hiroshima e Nagasaki ai più. Tanto da mettere sotto processo alcuni facinorosi pacifisti che, con innocui sit-in, si sono opposti alla distruzione di altra foresta e dei propri timpani con le eliche degli elicotteri.


Nella loro foresta, gli abitanti di Takae vorrebbero crescere i propri bambini più nel rispetto dello Yanbaru Kuina - un colorato uccello endemico della zona divenuto simbolo della rivolta pacifica - che in quello di qualche sergente maggiore dell’Alabama o del Missouri, venuto fin lì a rompere nidi, timpani e importanti organi dell’apparato riproduttivo. Il loro è un mondo semplice, di piccole abitazioni circondate da alberi e felci gigantesche. Gli adulti lavorano il legno, coltivano i campi, preparano cibi bio-organici sani e saporiti, magari affidando i bambini più piccoli al paziente baby-sitter del villaggio, una vera istituzione della comunità. Il loro sogno, in un Paese che fra centrali nucleari e tsunami sembra aver perso l’orientamento, è altamente condivisibile: tornare alla natura, prima che sa troppo tardi.




venerdì 16 marzo 2012

GIAPPONE – NAHA, IL GIAPPONE CON IL CUORE


Articolo numero 100, bisogna festeggiare. Quando, lo scorso luglio, ho inaugurato questo blog, la missione era multipla. Sentirmi più ggiovane (nonostante l’allergia al termine blog; ancora oggi mi ci devo abituare), dare una vetrina ad articoli dimenticati in archivio ma che possono ancora essere di aiuto a qualcuno, scriverne e pubblicarne di inediti, provare ad agitare le torbide acque dell’editoria, togliermi qualche sassolino dalle scarpe, promuovere chi lo merita e bocciare chi è asino. Mai avrei pensato che nel mio piccolo, una vocina fra miliardi nel modo virtuale, per di più nella provinciale lingua italiana e non nel globale inglese, sarebbe stato una specie di successo. Oltre 5000 visitatori da agosto sparsi in ogni angolo del mondo, anche in Paesi dove non ho mai messo piede, dalla Russia all'Angola, dal Venezuela alla Lituania. Segno che l’italiano, quella vecchia volpe di Mirko Tremaglia sarebbe felice di saperlo, è ovunque ed è curioso. Si informa, anche se trapiantato dall’altra parte del mondo. Qua e là ho messo on-line numerose foto, facilmente scaricabili. Gli addetti ai lavori inorridiscono, perché - secondo una scuola di pensiero - sarebbe come regalare il proprio lavoro, frutto di anni di fatiche. Ma i miei clienti paganti (pochi, mai abbastanza, soprattutto con le tariffe della fotografia in caduta libera) li ho già, quasi tutti nel mondo di sopravvissuti della carta stampata. Dunque, al contrario di molti colleghi inaciditi dalla crisi e dalle invidie, che si arrovellano tra bassissime risoluzioni e watermark per rendere impossibile copiare le loro immagini on-line (tutto, volendo, si copia), io sono contento se qualcuno userà gratuitamente una mia foto sul proprio blog o per altri motivi personali. È un po’ come se i miei occhi, che per un istante hanno visto la vita attraverso la mia Nikon, servissero anche ad altri. E, per festeggiare questo giro di boa, voglio dedicare il centesimo articolo a un luogo che amo: Naha, la capitale di Okinawa. Domani la lascerò per rientrare in Italia e mi mancherà parecchio. Grazie per avermi ospitato, durante questi mesi. Arigato gozaimasu!


Naha, dove la tranquillità è stile di vita

Un po’ Napoli, un po’ Honolulu, ma anche Tokyo e Taipei. Prendete i gatti randagi della prima, le camicie a fiori della seconda, il rispetto per le regole della terza e l’Asia in ogni cosa dell’ultima. E, visto che ci siete, aggiungete un po’ di coppole siciliane, di alcol da baretto pulcioso di Goa, di spiagge fantastiche tailandesi e di piatti vagamente messicani. Frullate il tutto e otterrete un chanpuru, un mix - nella lingua di Okinawa - che può darvi un’idea di Naha, la capitale dell’arcipelago più meridionale del Giappone, anche se non ci siete mai stati.











A Naha, ogni tanto, mi sembra di tornare bambino. Anche se sono in Giappone e di giapponese conosco venti parole, qui ritrovo ritmi e atmosfere degli anni Settanta, quando vivevo in strada a giocare a pallone, sfracellando timpani e altri organi importanti del vicinato condominiale a suon di pallonate contro le porte dei garage. Allora per me il Milan era Dio (Berlu aveva ancora i capelli veri e pensava solo ad accumulare i primi miliardi), il borsello horribilis che mi aveva regalato mio padre era un tesoro e gli odori di cibo serio pervadevano la mia Bologna. Come ogni bimbo non ero felicissimo (invidiavo i peli sotto le ascelle degli adulti); come ogni adulto oggi rimpiango, mitizzandolo, il mondo che fu.










Catapultato nella lontana, esotica Okinawa, rispetto a Bologna più o meno dalle parti di Marte, la sorpresa è stata grandiosa. Non un Giappone isterico e ipertecnologico - volendo, anche a Naha, c’è, basta cercarlo -, ma, in generale, un luogo del lieto vivere. Lavorando, dandosi da fare, ma con ritmi umani e, ogni tanto, pure con qualche sorriso. Con il cuore, si può dire, volendo usare un’immagine stucchevole da neomelodico.











Ishiyaki-mooooo… A volte mi sveglio, nel microappartamento al porto di Tomari, pensando di essere in qualche paese arabo. Il muezzin mi sta tirando giù dal letto, per chiamarmi alla preghiera. In realtà nessun musulmano in vista, da queste parti. La litania che giunge, soave e piacevole, è quella del venditore di patate dolci cotte a vapore. Qui le patate dolci furoreggiano, e sono una vera delizia. Il trabiccolo sbuffante, una specie di vecchia locomotiva a carbone montata su un furgoncino, procede lentamente attraverso le viuzze del porto, un po’ come faceva l’arrotino da noi qualche decennio fa. Richiamando i clienti, fermandosi ogni tanto.











Il trabiccolo delle patate fumanti, di solito, è seguito da quello della spazzatura. Lo si sente arrivare perché emette una Per Elisa elettronica, mentre procede lentamente lungo le vie. Lo smaltimento delle immondizie, in Giappone, è roba serissima. Per capirla bisogna studiare. Ogni casa è fornita di un poster in cui vengono illustrati, giorno per giorno, i rifiuti da smaltire e come (la carta annodata con cordicelle, le bottiglie di PVC senza il tappo, ecc.). La piantina della metropolitana di New York, a confronto, è di facilissima interpretazione. Rifiuti da incenerire (organico + plastiche assortite) nel sacco trasparente con la faccina a forma di fiamma rossa; rifiuti che non vanno bruciati nel sacco con la faccina blu. Ogni sacchetto e ogni merce il lunedì piuttosto che il mercoledì, se sgarri (sacchetto, contenuto, giorno, luogo) il giorno dopo il tuo sacchetto sarà ancora lì, con un adesivo che ti sgrida, sottolineando la tua impreparazione nello studio del poster. Follie del Giappone, per fortuna ne è pieno.











Nulla di meglio, la domenica pomeriggio, che trascinarsi lungo Kokusai-dōri, la ‘via Internazionale’ di Naha. Quel giorno la via è una piacevole passerella, non solo per i negozi che vendono magliette coloratissime e Shisa di terracotta, bottiglie di distillato awamori e terribili borsellini fatti con le rane (svuotate, una zip da ascella ad ascella), biscotti viola di patata dolce e Sanshin (il banjo dell’arcipelago, a tre corde) con la cassa di risonanza ricoperta da pelle di pitone, ciabattine decorate con i personaggi dei manga e bei bicchieri fatti a mano. La domenica, se si è fortunati, si può incappare in uno spettacolo di tamburi taiko. Svariati sono i gruppi che ne mantengono la tradizione, e assistere a una loro performance può far venire la pelle d’oca, tanto il suono è viscerale. Inoltre, con il bel tempo, aree riservate ai giochi dei bambini, tavolini per manicure, taxi ecologici a pedali e ristorantini per tutti i gusti. 











Souvenir e alimenti continuano dentro il labirinto commerciale della galleria Heiwa-dōri. L’interno è una babele di delizie esotiche per il palato e per gli occhi. Gelato salato, alghe umibudo a palline, katsuobushi (pesce affumicato e compresso che pare legno: va grattugiato), carne in scatola Spam - amata dai soldati americani in servizio a Okinawa, ma adottata anche dai locali -, frutta a prezzo di diamanti, negozietti vintage pulciosi e ammalianti, lettori della mano, quadri di samurai e di Michael Jackson, kimono, deliziosi biscotti chinsuko, miele, scatole bento (il popolare pranzo take-away), camicie hawaiane, fiori freschi e zampe di maiale agu usate per la zuppa Ashi Tebichi. Di notte le vie della galleria sono deserte, abitate solo da neko (gatti), qui più diffusi che in qualsiasi altra città giapponese. Il vero spettacolo della Heiwa-dōri, però, è il mercato Makishi, nel cuore della struttura. Un mercato del pesce tra i più ricchi al mondo, con specie per noi esotiche, qui comuni. I poveri fugu, pesci palla, sono venduti spellati, e chi vuole preparare del sushi viene ad acquistare pesce pregiato a prezzo contenuto che può anche essere fatto cucinare dai ristorantini del primo piano, dove le famiglie locali consumano pranzi luculliani. Tra le bancarelle spiccano anche inquietanti teste di maiale, o meglio, le maschere, la pelle della testa, dal collo alle orecchie, sottovuoto. Sono considerate una prelibatezza.











Dopo il disastroso terremoto/tsunami/fuga radioattiva da Fukushima dell’11 marzo 2011, Okinawa ha visto un afflusso incessante di gente che ha lasciato casa e lavoro nelle zone disastrate, così come a Tokyo, Yokohama, Chiba, Kamakura e altri luoghi del Centro-Est. Alcuni hanno abbandonato il passato temporaneamente, prendendosi un anno ‘sabbatico’ a distanza di sicurezza da acque e cibi contaminati, altri lo hanno fatto definitivamente. Oggi Okinawa, sta vivendo una forte crescita demografica. Il luogo è il più distante da Fukushima (circa 1750 km in linea d’aria) entro i confini nazionali, ed essendo nella fascia subtropicale, dove di giorno in inverno si va di rado sotto i 15°C, gode di un clima temperato. Pesce, frutta e verdura giungono da regioni sicure, e a queste vanno aggiunti i molti cibi importati, perlopiù inscatolati, apprezzati soprattutto dalla folta popolazione statunitense. Spaghetti e tagliatelle De Cecco possono essere reperiti nei supermercati migliori, anche se a caro prezzo. La migrazione interna ha lati positivi (una maggiore diversificazione culturale, con piatti e artisti provenienti da molte altre regioni), così come lati negativi (il mercato del lavoro è più scarso che nella regione di Tokyo, con salari inferiori, e ricominciare tutto daccapo non è facile), ma il fenomeno non si ferma. Soprattutto le famiglie con figli piccoli scelgono Okinawa quale rifugio sicuro, anche perché qui i prezzi sono più bassi che nel resto del Giappone. Difficile dar loro torto.









Tempo fa un conoscente mi ha chiesto quale fosse il luogo di Naha che più amavo. Più che un luogo, un’atmosfera, gli ho risposto. Quella fatta di negozi di abbigliamento pessimo per vechiette, di gatti randagi, di frutta e verdura non di primissima qualità vendute vicino al mercato, sul finire della galleria commerciale Heiwa-dōri. Un dedalo di viuzze che sfocia nel quartiere di Tsuboya, dove ci sono solo negozi che vendono ceramiche spettacolari e case belle e basse, protette da un esercito di Shisa, i leoni-cani scaccia spiriti, guardie di ogni abitazione di Okinawa che si rispetti. Adoro perdermi in quei cunicoli, mangiare dell’Okinawa soba in ristorantini dove gli spaghetti si risucchiano con rumori da idrovora e un ufficio di igiene avrebbe molto da ridire, ma in cui il sapore è vero, il costo proletario e l’atmosfera non ha prezzo.











Qualche decoratore con passato da giostraio deve aver arredato le arcate della Heiwa-dōri. Ai piani bassi è un viavai di turisti a caccia di souvenir, ma se alzi il naso scorgi arredi usciti da un film di fantascienza a basso costo. Pipistrelli di plastica di un metro e altri animali assortiti, apparentemente avvinghiati in una ragnatela di palloncini colorati e addobbi natalizi, non importa se ormai è marzo. Il Giappone è un Paese di dettagli, e Naha non è da meno. Ci ho passato mesi, ma non mi stanco mai di perdere lo sguardo fra le merci esposte nei negozi dove tutto è reperibile, a volte a prezzi stracciati. La mia preferita è una vecchietta con la schiena piegata a novanta gradi. A vederla non dà l’idea della salute, ma ha una corteccia da scaricatore, tant’è che ogni giorno apre, allestisce e richiude il suo negozio di oggetti usati senza grossi problemi, un passetto per volta. Tra i suoi scaffali trovi coppie di cinghiali in ceramica, corna di bufalo laccate e intarsiate, manga, thermos marca Milano, sci (mai vista la neve, a Naha), vasellame assortito. Tutto ha il prezzo riportato sopra, ma se accenni ad alzare mezzo sopracciglio la vecchietta ti fa al volo uno sconto del cinquanta percento.











La galleria è pervasa da musica da reparto geriatrico, oppure da crociera, dall’alba al tramonto. Aiuta a godere il ritmo rilassato dello shopping senza le frette né le ansie da mall, da griffe. In questo angolo della città nessuno è ricco. All’uscita della galleria, girato l’angolo, una serie di sake-bar dove, volendo, ti puoi prendere una sbronza seria a qualsiasi ora del giorno o della notte. Entrarvi, oltre a farci diventare Uomini Veri, varrebbe anche la scrittura di una decina di romanzi, se solo Hemingway fosse ancora vivo. Una volta mi sono intrufolato, per pura curiosità ficcanaso, in uno di questi localacci verso mezzogiorno. Tutti, dentro, avevano almeno sessant’anni, ma a giudicare dai sorrisi erano ragazzini. Qualche sbevazzone professionista accompagnato da intrattenitrici pure attempate. Come mi infilai nella tana del leone, accompagnato da un amico brasiliano karateka, ventidue anni portati benissimo (fisico da surfista), le nonne presero fuoco. Iniziarono praticamente a spogliarlo lì, sotto gli occhi di tutti, lisciandogli bicipiti e addominali. Quando raggiunsero la zona dell’inguine infilammo la porta fra cento arigato.











A pochi passi dai baracci, qualche giorno fa, ho vissuto il mio momento di adrenalina. Stavo razzolando pigramente dalle parti del vecchio mercato, fra gatti e negozi mezzi chiusi. Poi, tutto d’un tratto, sirene della polizia. Roba che a Naha si sente solo il sabato sera, quando i poliziotti cercano invano di acciuffare gang di rumorosissimi motociclisti che imperversano lungo i viali della città. Qual giorno sembrava che fossero crollate le Torri Gemelle. Ho subito pensato a un ritorno di fiamma della potente yakuza locale, fortissima e sanguinaria negli anni Settanta (poi praticamente espulsa ed estintasi a Okinawa). In un minuto sono arrivate almeno dieci auto della polizia, uomini e donne in uniforme, più qualcuno in borghese. Pistole in mano hanno accerchiato una farmacia. Bloccato un uomo su un lato della strada, inseguito un altro (inesistente) su quello opposto. Mentre un paio di poliziotti circondavano l’isolato con scotch giallo da crime scene, altri cinque perquisivano il fermato. Pensando che avesse ammazzato almeno tre persone, mi sono informato.









Il tipo era entrato nella farmacia e aveva intimato alla proprietaria di dargli dei soldi, perché aveva un coltello. Prima di darglieli, però, avrebbe dovuto chiamare la polizia. A fine perquisizione, zero coltelli. Né addosso né per terra da qualche parte. Il tipo non aveva alcun coltello, ma solo un alito pesante. Uscito da un sake-bar, forse, aveva fatto i conti di quanto gli era rimasto in tasca, dalle parti dello zero. E, valutato il vitto e l’alloggio delle galere giapponesi, deve aver deciso di alloggiare a spese dello stato per qualche notte. Ogni anno a Naha muoiono sei-sette persone in maniera violenta. Cotti dal sakè, si addormentano in mezzo alla strada e qualche auto gli passa sopra. Alcol, brutta bestia.









La galleria Heiwa-dōri porta al quieto quartiere di Tsuboya, noto per i laboratori in cui si lavora la terracotta. La zona residenziale è un’oasi di pace, con viuzze a saliscendi, negozi dai manufatti pregevoli e laboratori in cui si può assistere al paziente lavoro degli artigiani che forgiano piatti, bicchieri e vasi di ottimo gusto. A proteggerli, tutto attorno, un piccolo esercito di Shisa, diversi da casa a casa, così come all’ingresso del Museo della Ceramica di Tsuboya (www.edu.city.naha.okinawa.jp/tsuboya). Un altro museo interessante è il Naha City Museum of History, a due passi dalla fermata Kencho-mae del monorail. Da qui, con una camminata di un paio di chilometri in salita, si raggiunge il quartiere di Shuri, noto per il castello omonimo (http://www.oki-park.jp/), della dinastia Ryūkyū. Usato dai soldati giapponesi durante la Seconda guerra mondiale, fu distrutto, per poi essere ricostruito. È una delle maggiori attrazioni storiche di Okinawa, e all’uscita si può tornare in centro discendendo la Kinjo-cho Ishidatami, una bella via acciottolata. A sud di Shuri respira il polmone verde dei Giardini Reali Shikinaen, patrimonio dell’umanità.








Omer Simpson, in una delle sue battute storiche, ha affermato che le camicie hawaiane le portano i gay o i grassoni simpatici. Alla seconda categoria appartiene Begin, il più noto cantante di Okinawa, maestro dello sanshin - il banjo di Okinawa - e lanciatore della moda delle coppole. Le sue camicie floreali sono diventate uniforme, e i negozi di Kokusai-dōri, la via-passerella del centro di Naha, ne vendono a bizzeffe. Quando il sole batte forte, a volte, puoi pensare di essere a Honolulu. Ma anche un po’ in Cina - guai a chiamare ‘Cina’ la non lontana Taiwan - : a tavola, nella lingua, nella musica e, soprattutto, fra i molti turisti che vi giungono dalla Formosa che fu. Cina-Giappone, antica storia di odio e amore. Oggi il secondo prevale, e sono sempre più i taiwanesi che prendono un aereo, attirati dall’intrigante cultura giapponese.








Se ve ne foste scordati, e anche se si dice che gli abitanti di Okinawa siano pigri e arrivino sempre in ritardo, no, non vi siete sbagliati: anche Naha è Giappone. Seppure lontana dal rigido tradizionalismo di Kyoto e dall’iperproduttività di Tokyo, per non parlare dei 1750 km di sicurezza che la separano da Fukushima, Naha è giapponesissima. E per rinfrescarvi la memoria, se mai avevate pensato per un momento di essere altrove (magari negli States, con i militari americani in libera uscita il sabato sera), andate dal benzinaio - prima di farvi il pieno si inchinerà davanti al cofano dell’auto.





Terminiamo il menù (in Giappone non solo per i ristoranti, ma anche per parrucchieri e barbieri, evviva il Giappone). Le spiagge mozzafiato non sono nel centro di questa città da 320.000 abitanti, se si eccettua quella di Naminoue. Ma per arrivarci basta poco, un’auto a nolo nell’isola maggiore o un’oretta di volo verso le spettacolari isole minori. Dulcis in fundo, un pizzico di Messico. Il locale taco rice è ciò che rimane del taco messicano, importato dai soldati americani. I locali ne hanno preso l’involucro, lo hanno buttato nelle immondizie (il martedì e il venerdì, giorni dell’organico) e lo hanno sostituito con il riso. Il champuru è servito. Che aspettate, saltate su un aereo e itadakimasu! (buon appetito)





ALTRE FOTO su:


ALLOGGI
Sora House
A due minuti dalla stazione Miebashi del monorail, Naha
Tel. 098-861-9939
Ostello frequentato dai backpacker di mezzo mondo, pulito e sicuro, a dieci minuti di cammino da Kokusai-dōri o dal porto Tomari. Camere con quattro letti a castello a 1700 yen a persona, possibilità di cucinare, wifi e lavatrice.



VIAGGIO
L'Italia (Fiumicino, Malpensa) è collegata al Giappone (Tokyo) con l'ottima Cathay Pacific (http://www.cathaypacific.com/cpa/it) a circa 700 euro.   Da  Tokyo si può raggiungere Naha  con le linee aeree low-cost  Skymark (skymark.jp/en, da Narita o da Haneda), Air Asia (http://www.airasia.com/jp/en/home.page, solo da Narita) o Jetstar (jetstar.com/au/en/home, solo da Narita). Il volo da Narita dura circa 2 ore e mezza e costa, se prenotato almeno un mese prima (prenotazione on-line con carta di credito, da presentare al check-in, dove effettuare il pagamento), fra i 100 e i 150 euro, a seconda del periodo.  Dall’aeroporto di Naha, a circa 6 km dal centro, si può prendere l’efficiente monorail (metropolitana sopraelevata), oppure un taxi (circa 1200 yen per il centro).  Le isole minori dell’arcipelago possono essere raggiunte in aereo o in barca. 


SHOPPING
Numerosi i negozi, davvero particolari, a Naha. Trovarli, nascosti nelle viuzze, è spesso una caccia al tesoro: armatevi di santa pazienza. Per abiti e oggetti vintage: Ankh (ankhvintage.ti-da.net), all’uscita di Heiwa-dōri. Lo riconoscerete anche per i gatti che circolano fra i manichini. Bell’abbigliamento e accessori indiani da Chahat (chahat27.com, 2-21-1 Matsuo, dalle 11 alle 18). Il proprietario parla italiano: ha vissuto a Firenze, da cui ha ‘esportato’ l’amore per le borse in pelle. Fantastici oggetti di cartapesta e di ceramica da Roadworks (toy-roadworks.com, Naha-shi Makishi, dalle 10 alle 18, chiuso la domenica): giocattoli matti, diavoli e conigli, alberi di natale come non ne avrete mai visti, tutto fatto a mano. A Tsuboya, un bel laboratorio di terracotta è Ikutounen (ikutouen.com), nella parte alta del quartiere.






A CACCIA DI BALENE (CON LO ZOOM)

 
Da dicembre ad aprile, a Okinawa, è la stagione per avvistare le balene. I giapponesi (una minoranza), infatti, non solo le infilzano e le mangiano, ma (altri, per fortuna la maggioranza) le osservano con ammirazione e le coccolano per quello che sono: spettacolari animali preistorici a rischio di estinzione. A breve distanza da Naha, la bella capitale dell’arcipelago di Okinawa, ogni giorno verso l’ora di pranzo, dal porticciolo di Minato salpa l’imbarcazione della compagnia Marine House Seasir (www.seasir.com/naha/whale/). Ideale per una ventina di passeggeri, decisamente meglio per avvicinarsi ai cetacei delle grandi imbarcazioni che partono dal porto di Tomari (mezz’ora a piedi a sud di Minato). Dopo le istruzioni in giapponese date prima della partenza (illustrazione del comportamento delle balene, con tanto di cartelli e modellino di balena di plastica lungo trenta centimetri; descrizione dell’imbarcazione, i salvagente sono qui, i bagni là, se vomitate fatelo a poppa e non sottovento a prua; se avvistate una balena indicatela con l’indice e fate un urletto), seguite da mini-applauso in puro Nippon style per i membri della ciurma, in circa un’ora di navigazione si raggiungono le acque delle isole Kerama, le isole minori di Okinawa più vicine a Naha.



Qui, con un po’ di pazienza e fortuna, si avvistano i grandi cetacei, mentre fanno piroette nell’acqua e sbuffano nubi vaporose dal cocchiume prima di immergersi definitivamente negli abissi (la coda a perpendicolo dell’acqua è segnale di addio, bisogna essere veloci a fare click con la macchina fotografica). La balena che esce completamente dall’acqua ed esegue un carpiato completo, a mo’ di arcobaleno, è una vera delizia per gli occhi, soprattutto quelli dei fotografi, cui si può assistere solo ogni morte di papa. Un po’ come vincere la lotteria, ma sperare è gratuito. L’avvistamento medio prevede tre-quattro uscite a filo d’acqua per respirare, seguite dall’immersione definitiva, preannunciata dall’inarcamento del dorso e dalla fuoriuscita della coda (nel suo scientificamente approfondito Moby Dick, lo scrittore Herman Melville descrive la balena come ‘pesce sputante con una coda orizzontale’). Durante la navigazione ficcanaso capiterà di essere sorvolati dagli elicotteri militari americani, che si esercitano nelle Kerama (ogni tanto qualcuno si schianta contro gli abitati dell’arcipelago, e la gente locale non ne può più - vedi http://unitalianoaokinawa.blogspot.jp/2013/02/la-questione-americana.html). Dopo una decina almeno di avvistamenti si rientra a Minato: durata complessiva tre ore (4800 yen, circa 50 euro). Chi soffre il mal di mare dovrebbe prendere una pillola mezz’ora prima di imbarcarsi. A bordo: tè, impermeabili e sacchetti d’emergenza per chi il mare proprio non lo digerisce.