Fumare in India, tra leggi virtuali e sigarette di tutti i tipi. Sullo sfondo, gli attori di Bollywood
No Smoking, no Spitting. Questo il divieto diffuso in gran parte dell’India. Le due attività, e i rispettivi divieti, qui sembrano andare in coppia. Ristoranti, ospedali, bar, luoghi pubblici e perfino alcune strade recano il cartello con il divieto, espresso anche con un evidente disegnino per chi non sa leggere. In India, infatti, almeno a chiacchiere, esiste una legge (l’Anti-Tobacco Act) che proibisce di fumare in strada e in luoghi pubblici all’aperto. In realtà tutti fumano come e quando gli pare. E, anche per chi sputa, il legislatore sembra chiudere un occhio.
Essere famosi, non sempre un vantaggio
Qualche tempo fa uno degli dèi di Bollywood (la prolifica industria del cinema indiana), Shah Rukh Khan, attore fra i più gettonati, onnipresente in spot pubblicitari che invadono giornali, tv e strade, è finito nei guai per aver fumato in pubblico (di fronte alle telecamere) in ben due occasioni: durante un’importante partita di cricket a Mumbai e in occasione di un incontro con la stampa a Delhi. Per tale reato la star è stata denunciata dalla National Organisation for Tobacco Eradication, un’associazione non governativa già da tempo in guerra legale pure con la megastar Amitabh Bachchan, a causa del poster di un suo film in cui l’attore appare mentre fuma un sigaro. Gli attori hanno un forte impatto sul comportamento dei giovani - così sostiene l’associazione -, dunque non possono permettersi di ‘esibire’ pubblicamente reati, piccoli o grandi che siano. Difficile darle torto in un Paese come l’India, in cui gli attori hanno una popolarità che supera qualunque altro essere vivente. Quello di prendere di mira la casta di Bollywood, però, di recente sembra essere divenuto uno sport molto praticato, questioni di fumo o meno. Altri due semidéi, per ragioni diversissime, negli ultimi tempi sono finiti nei guai con la giustizia. Il primo, Salman Khan, si è fatto qualche giorno dietro le sbarre per aver ucciso un daino, specie protetta, durante una battuta di caccia. Il secondo, Sanjay Dutt, presente praticamente nel cinquanta percento dei film indiani dell’ultimo ventennio, ha pure assaggiato le sbarre per essere stato trovato con un paio di pistole non registrate, armi implicate in una serie di attentati terroristici di matrice pakistana a Mumbai nel 1993 (la madre di Dutt è mussulmana e gli ‘amici di famiglia’…). Dutt, sguardo bovino e faccia di bronzo, durante il suo purgatorio in terra, una volta rilasciato, ha fatto di tutto, da vera star catodica, per ‘ripulire’ la propria immagine. All’uscita dalla galera, con le telecamere della tv nazionale (e addirittura una breaking news per l’occasione) puntategli addosso, ha fatto questione di stringere più mani possibili alle orde di poliziotti (la ‘scorta’) che sembravano fare a cazzotti fra di loro per avere un contatto fisico e complimentarsi (di che?) con il superuomo. Se c’è un merito della tv, è stato quello di permettere di riconoscere i tutori della legge che si sono fatti in quattro per stringere le mani a un criminale, e dare via a un bel procedimento di sospensione da parte di qualche graduato zelante. Non soddisfatto dello stringimento collettivo di mani, Dutt si è quindi immerso in un profondo ritiro spirituale, facendosi riprendere da tutte le angolature migliori mentre assorto in preghiera (indù; la maggioranza degli indiani è indù e la religione il miglior marketing che esista) venerava qualche dio, tra incensi, polveri rosse, mani giunte e occhi chiusi. Shiva lo avrà ascoltato?
Alla guerra contro il fumo, inoltre, è dedicato un film del 2007 intitolato No Smoking. Stando alla critica, il film è così bello ed educativo che gli spettatori, appena usciti dal cinema la primissima cosa che fanno è accendersi una bella sigaretta. Pure quelli che non hanno mai fumato prima.
Paan, beedi e chutta
Lasciati gli dèi, torniamo in terra. In terra, in India, si sputa e si fuma. La prima attività è fortemente alimentata dal consumo del paan, la foglia arrotolata e imbottita con un’infinità di ingredienti: noce di betel (areca) finemente spezzettata, calce e spezie assortite. Le foglie, bianche e verdi, sono di diversi tipi e di diversi prezzi (dalle 5 alle 200 rupie, per il paan più pregiato): maghai (la più costosa), deshi, banaras ecc. Il paan, a grandi linee, è dolce (mitha o masala paan) o con tabacco (saadha). A quest’ultima categoria appartengono il paan n°120 (il più leggero), il n°320 e il kimamam. L’India è cosparsa di chiazze rosse, tracce delle espulsioni via bocca di ciò che resta della masticazione dell’involtino digestivo, consumato perlopiù dopo i pasti. La noce di betel è leggermente narcotica e, come tale, sembra dare assuefazione. Alcuni consumatori di paan, infatti, ne masticano tanto quanto un fumatore accanito accende sigarette l’una dietro l’altra. E chi non ha il tempo di attendere che il paan-wallah - l’uomo che di solito prepara la foglia fresca lungo uno dei marciapiedi indiani - abbia terminato l’opera, o vuole risparmiare qualche rupia, acquista un pacchettino confezionato industrialmente, lo apre, ingurgita e via… Il gutka, questo il nome del paan industriale, è notoriamente cancerogeno, ma costando appena 2-2,5 rupie va a ruba. Oltre alle magagne per la salute, un effetto esteticamente non costruttivo dell’uso del paan è quello, nel tempo, di rendere la bocca dei masticatori una specie di buco rosso-e-nero, apparentemente uscito da un film di Romero (tipo zombie a spasso). Usato come offerta a un invitato di riguardo, il paan è esportato in Medio Oriente, gran parte dell’Asia, Africa, Gran Bretagna, USA e Giappone. Secondo la tradizione, il paan sarebbe stato inventato migliaia di anni fa da alcuni studenti dei testi sacri indù, che dopo aver fatto esperimenti sui topi produssero un mix di ingredienti utile per una migliore digestione. Si dice che lo stesso dio Krishna lo usasse per digerire… e sembra che la regina Noorjehan (madre del re Shahjehan, il sovrano che costruì il Taj Mahal) scoprì che aggiungendo qualche ingrediente al paan questo ravvivava il naturale colore rossastro delle labbra.
Altro prodotto indiano è il beedi, la sigaretta consumata perlopiù dai ceti meno abbienti (è noto come ‘la sigaretta dei poveri). Il beedi è prodotto artigianalmente in fabbriche in cui abbonda la manodopera infantile: le mani dei bambini riescono, meglio di quelle degli adulti, ad arrotolare una sigaretta così sottile. Secondo un rilevamento dei primi anni Novanta in India oltre 325.000 bambini lavoravano nell’industria manifatturiera dei beedies. Si è calcolato che i bambini-operai arrotolino dai 1500 ai 2000 beedi al giorno, ed essendo un prodotto solitamente del lavoro minorile alcuni marchi (come quelli della Ganesh Bidi Works di Mangalore, azienda notoriamente schiavista) sono vietati negli USA. In India vengono prodotti oltre cinquecento miliardi di beedi all’anno (circa un terzo del tabacco locale viene utilizzato per queste sigarette), anche se di recente le sigarette ne stanno prendendo il posto nel mercato. Il beedi è fatto con tabacco (circa 2 grammi per sigaretta) essiccato al sole e spezzettato, solitamente arrotolato all’interno di una foglia essiccata di tendu (o kendu), Diospyros melonoxylon, una pianta endemica indiana che cresce soprattutto nel Madhya Pradesh. La piccola sigaretta, priva di filtro, è chiusa da un filo che mantiene saldo l’involucro. Popolare tra gli hippie di ieri e di oggi, il beedi è venduto in piccoli pacchetti conici o appiattiti, da 25-30 sigarette, a volte decorati con l’effigie di Ganesh, il dio-elefante. Diversi sono gli aromi: vaniglia, cioccolato, ciliegia, liquirizia, mentolo, mango. Tutti aromi dolciastri, apprezzati soprattutto dai teen-ager americani, presso i quali il beedi sta avendo un particolare successo negli ultimi anni, nonostante contenga maggior tartaro e nicotina rispetto alle sigarette.
Una terza, popolare maniera di consumare il tabacco in India è il chutta, un rozzo sigaro ‘casereccio’, fatto a mano. Circa un decimo del tabacco nazionale è usato per questo prodotto, di cui vengono consumati circa tre milioni di esemplari ogni anno. In particolare il chutta è diffuso lungo le regioni costiere dell’Andhra Pradesh, del Tamil Nadu e dell’Orissa. Una caratteristica di questo sigaro è la nociva abitudine in diversi luoghi (in India nei distretti di Visakhapattanam e di Srikakulam, nell’Andhra Pradesh; ma anche in diversi luoghi delle zone rurali dei Carabi, del Sud America e perfino della Sardegna) di fumare il chutta al contrario, con la parte accesa rivolta all’interno del palato. ‘Chutta’, di conseguenza, è un termine usato anche per indicare questa pratica, decisamente nociva (cancri alla bocca a go-go, nei luoghi in cui è diffusa). In India apprezzata in particolare dalle donne, questa usanza di fumare ‘al contrario’ sembra derivare dagli indiani d’America, importata in India grazie ai marinai olandesi sbarcati lungo le coste sud-orientali.
E anche sigarette…
Nella grande India non circolano solo stranezze. Ci sono pure un’infinità di tipi di sigarette, dalle classiche prodotte dalle multinazionali, relativamente costose e consumate perlopiù dai ceti benestanti, alle molte prodotte in loco, destinate al mercato locale o alle esportazioni verso le comunità indiane presenti in ogni angolo del globo. Queste sigarette di solito hanno prezzi inferiori e sono vendute anche in piccoli pacchetti da dieci unità, per chi non può permettersi la spesa ‘grossa’ tutta d’un colpo. Alcuni pacchetti popolari da dieci sigarette possono addirittura costare una rupia e mezza, circa 3 centesimi di euro... e la sigaretta venduta singolarmente è ancora una tradizione diffusissima, soprattutto nei mercati, dove il venditore dispone di accendino e pollice sempre pronti per la clientela.
Colosso dell’industria del tabacco indiana è l’ITC (Imperial Tobacco Company of India Limited, fondata nel 1910, oggi non più Imperial), i cui stabilimenti, sparsi un po’ dovunque nel Paese, producono numerosi marchi secondo uno standard di qualità moderno. Lo Stato dell’Andhra Pradesh è considerato il centro della produzione del tabacco indiano, ma diversi grandi stabilimenti sono presenti anche nelle altre regioni della confederazione. L’ITC raduna la maggior parte dei coltivatori di tabacco indiani ed esporta in una cinquantina di Paesi. La compagnia acquista quasi la metà di tutto il tabacco prodotto in India e ogni anno trasforma e immette sul mercato globale 120 milioni di chili di tabacco di alta qualità. I marchi più diffusi prodotti dall’ITC sono Insignia, India Kings, Classic, Gold Flake, Silk Cut, Navy Cut, Scissors, Capstan, Berkeley, Bristol e Flake.
Pubblicato su Smoking
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