Belém-Manaus, cinque giorni e altrettante notti di navigazione a bordo della Cisne Branco. Un ‘cigno bianco’ così bianco che quando ti siedi o ti appoggi da qualche parte la vernice bianca ti si attacca ai vestiti o alle mani. La barca, omologata ufficialmente per trecento passeggeri (una quarantina nelle cabine, tutti gli altri impilati, annodati, avvinghiati, stivati nei due ponti inferiori sulle amache), di recente ridotti a duecentoventi, in realtà supera abbondantemente le trecento teste/bocche/stomaci. Oltre seicento piedi, gambe e mani. Che camminano, afferrano, corrono, si rotolano per terra. Su tre piani grandi come monolocali.
La vernice è fresca, ma serve a camuffare anni di onorata carriera: andando a scavare con le unghie, sotto si possono contare gli anni, forse i decenni, come negli anelli delle sequoie canadesi. Qualche anno fa la Cisne Branco, grazie a un carico umano doppio del dovuto, ha fatto un giro sul fondo del Rio delle Amazzoni per andare a salutare i pesci, e qualche cristiano c’è rimasto. Per fortuna, questo piccolo particolare lo vengo a sapere solo a pochi metri dal porto di destinazione. Sembra che dopo l’’incidente’ la nave sia stata ristrutturata, meglio bilanciata, e l’accesso ai passeggeri, anche se a vedere non si direbbe, ora sia maggiormente controllato.
Quando pare a me, ma solo quando pare a me, piace fare il gringo. O meglio, mi piace godere di certi lussi da gringo, se posso. Per cui, anziché risparmiare del cinquanta percento, o se vogliamo per spendere il doppio, ho affittato un posto letto in una ‘suite’ (tutto un programma, poi vi spiego che cosa s’intende per suite da queste parti). L’alternativa era una bella amaca, peraltro da comprare e agganciare con il mio portafogli e con le mie mani. Il fatto è che fra la tua amaca e quella del vicino, quando va bene, ci sono due centimetri. A volte poggiano l’una sull’altra, sopra, sotto, di fianco alla tua. E se ti capita un ciccione che ti dorme sopra? E se non ha agganciato bene la sua? Già non riesco a dormire su un’amaca tra due palme in un’isola deserta, figuriamoci se ce la faccio qui, tra duecento persone, bambini urlanti, gente che fuma, spetazza nel sonno, attacca monologhi logorroici, cucina con il fornelletto sotto il mio sedere. Impossibile, per riuscirci mi devo bere un’intera bottiglia di cachaça, e nemmeno in queste condizioni garantisco.
Per fortuna il sesto senso, sviluppato a suon di fregature e legnate in anni di sbattimenti sui mezzi di trasporto di mezzo terzo mondo, mi ha fatto acquistare il biglietto per ricchi a scatola chiusa, diversi giorni prima della partenza. Sia perché, nonostante le mie previsioni contrarie, questi rari posti (una piccola percentuale rispetto all’intero carico di passeggeri) vanno esauriti almeno una settimana prima, sia perché, se avessi preso un posto amaca, per appenderla in una posizione decente (che non esiste) sarei dovuto arrivare sulla barca due settimane prima. La coscienza da viaggiatore, comunque, è a posto: tutte le cabine sono al completo e a bordo gli unici gringos siamo io e una coppia di anziani danesi. Inge e Knud sono due velisti in viaggio da tre anni che, raggiunta l’età della pensione, sono salpati per fare il giro del mondo. Hanno ormeggiato lo yacht a Recife e ora stanno facendo una piccola deviazione sul loro itinerario per conoscere l’Amazzonia. Sono gli unici biondi a bordo, con abiti e delicatezza molto da primeiro mundo o, quantomeno, da paulisti. Gran parte dei passeggeri dei piani bassi, soprattutto gente che viene dal misero sertão e va a Manaus in cerca di lavoro, non deve mai aver visto uno straniero in vita sua, se non alla televisione. Quando parliamo in inglese (i danesi non sanno una parola di portoghese) ci ritroviamo regolarmente un paio di bambini con gli occhi puntati addosso, ipnotizzati dalla nostra lingua marziana.
Le altre cabine sono occupate da brasiliani con la grana (ma mai tanta per comprare un biglietto d’aereo, ben più caro), che se possono evitano la babele del reparto amache. Non sono l’unico sfigato con puzze sotto al naso, dunque.
Le ‘suite’ consistono in: due lettucci singoli a castello (sono arrivato con il dovuto anticipo, così da conquistarmi quello di sotto; stando di sopra non vorrei sorbirmi i peti, ascendenti per composizione chimica, del mio coinquilino, che non ho ancora conosciuto); una mensolina per appoggiare quattro cose; due cestini; un bagno rovente con la doccia conficcata nel soffitto e una colonia di scarafaggi lillipuziani, carini, tutto sommato; un impianto ad aria condizionata che fa un rumore da bireattore (ma che, una volta provato e confrontato con la temperatura del mondo di fuori, diventa il tuo più caro amico). Quando spegni l’aria condizionata il calore aumenta di colpo e uno strangolante odore di vernice ti fa avere le visioni. Meglio tenerla sempre accesa. Tutto questo, più tre pasti al giorno, per circa venticinque euro di diaria. Mica male, no?
Pasti. Si fa per dire. Innanzitutto gli orari da caserma (se perdi l’ora del rancio ti attacchi e aspetti il giorno dopo): colazione alle 6,30, pranzo alle 11,30, cena alle 18, peggio che in ospizio. Il menù lo deve aver imposto il proprietario di qualche allevamento di bovini e pollame ammanicato con il gestore della barca, perché cinque giorni su cinque le portate prevedono invariabilmente riso con carne, fagioli con carne, farinha con carne, carne con carne. Per carità, ottima carne, non pazza e ogni giorno con un tentativo di interpretazione diversa: in umido, arrosto, in umido, arrosto. Ma avete mai provato a mangiare carne, pranzo e cena, per cinque giorni consecutivi?
A colazione panini con l’apresuntado (ancora carne, di bestia ignota e rosa con il ricordo del prosciutto spruzzato sopra) e il famoso queijo amarelo, ‘formaggio giallo’ distinguibile solo per il colore. Più refrescos, succhi allungati con l’acqua, a base di maracujá o arancia. Ogni tanto una splendida papaia. E litri di caffelatte.
Gli inconvenienti della tavola, oltre agli orari da/con galline e la monotematicità, sono due. Innanzitutto il fatto che ‘quelli delle cabine’, noi, mangiano separati dal resto del popolo. Quest’ultimo, all’ora della sbobba, arrotola le amache, abbassa una serie di tavoloni da galera dal tetto del ponte inferiore (quello con la ‘sala ristorante’, anche se non c’è alcuna sala) e, seduto uno di fianco all’altro/a, cucchiaio in mano, aspetta che i camerieri portino le cofane di cibo. In prima classe, tra ricchi, a un paio di metri dal popolaccio e sotto i suoi occhi costantemente puntati addosso, l’ambiente è più riservato. La tavola è fissa, ci si sta al massimo in una ventina e si ha l’impressione, solo quella, che il menù sia diverso. In realtà si tratta della stessa carne, solo che qui te la portano più spesso (sei a mezzo metro dalla cucina) e abbondano posate, tovagliolini di carta, bicchieri di plastica e caraffe d’acqua, tutti gadget rari nel girone degli affamati. C’è un continuo viavai di gente che viene al nostro tavolo per elemosinare un bicchiere di plastica, un coltello, un po’ d’acqua, un pezzo di pane, il tutto sotto gli occhi incarogniti dei camerieri, che li rimandano nel loro settore di competenza a urla e scudisciate.
“Cavolo, prima di partire abbiamo comprato dodicimilacinquecento bicchieri, e arrivati a Itacoatiara (più o meno a tre quarti del viaggio) erano già finiti. Il problema è che non ne possiamo comprare altri, sennò il patrão della barca ci stanga (‘non li sapete gestire’).”
Chi sbotta, in una breve momento di crisi di nervi causata dall’iperlavoro, è Iracema, la simpatica caposala del Cisne Branco. La fonte maggiore di consumo di questi battaglioni di bicchieri usa-e-getta non sono gli assetati (peraltro giustificabili, con tutta quella carnazza), bensì i bambini, che li trovano estremamente ludici. A bordo non hanno un accidente da fare, per giorni, per cui si coalizzano, fottono quantità industriali di bicchieri e, forti della loro fantasia, ci inventano mille giochi. Pessima conseguenza di tutta questa attività ricreativa è che i bicchieri, dopo l’uso, vengono regolarmente scaraventati nel fiume (il gioco principe). Solo un quarto deve finire nei bidoni delle immondizie, scaricate nei luoghi appositi a ogni sosta, mentre gli altri riposano sul fondo dell’Amazonas e negli stomaci dei pesci.
“Fino a qualche tempo fa mettevamo dei cartelli un po’ dovunque, con le regole da tenere a bordo, prima fra tutte quella di non buttare le immondizie in acqua. Poi, però, la gente, non sapendo che fare, li grattava via, li faceva a pezzi. Ora risparmiamo su carta e pennarelli.”
Altra cosuccia abbastanza oscena del ‘ristorante’ è che è attiguo ai bagni, wc e docce, e tra le panche su cui siedi e le porte dei suddetti ci saranno venticinque centimetri. Per cui, mentre ti infili una forchettata di spezzatino in gola, c’è regolarmente un grassardo in mutande o una donna con cinque bambini scalpitanti che ti rotolano addosso. Attività pericolosa, oltre che poco rilassante e decisamente profumata.
La partenza della Cisne Branco dal porto di Belém è sintomatica dell’intero andamento del viaggio. Inizialmente sarebbe programmata per le 18, poi alle 15. Per fortuna ho fatto un salto di mattina a vedere com’erano messi e qualcuno mi ha avvisato. Partiamo alle 17. Salpare, però, non è un’impresa facile. Le false partenze non si contano, c’è sempre qualche passeggero che si è dimenticato a terra qualcosa o qualcuno, un cliente delle cabine che arriva trafelato in taxi all’ultimo minuto. Un tipo che deve assolutamente comprare una rete di arance prima di partire. Merci di ogni tipo da caricare: divani, cipolle, patate, rotoli di tessuti, pneumatici da camion, bibite, carta igienica. Il tutto stipato nella pancia della barca, la zavorra che, forse, ci tirerà a fondo, se il Cisne Branco farà indigestione. Prima di caricare mezza Amazzonia nella chiglia un addetto alla sicurezza ha fatto un’ispezione scrupolosissima alla barca, scortato dal comandante. Ha controllato tutti gli impianti, i mezzi di salvataggio, il numero e le condizioni dei salvagente. Ha arricciato il naso, ma alla fine ci ha dato la benedizione e il permesso di partire. Mi domando, però, come mai l’ispezione non l’abbia fatta dopo lo stoccaggio.
Finalmente conosco il mio compagno di viaggio, arrivato all’ultimo minuto. João, nome più anonimo in Brasile non esiste (una figura ricorrente dell’immaginario brasileiro è João Ninguém, ‘Giovanni Nessuno’, più o meno corrispondente al nostro Tizio/Caio/Sempronio), è un omarino con forti tratti da indio. Accetta con una smorfietta il fatto di essere obbligato a dormire nel letto superiore (io ho già deciso per lui, dovrebbe ringraziarmi per non avergli fatto perdere tempo) e che io non mi chiami Inga, from Sweden. Nonostante per terra ci sia spazio anche per la sua valigia, preferisce stivarla sul letto. È piccolino, ci stanno entrambi, forse ci dormirà abbracciato. Pensa che gliela voglia prelevare? È gonfia di cocaina? Qualunque siano le sue ragioni, dopo un breve impatto di chiacchiere, presentazioni, dove vai, fumi, se sì che cosa, di notte russi o parli ai fantasmi, si zittisce di colpo. Per quattro giorni. Non so se ho detto/fatto qualcosa di sconveniente, fatto sta che João è la maschera della tristezza, sta spesso solo e se chiacchiera con qualcuno lo fa con i quattro ubriaconi cronici che picchettano il bar del ponte superiore dall’ora di apertura a quella di chiusura. Quando va a trovare i suoi amici etilici rientra in cabina con un bell’alito alla cachaça e, per fortuna, si butta a zeta sul suo lettuccio, la valigia tra le ginocchia, e si addormenta di brutto.
Dopo qualche giorno, en passant, mi rivela che si sta separando, che questo è il suo viaggio classico delle burrascose fasi dell’esistenza in cui il lui sfanculato si toglie dalle scatole della lei sfanculante, fa ritorno dalla vecchia madre e alla vita da zitello lasciati anni prima. Non c’è un granché da divertirsi, dunque.
A bordo c’è ben poco da fare. Il massimo della vita può essere sbronzarsi sul posto ponte, e anche lì, comunque, la bisboccia finisce presto. Il bar, se si eccettua il sabato sera, chiude presto e, di solito, si va a nanna alle otto e mezza, quando il buio è già calato da due ore. Per fortuna mi sono portato dietro una mezza enciclopedia di romanzi, che leggo avidamente, ventiquattro ore al giorno, sulle sedie del ponte superiore, quando non diluvia o non fa un caldo da sciogliere le pagine, o in cabina. I posti migliori in cui sedersi sono un paio di seggioline da bar incastrate sotto il parabrezza della sala comando, a prua. Da lì domini il panorama e ti godi il venticello, purché tu non sia troppo alto. In questo caso il comandante s’incazza, perché gli copri la visuale. Il comandante è un mulatto di circa quarant’anni, bello e chic, quasi nobile nel suo silenzio inglese, davvero raro da queste parti. La chiacchiera, però, gli parte inesorabilmente ogni volta che parla con una ragazza carina. Vecchio volpone. Gli uomini, invece, li tratta da schifo, tipo mosche e zanzare con le quali deve convivere per cinque giorni, cinque in più di quelli che vorrebbe. Se io gli domando “Mi scusi, Incommensurabile Signor Comandante, quanto manca a?” mi risponde bruscamente e con un burocratico “tot ore”, guardando da un’altra parte e con la faccia annoiata. Se la stessa, identica domanda gliela fa una giovane amazzone la risposta è “Circa tre ore e ventisei minuti, cara ragazza, se il vento in poppa ci sarà propizio e non subiremo guasti. Nel caso si dovessero verificare ritardi, tuttavia, potrà contare sulla mia cabina, per distendersi e rilassarsi. In tale evenienza le farò mettere lenzuola pulite e stirate”, il tutto avvolto da serie interminabili di sorrisi, inchini, salamelecchi, sguardi languidi e gentilezza a sfare. Che mi abbia preso per un busone?
Per viado, in effetti, devono avermi preso in tanti. Non mi sbronzo, non passo il tempo a osservare (apertamente) gli sfinteri delle ragazze, non mi gratto le parti basse, non mi spulcio le ascelle, non sputo dal ponte, esco dalla cabina con capi firmati e stirati (anche se non sanno che si tratta di roba usata comprata a due sacchi al porto di Belém, lo stile uno ce l’ha dentro). E soprattutto leggo. Nessuno, a bordo, legge, se non il tabellone con i prezzi della cachaça e gli opuscoli deliranti che qualche spacciatore della fede ha regalato a cani e porci al momento di salpare, una specie di Bignami della bibbia da asporto. In cinque giorni le uniche persone che vedo leggere sono un ragazzo e una ragazza, e se lo fanno è solo perché ho prestato loro un libro. Il primo è un viado vero (almeno così mi pare, a giudicare dalla vocina da usignolo), la seconda una giovane burrosa ricoperta di acne e occhiali. Entrambi mi devono aver preso per la biblioteca pubblica.
Se si eccettuano le attività ricreative della mia minuscola ma agguerrita collezione di romanzi (mi sento un missionario che rifila vangeli agli indios), a bordo tutti si trascinano pigramente, non sanno che cosa fare. I più guardano l’orizzonte, sempre molto uguale a se stesso, e le casette sparse qua e là lungo le sponde del fiume, almeno nei tratti più stretti, quelli in cui si può distinguere il canale della tv che sta guardando tizio o la marca di carta igienica di caio mentre sta seduto sul wc. Chi, invece, sembra divertirsi un sacco, sono i bambini, assolutamente abbandonati a se stessi dalle madri. La loro attività preferita è correre su e giù, dall’alba al tramonto, lungo il perimetro della barca. Possibilmente sul ponte superiore, attorno alla mia cabina, spesso e volentieri scambiata per un tam-tam. Le pareti metalliche, infatti, rimbombano splendidamente ogni volta che vengono prese a sberle e calci, e al centesimo bambino urlante/scalpitante che ci sbatte contro mi prende un’irrefrenabile voglia di uscire e andarne a prendere qualcuno a ginocchiate in gola. Oh, scusa, non volevo, ma perché non guardi dove vai, non l’ho fatto apposta, forse sì, perché non te ne stai buonino nell’amaca con la mamma.
Gli adolescenti in calore, in posa da attore hollywoodiano sul ponte, fanno manina alle gatinhas in short che ogni tanto passano. Le più ricambiano con sorrisini maliziosi (in Italia partirebbe il ceffone), altre tirano dritto tutte stizzite. L’atmosfera è impregnata di musicazza, propagata a volume distorto da due casse acustiche grandi come armadi sistemate ai lati del bar. Con tutto il ben di dio per le orecchie che c’è in questo amato paese, il personale nove volte su dieci mette su roba di superultima, soprattutto cd di ‘musica’ (a essere generosi) brega, quella che al momento più furoreggia in tutto il Nord. Brega significa ‘cafone’ e, in effetti, ‘sta roba di chic non ha un bel nulla. Un mix di forró (magari) e Claudio Villa alla brasiliana, che fa muovere le anche e strappa i cori (quelli de Roma), con testi da Bar dei Cacciatori e melodie mielose che ti rimangono appiccicate alle mani. Ritmi e concetti da sciampiste e camionisti, con tutto il rispetto per le categorie. Razione doppia di brega il sabato sera, dopocena, quando qualcuno, quattro gatti e svogliatamente, si mette a ballare. La pioggerellina e il vento raffreddano gli animi e dopo poco vanno tutti a nanna. La decima volta, quella dopo la nona di brega, la scelta va tra il peggio del peggio dell’hard rock amaricano, le varie Celine Dion da crociera (qualcuno deve aver scambiato il Cisne Branco per un’imbecille Love Boat) e la crema della musica sertaneja, altro peggio dei peggi, questo almeno di fabbricazione nazionale. Passando per i Platters, i Beatles e i Queen, tutta roba freschissima. Al raschio del barile manca solo Laura Pausini, ma potete stare certi che a Manaus qualcuno comprerà un cd piratato della nostra eroina, eroina in senso lato, per deliziare i passeggeri del viaggio di ritorno.
Nei momenti di massimo furore della discoteca, quando nemmeno rifugiandoti a poppa sulla sedia più lontana delle casse riesci a proteggerti coscienza musicale e timpani dai vicini che urlano, fumano e si scaccolano i piedi sottovento, la cabina diventa un rifugio a cinque stelle, una vera reggia. In effetti, dopo l’impatto iniziale da cella, e dopo aver visto la babele dei piani inferiori, il cubicolo è diventato mostruosamente confortevole. L’importante, però, è chiudersi dentro a tripla mandata. Se fai l’errore di lasciare la porta aperta, senza mandata di chiave, ogni dieci minuti ti ritroverai qualcuno in camera che ha scambiato la tua suite per un bagno o per un deposito di portafogli. Se poi, addirittura, la porta la spalanchi, perché vuoi vedere il fiume mentre stai sdraiato o perché l’aria condizionata è troppo fredda, ogni minuto dovrai scacciare a calci un bambino che vuole farsi una corsetta lì dentro, vedere chi c’è, che cosa fai e perché. La privacy, che cos’è, a che cosa serve. Roba inglese, da froci.
Se ce ne fossimo dimenticati, siamo in Amazzonia, il grande magazzino di Sora Natura. Abbandoniamo dunque, almeno per un po’, le mie nevrosi da isterico terminale, e concentriamoci sulla descrizione di questo museo a cielo aperto. La Cisne Branco procede a velocità da carriola attraverso una foresta grande appena 5,1 milioni di chilometri quadrati, oltre metà degli USA e, più o meno, l’intera Europa occidentale. Corrisponde al 20% dell’acqua dolce e al 67% delle foreste tropicali dell’intero pianeta, almeno per qualche anno ancora, fino a quando gli scellerati governatori locali e i politici di Brasilia non le avranno dato il colpo di grazia. Gli interessi primari ufficiali dichiarati per giustificare il disastro, quelli sbandierati durante i comizi elettorali, sono l’impiego e le infrastrutture (dove l’ho già sentita?), mentre quelli privati, quelli veri, sono i fuoristrada americani e le ville per i vari deputati/dottori/ill.mi pezzi di merda che marciano a bustarelle delle multinazionali straniere. Le oltre trecento specie di mammiferi, cinquecentodiciassette di anfibi, milletrecento di uccelli e millequattrocento di pesci che abitano il ‘polmone verde’ nulla possono di fronte al potere della banconota verde, che affonda i denti sui metalli nobili e sul legname pregiato, valutati rispettivamente 1,6 e 1,7 miliardi di dollari. E sul petrolio. E sulle piante mediche. E su tutto il resto.
Non è che queste cifre, viaggiando a bordo della Cisne Branco, appaiano evidenti, se non quella dei bicchieri di plastica consumati. Però, ad esempio, i botos, i delfini ‘rosa’ che un tempo abbondavano come grilli, ora si contano sulle mani. Ogni tanto una coppia fa il motocross seguendo la barca, ci butta un’occhiata curiosa e si immerge di nuovo, veloce.
“Nonostante siano considerati sacri da parte degli indios, la gente li caccia e se li mangia”, mi spiega Leandro, barbuto e altissimo biologo di São Paulo. A Manaus lavora per il centro di difesa dei lamantini, altro animale in forte rischio di estinzione. Il paulista è uno dei pochi passeggeri con i quali è possibile scambiare un discorso qualsiasi che non verta esclusivamente sulle quotazioni della cachaça e sull’ultimo idolo del brega. Dev’essere un solitario, lo vedo che si trascina qua e là sempre con un’aria sconsolata e taciturna. Sotto una barbaccia da Che Guevara nasconde un viso con lineamenti delicati. Le fanciulle imputtanite della barca se ne sono accorte da subito e gli fanno gli occhi dolci, ma lui le guarda come se fossero trasparenti. Forse un altro separando sulla via di Damasco. Altro dubbio che mi attanaglia (sono un portinaio): come cavolo fa a sistemare quei due metri di carne e ossa in un’amaca standard? Leandro, infatti, alloggia ai piani bassi, in un’amaca rossa incastrata fra un lavandino e la cucina, un paio di persone sotto, centocinquanta attorno, bagagli fornelletti e pannolini e pentolini dappertutto. Lo invidio e lo ammiro, vorrei avere la sua capacità di adattamento.
Oltre che dai delfini rosa, la Cisne Branco è costantemente seguita da una miriade di imbarcazioni grandi come gusci di noce. Si tratta di minuscole piroghe a remi o a motore comandate da bambini. Alcuni, quelli armati di soli remi, aspettano che dalla barca qualcuno butti loro abiti vecchi, scarpe, qualsiasi cosa. Un’usanza diffusa da queste parti, e i ragazzini si scannano fra loro per recuperare anche sono una lattina di Coca vuota, utile come bicchiere o altro in una capanna sperduta nella foresta, lontana decine di chilometri dal primo negozietto. Ancora più intraprendenti, invece, sono i ragazzini motorizzati, solitamente al lavoro in coppia. Come specie di pirati o scippatori, danno il gas a manetta, affiancano la Cisne Branco e uno dei due la arpiona al volo, con una specie di gancio da macellaio legato a una corda. Si fanno trascinare così per un bel tratto, quanto basta per salire a bordo e vendere una bottiglia di Coca-Cola o qualche banana.
Fruttivendoli molto simili li ritroviamo a ogni sosta, più o meno una dozzina nel corso del lungo viaggio. In ogni città in cui ci fermiamo (Santarém, Óbidos, Parintins) veniamo affiancati da venditori di frutta che, a bordo delle loro piroghe, hanno una maestria rara e collaudata nel pelare arance al volo. Coltello da rissa alla mano, sono in grado di pelare un’arancia in dieci secondi netti, fettina più fettina meno. Da vedere sono cinema e teatro messi assieme, se ci provo io come minimo mi amputo un pollice. Altri venditori salgono a bordo, soprattutto a Parintins, dove la Cisne Branco pare una carovana del Far West presa d’assalto dai pellerossa. Al posto di arco e frecce hanno formaggi e fermacapelli, miele e orecchini ispirati al Bumba-meu-boi, la festa india che qui spopola alla fine di giugno. In cambio non vogliono canne tonanti né l’acqua del diavolo, ma reais fruscianti, possibilmente cambi. In Brasile nessuno ha mai il cambio.
Al porto di Santarém, circa a metà strada, il livello dei nostri vicini è molto più chic, almeno cinque stelle lusso. Poco prima di noi ha attraccato un infinito transatlantico da crociera britannico, una specie di Titanic moltiplicato per cento. Una città galleggiante dotata di tutte le più moderne tecnologie e comfort che vomita a terra centinaia di vecchietti obesi in cappello e braghini alla Fantozzi. Sono totalmente persi non appena appoggiano il primo piede a terra, nonostante un esercito di accompagnatori in divisa e cartello li diriga, come si fa con le mandrie di buoi nelle fazendas, verso i centocinquanta bus e taxi che li porteranno in città, per fare il tour mordi-spendi-e-fuggi. Se prima, con le mie puzze sotto il naso, mi sentivo un Byron che legge poesie sugli scogli di Lerici circondato da orde protoumane e rumorose di proletari analfabeti, ora, a confronto con questa visione da primo mondo putrido e gi-ottiano, mi sento un garimpeiro della Serra Pelada, un viaggiatore no limits, un orgoglioso ballerino di brega o, quantomeno, una persona decente.
A ogni sosta del Cisne Branco scende un tot di gente e ne sale il doppio. Lo stesso vale per le merci, e se non affondiamo oggi non affondiamo mai più. Non capisco come il comandante faccia a navigare di notte, tra i bracci stretti non si vede una mazza e si rischia sempre di andare a sbattere da qualche parte. Ma lui, un po’ accendendo per brevi istanti un lampadone piantato sulla prua, un po’ perché deve aver fatto questo giro un miliardo di volte e deve conoscere il percorso come la sua cabina, ci guida senza problemi attraverso le tenebre.
A bordo, dopo le ultime due interminabili soste, non c’è più un centimetro libero, anche solo per camminare. Le amache sono state agganciate dappertutto lungo i due ponti inferiori, qualcuna anche in verticale, e chi alloggia nelle cabine meno lussuose (quelle senza bagni, sul secondo ponte) deve fare i salti mortali per aprire la porta. Nei bagni di fianco al ristorante ci sono file allucinanti e per andare a mangiare bisogna fare lo slalom tra amache, camion di plastica, bottiglie vuote, bagagli, gente che non ha un cazzo da fare, semolini, biberon, una che si fa le unghie dei piedi.
“A bordo è proibito trombare, almeno nelle amache”, mi rivela Kássia, ragazza con cui ho fatto amicizia.
“In che senso, ‘proibito’?”
“So che in passato qualcuno è stato beccato a fare festa, rumorosamente, fra un’amaca e l’altra. Per cui ora vige la regola non scritta di evitare, se possibile.”
Alcuni scendono a Óbidos per il carnevale, altri a Itacoatiara. Questi ultimi (fra cui il silenzioso João, che mi lascia l’intera cabina a disposizione) sono i più frettolosi. Da lì possono proseguire per Manaus in autobus, risparmiando mezza giornata di viaggio, oppure per Boa Vista, capitale dello stato di Roraima.
Poco prima di arrivare a Manaus, parlo con Iracema, la caposala, a pezzi dopo cinque giorni di lavoro infame.
“Come mai marciamo solo a carne? Credevo di dover mangiare pesce anche a colazione, con il caffelatte, e invece...”
“È proibito. Il fatto è che i passeggeri del posto ponte fanno un casino pauroso con il cibo, e il pesce deperisce troppo in fretta. Una questione di igiene. Il viaggio di andata, Belém-Manaus, di solito è tremendo. Imbarchiamo soprattutto gente in fuga dal sertão, che ha fatto la fame e che non ha la minima educazione. Guarda come mangiano...” Iracema mi indica un tipo che ha appoggiato coltello e forchetta su un piatto vuoto, poi lo ha ricoperto con una montagna di riso, seguito da una montagna di fagioli, una montagna di farinha e, ciliegina sulla torta, una montagna di spaghetti buoni per incollare le dentiere. Usando le posate a mo’ di badile ha rimestato il tutto e ci si è avventato sopra come una benna.
“Il viaggio inverso è già meglio, questa gente si è dovuta confrontare con la città, ha migliorato il proprio tenore di vita, ha imparato elementi basici di convivenza. Ha appreso ad alimentarsi meglio e mette meno cibo nel piatto.
Negli anni scorsi c’erano molti più stranieri a bordo, mi ricordo di viaggi con addirittura un’ottantina di gringos nel salone con le amache. Amavano quella che per loro era una specie di avventura esotica, ma che per noi altro non è che adattarsi al proprio portafogli. Tutti, se potessero, butterebbero l’amaca nel fiume e dormirebbero in cabina. La cosa buffa degli stranieri era che tenevano pulito, rimettevano in ordine e non lasciavano una sola cartaccia in giro. Gli altri passeggeri, quelli di produzione nazionale, iniziavano, probabilmente per la prima volta in vita loro, a capire che forse era meglio non sporcare, si sentivano inferiori e li imitavano. Poi non so che cosa sia successo, ma avete cominciato a venire di meno, e il letame ha ricominciato a crescere.
Sai che cosa ho dovuto vedere, ieri, mentre eravamo ormeggiati? - Iracema sembra sull’orlo dell’esplosione - Su, al ponte superiore, c’era una donna che stava facendo cagare il proprio bambino in un bicchiere di plastica. Fare le scale e andare in bagno era troppa fatica, per cui ecco un ennesimo, creativo modo di utilizzare i nostri bicchieri. Finita la funzione, non si è nemmeno presa la briga di alzarsi e fare cinque metri per depositare il bicchiere nel bidone delle immondizie. Ha preferito fiondarlo giù dalla nave, senza neanche guardare. È finito sui piedi di un passeggero di una nave confinante, che l’ha crocefissa con lo sguardo. Io non ce l’ho fatta più, l’ho raggiunta e l’ho presa a male parole, ma questa ha fatto finta di niente, si è alzata e se n’è andata come se nulla fosse. Il tipo, il bersaglio, mi ha guardata come per supplicarmi di controllare che in giro non ci fosse qualche altra catapultamerda che lo avesse preso di mira. Si può lavorare così?”
da Viva Brasil!
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