mercoledì 7 marzo 2012

FILIPPINE - NO MONEY, NO HONEY


Qualche anno fa un aereo della PAL, la Philippines Air Lines, si schiantò su una città delle Filippine, non ricordo quale ma, come direbbero gli americani, non è questo il punto. Se l’aereo fosse precipitato su una città italiana molto probabilmente sarebbe esploso su una pizzeria o su un parcheggio di motorini, mentre nelle Filippine disintegrò un locale-simbolo di quel simpatico paese: un go-go bar, in altre parole uno scannatoio per turisti stranieri e per qualche raro indigeno con i soldi e il concetto della famiglia poco radicato. Un bar fumoso pieno di luci colorate e musicazza assordante nel quale le ‘ballerine’ in bikini e zeppe si avvinghiano pigramente attorno a un tubo metallico di chiara rimembranza fallica, in attesa che l’avventore, dopo cinque o sei birre e un accurato esame della merce esposta, paghi la barfine al\la papa\mama san e ‘liberi’ la ragazza, destinazione camera d’albergo o motel. In fretta, su.
  Qualsiasi paese di piccola\media grandezza della provincia filippina, infatti, non appena assapora una minima crescita del giro di affari, si munisce, oltre che di alberghi e supermercati, anche di luoghi’ di piacere’.
  Nel 1989 trascorsi due mesi e mezzo a Manila e dintorni e, anche se nei settanta e passa giorni colà spesi non piantai le radici esclusivamente nei go-go bar, conservo simpatici ricordi di quella location e dell’atmosfera che aleggiava sul tutto. Ermita e Malate, i due quartieri ‘a luci rosse’ (il secondo, con un nome così, che cos’altro poteva essere), e le loro vie più infuocate, Mabini e M. H. Del Pilar Street, oggi sono stati ‘ripuliti’ da qualche sindaco\militare maniaco dell’ordine, con la conseguente diaspora a trecentosessanta gradi della manovalanza che campava di sentimenti a tassametro: non solo le ragazze, ma anche ruffiani, baristi, buttafuori\dentro, alberghetti a ore, medici specializzati in malattie veneree, tassisti, ecc. Il famoso indotto, insomma.
  In onore ai tempi d’oro del turismo sessuale - nel 1989 a Manila girava la voce che l’unico caso di AIDS di tutto l’arcipelago fosse dovuto a una professionista brasiliana che lavorava con i Berlusca locali; tempi di cieco ottimismo - voglio qui immortalare, se non su dieci tavole di pietra almeno su dieci pagine di chiacchiere, diversi aneddoti succosi (così spero che sembrino anche a voi; per me, senz’altro, lo furono).


  “Che fine avevi fatto, Franco?”
  “Infarto. Ci sono rimasto sotto mentre trombavo. Ho avuto un paio di giorni di convalescenza, ma ora rieccomi in piedi.”
  Franco, in effetti, è bianco come un cadavere e sudaticcio, più del solito. Anche in queste condizioni barcollanti, però, quando lo incontro durante la processione dei flagellanti a San Fernando Pampanga, in occasione delle crocifissioni della Settimana Santa, tiene per mano Teresa, la sua fidanzata filippina ventisettenne. Franco è un mio vicino di camera al Liberty Motel, locale tristemente famoso di Angeles City, città-bordello all’epoca sede di un’enorme base aerea statunitense. Lì uno dei suoi aviatori più depravati stuprò a morte una ragazza dei go-go bar con una bottiglia, infettandola irreversibilmente, nella maledetta stanza diciannove. Ora le ragazze non ci vogliono più mettere piede, tutte le altre vanno bene fuorché quella: si dice che porti male e che il fantasma della fanciulla circoli incazzato tra le pareti.
  Franco è un professore di russo all’Università Cattolica di Milano di oltre sessant’anni, e ogni sei mesi si prende un’aspettativa altrettanto lunga (sei mesi, non sessant’anni) per andare a svernare al tropico e avere rapporti non solo platonici con l’altro sesso.
  “Sono vecchio, con la panza e la pelata, però il circuito occhi-cervello-uccello mi funziona ancora come quando ero un ragazzino. In Italia le donne mi guardano come se fossi trasparente, e se oso fare un complimento le più gentili mi sputano sugli occhiali. Le altre chiamano i carabinieri.”
  Non posso contraddirlo, anche se non è certo l’Amore tanto abusato a San Remo ad animare Teresa. A giudicare dalla quantità di frappè e pranzi e cene che questa consuma, infatti, Franco deve sborsare per il viaggio come se in famiglia fossero in tre. Però, così, e anche se Teresa non è proprio freschissima - dentino d’oro, pelle che ha già visto molte lune e molti clienti -, riesce a regalarsi qualche momento di oblio e piacere. Non gli si può dar troppo torto, non più di tanto. Teresa è maggiorenne e vaccinata, Franco forse farà i conti con la propria coscienza, qua o lassù, prima o poi.




  Altro compagno di investigazioni, questa volta con il cuore più in ordine - anche perché di anni ne ha solo quaranta -, è Kirk, simpaticissimo tassista di Santa Barbara, California. Anche lui in aspettativa. A questo proposito, mi piacerebbe avere tra le mani i dati della Farnesina su quanti italiani vegetino al tropico ‘in aspettativa’, sarebbe davvero illuminante. Come quel romano con i baffi, impiegato a tempo perso in qualche ministero della capitale, che qualche anno fa incontrai a Krabi, in Thailandia. In una capanna sotto una palma e con una spiaggia mozzafiato davanti e, soprattutto, con un’olandese tutta bionda e tutta mozzafiato, con la metà dei suoi anni, sotto lo stesso tetto. Che qualcuno mi dia un’aspettativa, presto. Chiuso l’inciso.
  Kirk, a differenza dei suoi connazionali che si trascinano su e giù per i bar di Angeles City, non è un militare con il culone e il taglio da marine. Indossa ricciolini biondi e un sorriso smagliante, ha una cultura un ziliardo di volte superiore ai John e alle Jane di stanza e sa osservare con sarcastico distacco i suoi compatrioti.
  “Hey, guarda là” - un pomeriggio mi indica una piccola farmacia a due passi dalla base militare.
  Un cinghialone biondo, accompagnato da un commilitone altrettanto sb\tronzo, sta cercando di spiegare alla farmacista inglesepriva che vuole, vorrebbe, dei preservativi. Questa non capisce, lui appoggia la bottiglia di Carlsberg da asporto sul bancone e mette le mani a mezz’aria come se stesse accarezzando la punta di una bomba intelligente, a mo’ di cupola. Poi inizia ad andare su è giù, vorticosamente.
  La donna, finalmente, capisce.
  Kirk è schifato dai rambi locali, ma l’atmosfera mostruosamente kitsch del luogo - negozietti con quadri che ritraggono John Wayne vestito da cowboy e magliette con spiritosissime scritte del tipo It’s cheaper to pay a barfine than alimony (liberamente traducibile con ‘Costa meno pagare una zoccola che gli alimenti’) - lo attrae magicamente, almeno quanto me. Il fascino dell’orrido, a volte, può essere incommensurabile.
  Il suo sport preferito, una specie di sfida con se stesso, è quello di riuscire a raccattare qualche ragazza con la sola seduzione della chiacchiera (zero dollari), forte della sua ‘diversità’ di turista\non militare. In effetti, le donne di Angeles sono abituate ad avere a che fare solo ed esclusivamente con facoceri in divisa e portafogli sbrindellato, per cui tutto ciò che esuli dal déjà vu suscita il loro interesse. A volte qualcuna ci casca, rapita dall’innegabile fascino gatto&volpesco del mio amico.
  “Odio le belle ragazze, le Barbie da copertina. Mi hanno veramente stufato. Al contrario mi fanno impazzire le orientali bruttine, possibilmente piccoline e con gli occhiali.”
  Fino al giorno in cui ho sentito Kirk proclamare questa frase ho insistito con la mia instancabile ricerca della bellezza sui troppo ovvi binari dei canoni classici, tipo modella anoressica con la puzza sotto il naso. Da allora, però, ho iniziato a valutare, con forza sempre crescente, il bello che si nasconde nel chiletto di troppo (finalmente qualcosa da stringere), nella statura da riforma nell’esercito (donna nana...), l’occhiale, l'apparecchio nei denti.
 Richiuso l’inciso.


  Seguendo questo personalissimo manifesto antropologico, l’idolo Kirk è riuscito, in pratica, a rapire con le chiacchiere una mondina di Batad, uno spettacolare villaggio sperduto del nord di Luzon (tutti quelli che sono andati a scuola nelle Filippine, forse unica eccezione le farmaciste di Angeles, parlano un buon inglese sin dall’infanzia). La ragazza, piccolina e di bellezza non immediatamente riconoscibile, non aveva mai messo piede e zappa fuori dalla risaia, ma quel gran genio del mio amico è riuscita a convincerla di seguirlo in quel casino orrendo che è Manila. Il famoso potere della parola, quella che fa separare le acque e attraversare gli oceani a piedi. La stessa che un pomeriggio, dopo una parlantina di almeno un’ora, gli permette di farsi accompagnare gratis in camera da una professionista da catena da montaggio di Angeles. La manovale fa lavoretti sotto la scala che dalla strada porta al piano superiore di un affollato go-go bar. Come campionario, oltre a se stessa, offre una lingua vorticosa che fa saettare, sembra una via di mezzo fra un drago e una medusa, a ogni militare che sale\scende la suddetta scala. Uno su due non riesce a resistere a tale proposta commerciale, e nell’ora trascorsa assieme a noi divagando in pettegolezzi ha chiesto scusa almeno sei volte a Kirk.
  “Vado, faccio veloce e torno, ok?”
  I clienti escono soddisfatti dal sottoscala, cosa che scatena la curiosità di Kirk.
  A volte, però, capita che il mio amico tassista si imbatta in qualche ragazza scarsa in rudimenti inglesi, probabilmente strappata dalle campagne in età scolastica e buttata a lavorare in un go-go bar dalla famiglia, con la connivenza dei papponi. Queste ragazze, solitamente, quando arrivano i clienti recitano tutte il medesimo copione, avvicinandosi e rivolgendo loro domande-tipo, sempre uguali: “What’s your name\Where do you come from\How long in Philippines???”, alle quali qualsiasi risposta va benissimo. Alla ragazza non gliene può importare di meno e prima o poi nel corso della serata, fingendo di essere realmente interessata a conoscere il cliente, le ripete almeno tre o quattro volte, essendosi già stradimenticata di tutto ciò che è stato detto. In questi casi Kirk, non senza una certa arroganza tipicamente americana, ama infierire, sbizzarrendosi con le domande più cretine.
  Do you swallow?
  “Yes, yes, my name is Lina and I’m twenty.”
  Cose così.


  Le parrucchiere, è noto, sono donne democratiche e sportive, che sanno riconoscere i sentimenti ed essere generose con il popolo al momento opportuno. Non ho mai capito perché, deve essere per la noia di otto ore passate a rimestare nella forfora altrui e ad annusare coloranti cancerosi, però uno dei cliché della nostra cultura - emiliana e, più in generale, italiana -, veri come tutti i cliché, è che chi traffica con phon e bigodini, una volta uscito dal salone, ama trafficare con pompe e pompini. È con queste convinzioni che Kirk - un gemellaggio tra Emilia e California? - un pomeriggio mi trascina in un salone di parrucchiere di Angeles. Il posto sembra una via di mezzo tra un alveare e un go-go bar, lo potremmo chiamare zoccoleto senza troppi timori di smentita. Le estetiste ci tempestano di domande e occhi dolci, e Kirk si innamora in mezzo minuto della più giovane e carina. Ha un ciuffo ridicolo a banana sulla fronte e veste pantacalze turchesi attillatissime. Kirk ci mette altro mezzo minuto a convincerla di seguirlo al Liberty Motel - “No, non ti preoccupare, non sto alla diciannove” -, anche perché a quest’ora nel salone di clienti non ce ne sono.
  Rivedo il mio amico nel tardo pomeriggio.
  “Allora com’è andata?”, sono viscidamente curioso.
  “Paz-ze-sco! Come siamo entrati in camera la tipa mi ha detto che voleva il mio fresh milk, la finezza non è per tutti, ma ho comunque apprezzato il messaggio onirico, in quanto mosso da buoni sentimenti. Al mio yes, all you want è corsa alla reception e dopo un paio di minuti è tornata con un secchio pieno di ghiaccio, ma senza bottiglia di champagne. Si è infilata due o tre cubetti in bocca e ha iniziato a tritarli come una schiacciasassi, poi mi ha regalato quello che ha chiamato, te lo giuro schiattassi in questo esatto momento, un Manila on the rocks. Esaltante, sono rimasto muto per la gioia, la novità e il freddo, che sballo... Quando ha finito mi ha chiesto se volevo provare anche il Colgate job, ma ho temuto che il dentifricio mi infiammasse le mucose, per cui ho declinato gentilmente l’offerta. Fuck me, then, mi ha ordinato la tritaghiaccio e, per riconoscenza, ma anche perché ero ancora attizzato da tutta quella fresca scoperta, mi sono fatto sotto. Le ho tolto lentamente le pantacalze ma, quando sono arrivato alle ginocchia, l’Orrore, nel senso più apocalypsenowiano del termine. La ragazza ha qualche malattia orrenda, per cui dalle rotule in giù le gambe sono nere come la pece, fino alle dita dei piedi. Maschera il tutto con dei collant chiari, ma visto da vicino lo spettacolo era così schifoso che tutte le viscere mi sono rientrate nella loro custodia naturale, i peli di sopra e di sotto mi si sono rizzati a istrice e sono retrocesso di almeno mezzo metro dal letto. Come la tipa ha capito che manco morto avrei infilato il mio coso in quel budino nero ha iniziato a strillare, mi ha dato del baclà, frocio che vuole solo essere succhiato, e non se n’è andata finché non le ho allungato, contro i miei più saldi princìpi, cento pesos. Sono rimasto mezz’ora seduto a fumare e a fissare la parete e il mio uccello, imprecando e sperando di non essermi beccato la peste. Però, con il ghiaccio, che artista...”


  Io e Kirk, non sazi dell’hard di Angeles City, ci trasferiamo per un fine settimana a Olongapo, città sede di una gigantesca base della marina statunitense. Dagli aviatori siamo passati ai marinai, l’hard più hard che ci sia. Oggi, dopo che le basi sono state abbandonate dagli americani nel 1992, Olongapo sopravvive grazie alle attività del porto, ma allora... La città era una Angeles moltiplicata per dieci, bar, zoccole e tutto il resto.
  “Per favore, chiedi al tuo amico se vuole che gli faccia un pompino.”
  La richiedente, questa volta senza secchi di ghiaccio tra le mani, è una simpatica figliola che incrociamo all’interno di una jeepney, il taxi collettivo usato nelle Filippine. Il potenziale fornitore sarei io, ma non so per quale imperscrutabile motivo (vergogna? se sì, dove?), la ragazza - short labiali, labbra a canotto e cuffie da walkman sulle orecchie - usa Kirk come intermediario. Non osa farmi la proposta direttamente. Il risultato, comunque, è che sono ancora con i bagagli in mano: prima una camera, una doccia e un pranzo. Poi, eventualmente, bisogna vedere le condizioni, il resto.



  Olongapo sembra uscita da un film, e il suo hard è così hard che né io né Kirk ce la sentiamo di agire da attori. Ci limitiamo a essere spettatori, il set è già così riccamente affollato che il solo fatto di essere lì e di non beccarci lo scolo o una bottigliata sulla nuca da qualche marinaio ubriaco ci basta. In ordine alfabetico, la città è (era) un’accozzaglia di:

animali da go-go bar
butterflies (professioniste free-lance)
cameriere svogliate e maleducate
dementi in libera uscita a bordo di Harley Davidson fosforescenti
elementi da prendere, chiudere in gattabuia e buttare la chiave
figa, di tutte le misure, età, prezzi e profumi
go-go bar
health centres’ (massaggiatoi)
ignoranti di tutte le razze
jeepneys scoreggianti
karateka da marciapiedi del sabato sera
locali di quarta categoria sotto zero
medici specializzati in veneral diseases
negroni musulmani seguaci di Malcom X (nelle ore di libera uscita)
orifizi esplosi con la dinamite
polizia militare con il manganello pronto
qualunquisti
ruffiani
stivali di pitone per texani
tatuatori specializzati in draghi e sirene
ubriachi molesti
venditori ambulanti di magliette e cappellini con scritte da\per soldati americani (tipo I love U no shit, but buy your own fuckin drink)
wanted a go-go dancers (cartelli all’entrata degli scannatoi)
x gente da gasare
yeah! (dappertutto)
zoccolame, vario e assortito

  Reggiamo a tutto ciò meno di ventiquattrore, anche perché la prima e unica notte che vi passiamo, girovagando per le buie viuzze periferiche, un travestito abborda Kirk e con una carezza fulminea gli fotte l’orologio con l’agenda elettronica sulla quale il mio amico aveva annotato tutti gli indirizzi degli ultimi cinque anni. Bestemmia cose americane fino alla porta dell’albergo e il giorno dopo, quando riprendiamo l’autobus per Manila, non ha ancora smesso.




  Postscriptum: dimenticavo qualche slogan da maglietta e\o cappellino; eccolo, per chi volesse approfondire l’argomento (la sintassi è quella che è, ma le frasi sono ricche di colore):
1) Please, Lord, when I die don’t send me to Heaven but send me to the Philippines
2) Fighter by day, lover by night, alcoholic by choice, sailor by mistake
3) I may not go down in history, but I will go down on your little sister
4) It only takes 30 seconds to make a baby, but takes 2 ½ hours to make a woman happy
5) Caution: this hat stops at all bars
6) Member Philippine drinking team
7) Fuck off
8) Who gives a shit?
9) If you’re rich I’m single (riservata alle donne locali)
10) I drink, I get drunk, I fall down, no problem!
11) Russia sucks
12) Hey, Russia, this one’s (dito medio alzato) for you, baby
13) I’m not buying whatever the FUCK you selling! (per tenere lontani i venditori ambulanti)
14) Oral sex is a dark & lonely job, but God damn somebody’s got to do it!
  E poi qualcuno continua a stupirsi se gli arabi invasati vanno a parcheggiare contro i grattacieli?




  Manila, in particolare i quartieri di Ermita e Malate, erano un altro paio di maniche. Meno orientati verso una clientela esclusivamente militare - a parte qualche cartello di welcome sulla porta dei bar ogni volta che la portaerei attraccava in città -, accoglievano gente di tutte le razze e di tutti i gusti, dai fanatici del blowjob (una serie di localini lungo M. H. Del Pilar Street era specializzato nel servire fellatio su misura) ai pedofili (che monopolizzavano uno squisito bar d’angolo, all’aperto), purché portatori sani di valuta frusciante. La prima volta che avevo avuto notizie delle follie erotiche di Manila era stato per voce di Paolo, un amico bolognese.
  “C’è persino un teatrino, scuro e col puzzo di piscio, dove per cinque pesos (un peso all’epoca valeva settanta lire) puoi infilare una bottiglia di Coca-Cola, quelle piccole, su per la gnocca delle ballerine.”
  Con o senza il tappo, era la domanda che mi facevo ogni volta che pensavo a quella performance.
  Quando sbarcai a Manila, ovviamente, fu il primo locale che andai a cercare, ma non riuscii a trovarlo. Non era segnalato sulle guide, nemmeno sull’onnisciente Lonely Planet. Fui bravo, però, nell’essere trovato, uno fra un mazzo di mille occidentali che si trascinavano da quelle parti, da un grassone finto-cileno che voleva derubarmi.
  “Scusa, sai, parlo solo spagnolo e in questo casino di città mi sono perso. Puoi accompagnarmi con il mio taxi, per favore? Devo raggiungere l’indirizzo XZY, ma non riesco a farmi capire dal tassista (un complice losco losco che lo\mi aspettava al volante)...”
  Per un attimo, schiavo della mia innata buona educazione, stavo per salire sulla trappola mortale. Sicuramente, se l’avessi fatto, sarei finito tra i cumuli di pattume di Smokey Mountain, il quartiere periferico sorto su un immondezzaio grande come una città, e non qui a deliziarvi con i miei ricordi. Per fortuna il grillo parlante mi fermò e, un secondo prima di infilare il piede nell’auto, mi vennero in mente impegni precedentemente presi. Disculpa, eh?
  Se le truffe avvenivano alla luce del giorno, era la notte che dava il meglio della città o, almeno, di chi la interpretava in un certo modo. La vita si svolgeva lungo un tratto piuttosto ristretto di M. H. Del Pilar Street, e il gallo che segnalava l’alba lì erano i buttadentro dei go-go bar che dopo l’ora del tè cominciavano a sbattere rumorosamente, con un fragore da grossi petardi, le porte dei localacci ogni volta che un probabile cliente vi passava davanti. Il boato aveva lo scopo di attirare l’attenzione del viandante, troppo distratto dalla baraonda del traffico, dei tubi di scappamento spetazzanti, delle luci intermittenti dei massage parlour e dalle fanciulle all’entrata che elargivano sorrisi da piazzista. L’effetto della porta deflagrante, però, era quello di un colpo al cuore, e in più di un’occasione arrivai a minacciare di morte i buttadentro (tutti il triplo di me, per cui non mi azzardai mai ad alzare un’unghia; ma dentro di me li odiai, oh, come li odiai).
  I go-go bar, in quella zona - ogni anno ce n’era uno più ‘in’ degli altri, che dettava stile e trend -, lavoravano ininterrottamente ventiquattrore al giorno, anche se dopo le due-tre di notte alle ragazze iniziavano a mancare le forze, e le più stanche o ubriache si addormentavano sui banconi o sulle sedie. Tra i locali più memorabili c’era Rosie’s Diner, un mangiatoio all’americana specializzato in ottime cotolette con il purè (in due mesi e mezzo di Filippine non mi avvicinai mai a un puzzoso piatto che fosse uno della cucina locale; il paese, d’altronde, sembrava una succursale degli States anche a tavola, e a me andava benissimo). Lì, dopo la masticazione, l’attività più stimolante era quella di lanciare languidi sguardi alle cameriere, tutte supercarine, tra una forchettata e l’altra. Con una ci uscii pure, ma avviò l’iter classico che certamente avrebbe portato ai confetti e agli inviti per settecento parenti, per cui mi feci rapidamente di nebbia.
  Dopo le cameriere, da Rosie’s l’attenzione veniva calamitata a ruota da un ciccione tedesco, pazzo marcio, che tutti i giorni si sedeva solo ed esclusivamente allo stesso posto (una sedia su duecento). Se era occupata aspettava che si liberasse, altrimenti era disposto a morire di fame. Vestiva sempre la stessa Lacoste blu e, ogni tanto, si portava qualche mercenaria al piano di sopra, dove aveva una camera. La tipa, le voci di corridoio lo confermavano, dopo il lavoro scendeva schifata per il tanfo dello scimmione - la medesima dichiarazione proveniva dalle cameriere che dovevano porgergli i piatti. Tra le altre peculiarità dell’odoroso fuori di testa, oltre a quella ovvia di creare il vuoto nei quattro posti attorno a sé, c’era che a tavola non guardava niente e nessuno, se non le pagine di un libro in giapponese tirato fuori da un sacchetto della spesa che si portava sempre appresso. I tedeschi, la storia ce lo dovrebbe aver insegnato, quando sono fuori fanno le cose sul serio.
  Gemello e vicino di porta del Rosie’s era l’Hula-Hut, di proprietà dello stesso losco israeliano che, ogni tanto, circolava tra i locali fregandosi le mani (i due ristoranti erano sempre strapieni e lui sicuramente girava in Mercedes con i cerchioni d’oro). L’ambiente dell’Hula-Hut era più riservato, nel senso che l’arredamento era quasi tutto in bambù e le luci erano più soffuse, forse un accorgimento per celare i topi che, grandi come barboncini, ogni tanto sgattaiolavano sul tetto del bar. Qualche militare americano o turista australiano ubriaco, di solito i clienti più affezionati, se li avvistava li prendeva a lattinate di birra mezze piene, senza mai affondarli. Il telegiornale trasmesso dalla vicina base militare statunitense completava il quadro.
  Poco più avanti, dalla parte opposta della strada, c’era il Firehouse, un go-go bar goliardicamente travestito da caserma dei pompieri. Lì, tra le note dell’hard rock più inascoltabile, ogni tanto qualche barista suonava fragorosamente la campana dei pompieri per riportare in vita i clienti accasciati sul bancone, cotti dalla birra e dall’ipnotico moto ondulatorio delle ballerine. Queste, infatti, che ballavano per puro pretesto - il vero motivo era esporre la carne da noleggio -, ci mettevano così tanto impegno - l’umpappà con il piedino prima a destra, poi a sinistra - che se non ti facevi quattro righe di coca ti addormentavi in un paio di minuti netti, nonostante i boati della musicazza.
  Il luogo più incantevole di tutti, però, era Raymond’s, un non a torto malfamatissimo fast food di tre piani, con discoteca sul tetto, sempre aperto e frequentato dalle peggiori messaline (memorabili un paio di sordomute e una con l’occhio di vetro), perenni ubriachi, spacciatori di schebu - una specie di velenosissimo crack locale - e giocatori di biliardo professionisti, fintamente inesperti, in attesa del pollo da spennare. Ogni tanto la polizia arrivava e portava via qualcuno, ma, nemmeno in quei frangenti, le sante note di Billy Idol venivano interrotte. I travestiti, che monopilizzavano il marciapiedi prospiciente e facevano lavoretti veloci veloci nei bagni di un ristorante, nel frattempo, fatturavano in valute forti.
  All’epoca le ‘street-walkers’ o ‘pick-up girls’, le lavoratrici indipendenti, costituivano una seria minaccia agli introiti della mafia. Il governo di Corazon Aquino tentò di frenare il fenomeno, in maniera repressiva e senza risultati, sguinzagliando bande di veri e propri sbirri supercorrotti per le strade di Ermita, laidi personaggi in ciabatte ricoperti da anelli d’oro, a caccia di ragazzine. Le malcapitate che venivano pescate - di solito le più povere e meno ‘protette’, riconoscibili dai vestiti di quarta categoria e dalla mancanza di un boyfriend per manina - passavano la notte in gattabuia, dopo ovviamente essere state malmenate. Non potevano lasciare il posto di polizia finché non avessero pagato qualcosa, in natura o in denaro, al capo del distretto: un anello d’oro del fidanzato tedesco o una prestazione speciale andavano entrambi bene.
  Tra queste ragazze circolava uno spettacolare gergo di matrice statunitense, mescolato al tagalog. Esclamazioni del tipo ‘Oh, my God!’, o ‘You broke my condom-heart’, per indicare qualcosa di sorprendente o un fulmineo ‘innamoramento’, erano ripetute spesso e volentieri nel corso di qualsiasi conversazione con il cliente. ‘No money, no honey’ era invece lo slogan utilizzato da quelle che si imbattevano in un cliente particolarmente taccagno, ed ebbe un tale successo che fu esportato perfino in Indonesia (con quel titolo qualche anno fa uno scrittore pubblicò un libro sulla prostituzione indonesiana). ‘Dammi i cinque’ - ‘gimme five’ -, schiaffeggiarsi i palmi aperti delle mani, un gesto palesemente americano per dimostrare la concordanza di idee con qualcun altro, era pure frequente tra colleghe. Anche i comportamenti, i gesti di contorno, non erano da meno. Il biliardo, gioco in cui molto spesso ci si flette sul tavolo, mostrando le proprie doti agli eventuali clienti, era il preferito dalle ragazze, che spesso venivano assunte nei bar come vere e proprie giocatrici, per attirare un maggior numero di avventori. Un’altra caratteristica immancabile era lo stuzzicadenti infilato in bocca, in qualunque occasione, anche durante un’amorevole conversazione con il fidanzato. Ogni ‘intrattenitrice’, inoltre, aveva l’abitudine automatica, quasi meccanica, di tenere per mano, sempre e dovunque, la sua più recente conquista. Per qualche anno, dopo che tornai dalle Filippine, non sono più riuscito a tenere per mano le mie fidanzate.



  Fu in questa squisita cornice che conobbi Jocy, diminutivo di Joceline, una splendida free-lance alla quale lasciai un pezzetto del mio cuore (più una bella serie di biglietti da cento pesos). Spiccava tra le altre ragazze del Firehouse - quelle a terra, in abiti borghesi, non quelle in bikini avvinghiate ai tubi del bancone - per la sua riservatezza e lo sguardo triste. Quasi nobile, oserei direi, se non sapessi di che materia sto parlando.
  La prima volta che la vidi ero secondo in lista d’attesa, prima di me ci aveva appoggiato gli occhi sopra un alcolizzato inglese, messo k.o. in fretta da una birra di troppo. L’approccio funzionò come da copione: sguardi, mi avvicinai, come ti chiami, bevi qualcosa ecc. Il tempo ha annebbiato i dati, ma ricordo che dopo un paio di sere - non subito, sarebbe stata una dichiarazione di palese professionalità - ci fidanzammo.
  Jocy era giovane, ventiquattr’anni come me, ma già reduce da un matrimonio disastroso con un ragazzo svedese. Lui aveva fatto questione di portarla al paesello suo e lei, consapevole che nel mitico Primo Mondo avrebbe potuto avere qualche non identificata possibilità in più, lo seguì. A Stoccoma durò qualche mese, il freddo porco e gli alieni di lassù avevano ben poco a spartire con il suo amore per il sole - non importa se oscurato dai fumi delle jeepneys -, per il tagalog e per l’indomita pigrizia che si portava dentro. Jocy, in effetti, sembrava avere il metabolismo di un bradipo, e per fare cinquanta metri esigeva sempre e solo un taxi.
  La parentesi svedese, dunque, era durata ben poco.
  “Tra me e mio marito era come se ci fosse un muro. Quando non ce l’ho fatta più ho rimpacchettato le valigie e sono tornata a Manila.”
  La lentezza fisica e mentale sembrava averla contagiata anche quando, come si dice nei film e nei libri pornografici, le facevo all’amore\la portavo a letto. Jocy concepiva solo la trombatina del missionario o del fontaniere al sabato sera, rigorosamente al buio. Se osavo accennare a un bacino sotto l’ombelico si irrigidiva e iniziava a urlare, e non per il solletico.
  “Pensa che Cora, una mia amica fidanzata a un italiano, adora farsi baciare la cosa. E a lui piace. Che schifo.”
  Poverina, non sapeva che cosa si perdeva. E, se è per questo, voci di corridoio di go-go bar mi avevano anche sussurrato che la tal Cora fosse una stacanovista dell’amore applicato alle uscite di sicurezza. Avercela, ‘sta Cora.
  L’amore è cieco, è più che noto, e mi innamorai di Jocy anche se al di là di un po’ di sesso da convento e di un triste sorriso tra i suoi labbroni viola superiori (quelli di sotto chi li ha mai visti?) avesse ben poco da offrirmi: i dialoghi erano iperbasici, il muro sembrava averlo eretto anche con me, e come se tutto ciò non bastasse finivo sempre con l’andarla a cercare in qualche go-go bar. Una sera mi portò a ‘casa’ sua, e subito capii perché. Jocy viveva in una catapecchia di lamiera e cartone in cui divideva l’unica stanza con altre tre ragazze, tutte in un metro cubo pieno di vestiti appallottolati e letti a castello. Mi fece un rapido elenco delle sue spese mensili e lì capii che se avessi voluto continuare a frequentarla avrei dovuto aprire il portafogli.
  L’orgoglio, però, mi frenava il più delle volte - se volevo un’amante a timer potevo noleggiarla in qualsiasi bar, sicuramente con migliori risultati materasseschi -, per cui non andavo oltre qualche pranzo e cena offerti qua e là. Non per taccagneria, ma perché il gesto di passarle delle banconote mi sembrava offensivo, nei miei e nei suoi confronti. Non riuscivo a capire perché non si cercasse un lavoro decente, e quando glielo chiesi mi specificò che i salari erano un insulto.
  Una delle poche volte che aprii la cassaforte fu per pagarle un biglietto d’aereo per Boracay, l’idilliaca isola tutta bungalow e sabbia bianchissima dove speravo di trascorrere una deliziosa luna di miele con lei. E farle capire, finalmente, che anche dall’ombelico in giù c’era un intero mondo da scoprire.
  “Ti raggiungo fra due giorni, prima devo sbrigare qualche faccenda. Aspettami, sono già là.”
  La ‘deliziosa luna di miele’ in realtà furono cinque noiosissimi giorni di solitudine schifa, con me ogni giorno più incazzato. La gran vacca si era intascata i soldi del biglietto ed era rimasta a Manila, mentre io vedevo gli altri che si divertivano - orde di israeliani in fattanza da funghi allucinogeni, una spettacolare coppia lesbo olandese\filippina avvinghiata in tanga sulla spiaggia più appartata, gente che si perdeva con il windsurf sulla dirimpettaia isola di Palawan, una brasiliana che giocava a biliardo meglio di Paul Newman.
  Tornai a Manila nero come la pece e ci misi un paio di sere a stanare la mia ‘fidanzata’.
  “Scusa, sai, ma dovevo pagare l’affitto e non avevo un peso. Mi perdoni?”
  Chi non l’avrebbe fatto.
  L’essere diventato la banca e lo zio di Jocy mi fu ancor più evidente, se non c’ero ancora arrivato, la notte in cui, dopo avermi estorto una cena con la seguente sceneggiatura:

Io - “Ti amo.”
Lei - “Sì, okay, però adesso ho fame. Pagami un piatto di chicken wings.

  Jocy, ad ali di pollo ingollate, mi dichiarò che subito dopo, anziché passare la notte con me, avrebbe dovuto incontrare un vecchio (bavoso, questo lo aggiungo io).
  “I vecchi pagano bene e sono veloci. Devo pagare l’affitto.”
  L’alternativa, dunque, era scucire o sapere che sarebbe andata a farsi sbattere da un settantenne con l’alitosi. Feci per aprire il portafogli, ma improvvisamente lo richiusi. Poi mi misi a sedere per un’ora su un muretto, bestemmiando da solo contro i soldi, la terza età, i vecchi che anziché andare in giro a impestare il mondo dovrebbero starsene a casa a godersi i nipoti e la sedia a dondolo, le ali dei polli e la mia eccessiva disposizione a innamorarmi della prima che passa.
  Quella notte, così come quelle successive, presi l’abitudine di andare in giro a schiacciare le brigate di scarafaggi che uscivano a cena dai tombini, sport sicuramente più spassoso del giocare al Romeo nei bordelli camuffati da bar. Con enorme, dolorosa fatica mi tolsi Jocy dalla testa. Ma da allora le ali di pollo non mi sono più andate giù, se posso scelgo sempre le cosce o il petto.


da Cuore matto
http://pietrowrites.blogspot.it/2012/03/cuore-matto.html



2 commenti:

  1. Mi è piaciuta molto.
    Una storia simile alla tua Jocy la sto vivendo adesso e, leggendo 2012, potrebbe perfino essere la stessa persona. Sono appena tornato in Italia lasciando il cuore e lei a Manila, dove conto di tornarci tra 2 mesi circa.
    Ogni giorno che passa sento però i sogni diventare illusioni, e lei sempre più staccata dal contatto e sempre più attaccata al suo ... lavoro.
    Che tristezza

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  2. grazie, Steven. in realtà è una storia del lontano 1989. dunque nulla è cambiato sotto il cielo di Manila... forza e coraggio, altre avventure verranno!

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