giovedì 1 marzo 2012

ARMENIA - IL FUMO DELL'ARARAT


L’industria delle sigarette in Armenia.
Dove tutti, o quasi, fumano.
Benvenuti, o se volete bentornati, negli anni Settanta. Ricordate i bei tempi in cui tutti fumavano di tutto dappertutto? Eccovi catapultati in Armenia, una delle quindici ex repubbliche sovietiche, ‘indipendente’ (sulla carta) dal 1991. Il Paese, in realtà, sembra più dipendente che mai. Se si escludono la produzione agricola (circa metà del PIL) e la pastorizia, il grosso dell’economia armena si regge grazie alla Russia - prima rinnegata, poi riabbracciata - e alle rimesse e donazioni degli armeni espatriati.




Un popolo in fuga, una storia tragica
Diventati cittadini americani, francesi o libanesi, in gran parte esseri geniali che hanno fatto fortuna nei modi più disparati a partire dall’eccidio turco del 1915, quando un milione e mezzo di armeni fu ‘etnicamente ripulito’ da Ataturk e amici, gli oriundi armeni tengono a galla l’economia della repubblica caucasica. Chi riuscì a mettersi in salvo, a fuggire oltre frontiera, si rimboccò le maniche e, in un modo o nell’altro, contribuì a tenere in vita la patria mai dimenticata. Non importa se i turchi, durante la loro capillare opera di redistribuzione geopolitica, si fossero fagocitati pure il sacro monte Ararat, da sempre simbolo dell’”armenità” (sulle sue pendici, si narra, Noè parcheggiò l’arca, dopo le sue infinite peregrinazioni; nulla di più simbolicamente calzante di Noè, per rappresentare il popolo armeno). Non importa se i sovietici, dopo aver trasformato l’Armenia da Paese cristiano più antico del mondo in sgabuzzino per industrie inquinanti (tra cui la grande centrale nucleare di Metsamor), un bel giorno scomparvero dal panorama e il sistema economico crollò, lasciando la gente senza impiego, risorse, alcunché. E non importa se il terribile terremoto di Spitak, nel 1998, rase al suolo buona parte del Paese. Di fronte a ogni tipo di calamità, umana o naturale, gli armeni si sono sempre rialzati. Magari a un’altra latitudine, amalgamandosi ad altre genti, magari pure divenendone ‘eroi’ nazionali (Charles Aznavour e Valérie Vartan in Francia, gli oriundi Cher e André Agassi negli States, esempi fra i tanti). Tutti, prima o poi, hanno fatto ritorno, o reso in qualche modo omaggio, alle pendici dell’Ararat. Anche se la grande montagna, di oltre cinquemila metri, oggi è nel territorio dell’odiata Turchia.




Il Paese, più o meno grande come il Belgio, si dà da fare per ricrescere. Ricominciare in qualche modo. La Grande Madre Russia è sempre sullo sfondo, a influenzare gli stili di vita. I giovani di Yerevan, la capitale, vestono Dolce & Gabbana, magliette taroccate che si possono comprare in ogni mercato e che fanno sentire ‘moderni’. Le spose in abito bianco, se se lo possono permettere, fanno tre giri circolari completi in limousine nella centralissima piazza della Repubblica, con il dovuto abuso di clacson. La città, oltre un milione di abitanti, è tranquilla, ma se si fanno le ore piccole può capitare che in qualche locale si sparacchi un po’: non vi dovete preoccupare (a meno che non vi troviate sulla traiettoria di proiettili), non ce l’hanno con voi. Si tratta di qualche regolamento di conti fra mafiosetti locali (Mosca docet). I nuovi ricchi, pochi, ma ricchi pure di arroganza da ‘chi-si-è-fatto-da-sé’, provano a tagliare le file al check-in in aeroporto o costruiscono ville improbabili. Lustratevi gli occhi ammirando quella di Serghei “il Costruttore”, un amicone del presidente che ha fatto i soldi importando materiale edile e costruendo. Alle porte di Yerevan, l’esteta ha tirato su il Tempio dell’Orrore, una villa tardo impero romano da far impallidire gli architetti più pacchiani di Las Vegas o di Atlantic City. Capitelli dorati, fregi con tutti gli imperatori romani, gazebo e giardini alla Versailles, stucchi a go-go e qualche guardia spaccaossa all’entrata, a giudicare dai nasi appiattiti reclutata in qualche palestra per lottatori o pugili. Dall’altra parte della barricata i più, il popolo, soprattutto nelle campagne, che tira la cinghia. L’agricoltura è generosa, la frutta è spettacolare, ma non si può vivere di sole albicocche. Soprattutto le cittadine un tempio sovietizzate, abbandonate tra fabbriche in disuso ed edilizia deprimente, sopravvivono in attesa di tempi migliori.




Sigarette, per tutti. Regole, poche.
Paese in rinascita, l’Armenia ha tutti i cliché del dopoguerra, della ricostruzione. Crollato il sistema sovietico, di cui non pochi sentono la nostalgia (almeno delle garanzie economiche che offriva), il fai-da-te è divenuto la regola. Le leggi esistono sulla carta, ma in termini di applicazioni alla quotidianità appaiono come solo virtuali. La polizia in giro non si vede, né in città né in campagna. Si dice che a Yerevan si sia trovata tutta, o quasi, senza lavoro dall’alba al tramonto, il bel giorno in cui è (sarebbe) stato introdotto un sistema elettronico di videosorveglianza del traffico. Ma di videocamere, in giro, non se ne vede una. Di conseguenza la gente guida come se la patente l’avesse comprata, e le assicurazioni non esistono. Se fai un incidente te lo paghi, se ti ammali ti devi pagare interamente medicine e ospedale, a meno che tu non sia iperanziano, reduce della Seconda guerra mondiale o del più recente conflitto con gli azeri, per il controllo del Nagorno-Karabakh, una delle ultime tragedie armene che ha seppellito 25.000 persone. Al supermercato la gente, se ti riconosce come straniero, ti taglia la fila, e se ti incavoli ti fa ‘spalluccia’, come a dire, che me ne frega…





Per quanto riguarda il fumo, vige la stessa ‘virtualità’. Nel 2005 è passata la prima legge che proibisce sulla carta il fumo negli ospedali, negli istituti culturali ed educativi e sui mezzi di trasporto. Prima di essere approvata, la legge fu bocciata due volte grazie al voto contrario di parlamentari legati alla locale industria del tabacco. Nella vita reale, alcuni dottori fumano negli ospedali, così come diversi passeggeri nei piccoli autobus che percorrono in lungo e in largo l’Armenia. Nel 2007, però, 45 autisti di autobus sono stati licenziati perché fumavano mentre guidavano. Nei cyber-café della capitale, sempre pieni, si fuma a pieni polmoni, volenti o nolenti. Sul web è proibito navigare nei siti sozzi, ma i posacenere sono stracolmi e in favore di ventilatore. Anche nello scintillante Marriott, cinque stelle dell’omonima catena americana che domina la piazza della Repubblica, c’è chi a colazione si presenta avvolto in una nube di fumo, nonostante gli evidenti divieti. A partire dal 2008 almeno il 30% dei pacchetti di sigarette venduti in Armenia recano le scritte antifumo, e dal 2010 tutta la pubblicità relativa al fumo è stata proibita. Nel frattempo, la Marlboro e la Philip Morris (quest’ultima, con il marchio locale Cigaronne, controlla oltre il 25% del mercato armeno) sponsorizzano eventi per i giovani. Nonostante la vendita di sigarette ai minori sia ufficialmente proibita, gli adolescenti comprano liberamente tutte le sigarette che vogliono e non c’è un uomo armeno che non fumi (forse qualche prete), soprattutto nella capitale. L’Armenia è il sesto Paese al mondo per percentuale di fumatori (64%), dopo Mongolia, Cina, Kenya, Cambogia e Namibia. Nel 2004 il Paese ha importato circa 1,7 miliardi di sigarette, cifra a cui va aggiunta la produzione locale e il contrabbando (circa 850 milioni di sigarette). Nello stesso anno gli armeni hanno speso circa 25 milioni di dollari per acquistare sigarette. Le donne fumatrici si vedono poco o per nulla (l’1,2% della popolazione nel 1999, il 4,3% nel 2005), se non in qualche locale notturno. Le sigarette possono essere comprate una a una. Bancarelle e venditori ambulanti sono dovunque, sempre pronti a cedervi la sigaretta singola, se oggi il vostro portafogli non è pienissimo. Un pacchetto di sigarette costa attorno all’euro, ma in un Paese in cui un salario medio è di una trentina di dollari pochi se lo possono permettere.


La Grand Holding, l’Armenia che emerge
Simbolo delle nuove ricchezze e della nuova imprenditoria armena può essere la Grand Holding, gruppo che, a partire dal tabacco, ha allungato le mani un po’ dappertutto nel piccolo Paese caucasico. Nata nel 1997, sei anni dopo l’indipendenza dalla Russia, la compagnia iniziò la propria attività come joint-venture armeno-canadese, con il nome di Grand Tobacco. La coltivazione del tabacco in Armenia risale al Seicento, ma la produzione su scala industriale (fino a 15.000 tonnellate all’anno) ebbe inizio durante il periodo sovietico, soprattutto nelle regioni nord-orientali. Caduta l’URSS, la produzione crollò, come qualunque altro settore dell’industria. La ripresa fu dovuta a Hrant Vardanyan, fondatore della Grand Tobacco, il quale radunò le migliori fattorie in cui si trovano le piantagioni di tabacco. Investendo nel miglioramento della produzione, in breve le manifatture della Grand Tobacco immisero nel mercato nuovi marchi, presto esportati nei Paesi limitrofi, Russia in primis. Nel 2000 iniziò a operare sul territorio anche la Masis Tobacco M.V., una joint-venture armeno-greca. Inaugurato un moderno stabilimento a Masis, nella provincia, la Masis Tobacco M.V., legata alla British American Tobacco, contribuì alla crescita della produzione e delle esportazioni. A capo di questa compagnia il figlio di Mr. Vardanyan, che presto allargò il campo d’azione anche ad altri settori dell’industria. Oggi, oltre alle sigarette, la Grand Holding spazia dalla produzione di caramelle a quella delle scatole, dalle lampadine alla catena di caffè Ponchikanots. Gli affari, come ben sappiamo, vanno a braccetto con l’informazione e le coscienze pulite, ecco dunque che la Grand Holding ha avviato due canali televisivi (la AR e la Hayreniq TV), sovvenzionato la costruzione della chiesa di San Taddeo a Masis, dato contributi al politecnico statale di Yerevan e mantenuto Grandik, l’elefante dello zoo della capitale, diventato logo della fabbrica di caramelle controllata dal gruppo. La lista delle ‘opere di bene’ potrebbe proseguire, a cominciare dai vitalizi dati agli Eroi del Lavoro Socialista, uno strascico sovietico non ancora tramontato. Mr. Vardanyan, tuttavia, nel 2006 ha minacciato di chiedere le sue due aziende e trasferire il lavoro all’estero (Georgia e Russia), se il dram, la valuta armena, non avesse smesso di valorizzarsi rispetto al dollaro. Interessante, nel panorama del tabacco armeno, è Smocking (sì, avete letto bene), negozio/sala fumatori di proprietà della Grand Holding, al n°48 della centralissima Mashtots Avenue (www.smocking.am). Smocking, inaugurato nel 2006, offre tutti i prodotti derivati dal tabacco reperibili in Armenia: oltre duecento marche di sigarette, pipe, tabacco, accessori. L’ambiente, oltre al negozio, è diviso tra un ‘VIP lounge’, un bar e una sala con un grande umidificatore. Un angolo di fumo raffinato, un’oasi di qualità, a risollevare il livello medio del Far West armeno.

Pubblicato su Smoking







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