sabato 16 febbraio 2013

SOTTO ATTACCO DEGLI HACKER CINESI


Hacker cinesi, vedete di andare un po' affanculo

dalla mia pagina Fèssbokk, bloccata grazie a un report delle formiche censuratrici di Pechino

cari amici, lo sapete, Berlu non è mio fratello gemello, e i paggi della sua corte di zoccole e burattini non il mio circo preferito. Ma non credo che Fèssbokk mi abbia censurato per i miei giornalieri proclami di antiberlusconismo (visto che da Okinawa non posso votare almeno faccio la mia piccola campagnetta – orticello – politica, una valvola che mi riporta il respiro dopo la lettura quotidiana dei titoli della Repubblica). Credo, invece, che la questione sia molto diversa e, se possibile, assai più intrigante. Dai tempi de ‘L’isterico a metano’  (http://pietrowrites.blogspot.it/2012/03/listerico-metano.html) sono un partigiano sfegatato della fantascienza, per me scienza e basta. In altre parole, credo di essere sotto l’attacco degli hacker di Pechino. In passato ho scritto cosucce sul bel Paese della grande muraglia maraglia (questo è bolognese, per chi non lo sapesse) che non sono esattamente un dépliant dell’ente del turismo cino. Per esempio ‘Il Paese gentile’ (http://pietrotimes.blogspot.jp/2011/10/cina-il-paese-gentile.html), oppure una sanguinolenta indagine sulle macellerie di cani e gatti cinesi (‘Cani a merenda’, http://pietrotimes.blogspot.jp/2011/11/cina-cani-merenda.html). Ma i soldati del partito, credo (non ho prove), si devono essere accaniti in particolare contro una mia foto che si trova sul sito di AGE Fotostock (l’agenzia che più vende le mie immagini on-line, http://www.agefotostock.com/age/ingles/isphga01.asp?ph=scozzari&Page=1). Quella foto è l’emblema della Cina di oggi, il paese più capitalcomunista che esista (solo capitalista, in realtà zero comunista). La foto - qui riportata - nella quale gli hacker cini hanno inserito un cancro telematico che ha scatenato il nervo sensibile degli impiegati censori di FB rappresenta la via principale dello shopping di Shangai in cui, tra le vetrine scintillanti, un barbone infila la testa fino al pomo d’Adamo dentro un bidone della spazzatura mentre un passante lo osserva incuriosito. Ieri, in teoria, quella foto doveva essere corredata da una didascalia che riguardava la ‘novità’ europea del momento, il cosiddetto ‘foodsharing’ per aiutarsi nei periodi di crisi. Come ho provato a postarla FB mi ha bloccato. L’imputata è quella foto perché già una settimana fa quella medesima foto mi aveva bloccato (ma allora FB mi aveva permesso di sbloccare la situazione attraverso un codice ottenuto via telefono, cosa impossibile stavolta; il prossimo passo, credo, sarà quello di cancellarmi di tutto dalla loro bella comunità). E sono certo che la rogna sia relativa solo a quella foto, perché tutte le altre foto, provenienti dallo stesso sito, sono state postate senza problemi. Lo so, se le cose stanno davvero così vuol dire che in fondo gli X-files non sono poi così irreali. Me lo conferma anche un aneddoto capitato a una cara amica italiana che ama vivere tra i mangiacani. Tempo fa abitava a Dogcan, una simpatica cittadona della Cina meridionale. Conversando in italiano al cellulare con un amico padano, un giorno gli ha comunicato che le sarebbe piaciuto cambiare appartamento. A telefonata conclusa, dopo qualche minuto le è arrivato il messaggio di un’agenzia immobiliare locale che le proponeva l’occasione della vita. Morale della favola: il Grande Fratello non è solo una puttanata televisiva, attenti a chi vi legge/ascolta. Baci e abbracci. Appena li incontrerò di persona vi saluterò i marziani.

venerdì 1 febbraio 2013

VIETNAM - MERCATI DI TERRA E D'ACQUA


Due i mercati ‘di razza’ del Vietnam, agli estremi opposti. Nel Nord, nella regione di Lao Cai (dieci ore di treno da Hanoi), la domenica mattina il mercato di Bac Ha è una delle attrazioni più interessanti dell'intero Paese. Di solito si raggiunge con escursioni organizzate dalle agenzie turistiche di Sapa (10$, partenza alla mattina presto). Vi giungono a commerciare, acquistare, mangiare, conversare tutte le etnie della zona, a due passi dalla Cina. Abbigliamento etnico fantastico, dalle tinte fluorescenti, ognuno con i propri colori, a seconda che si appartenga agli H’mong, ai Dao o agli Han. La parte più interessante è quella dedicata agli animali, sulla cima della collinetta che domina il vasto mercato. Docili bufali d’acqua, analizzati scrupolosamente dagli acquirenti ed elogiati dai venditori, ma anche molti animali domestici e maialini, tutti purtroppo trattati in condizioni piuttosto pietose. Più in basso la grande zona coperta con i ristorantini, dove per pochi dong si possono consumare piatti caldi a base di noodles, carne e coriandolo, oppure tracannare alcol scioglibudella. Tutto intorno bancarelle di incensi, frutta e verdura, carni e grandi sacchi di tabacco, consumato in loco dagli uomini con lunghe pipe di bambù. Tra barbieri di strada e gelatai ambulanti, inoltre, si trovano utensili, abbigliamento economico made in China, canna da zucchero da pronta masticazione (osservando la notevole attività masticatoria delle etnie capirete il perché di tanti denti d’oro in giovane età) e nón cối (il cappello dei Vietcong e di Ho Chi Min). Il reparto ‘per turisti’ vero e proprio si stende lungo la stradina principale che conduce dal parcheggio al cuore del mercato. Qui abbondano t-shirt, quadri, bigiotteria, statuette, cappelli da mondina vietnamita. Ben più interessante, dalla parte opposta del mercato, il reparto dell’abbigliamento etnico, affollato di donne delle tribù, assatanate di shopping, fino all’ora di pranzo.
















Diametralmente opposto, nella regione del Delta del Mekong, il mercato galleggiante di Cantho (Cai Rang, a 6 km dal centro della città, raggiungibile in moto-taxi). Lontano anni luce dai mercati galleggianti tailandesi per turisti, si tiene tutti in giorni. L’unico fastidio relativo alla condizione di turista è quello di scovare un/a barcaiolo/a a prezzo normale (40.000 dong, circa 1,5 euro per un’ora di remi). Si riesce così a scorrazzare tra imbarcazioni adibite perlopiù al commercio di frutta e verdura. Buona parte di queste issano sul pennone la mono-merce proposta (un ananas, una cipolla, ecc.) e gli acquirenti, avvistato l’oggetto del desiderio, giungono in barca, a remi o a motore. Qualche ristoratrice propone piatti caldi cucinati nella pancia della propria barchetta, mentre alcuni cani che vivono nelle medesime abbaiano agli sconosciuti e ai ficcanaso di passaggio.

Pubblicato su Panorama Travel








GUINEA-BISSAU - IL GOLPE DI SETTEMBRE


Sopravvissuto a circa un miliardo di blocchi stradali, arrivo finalmente nella capitale di questo paese dimenticato da dio. L’autista del mio taxi-brousse, Ronaldo ascella-pesante, mi lascia all’autostazione che si trova davanti al mercato Bandim, il più animato - per usare un eufemismo, in realtà è un vero casino - della città. Disteso lungo l’Avenida de 14 Novembro, il mercato si perde all’orizzonte in un’accozzaglia infinita di tendoni e bancarelle, venditori di reti da letti, piazzisti nigeriani di orripilanti farmaci e amuleti naturali - testine di coccodrillo, corna, pelli di felini -, barbieri. I taxi sono bianchi e azzurri e vengono conservati molto meglio che in Senegal. Alcune Mercedes - ce ne sono a bizzeffe - sembrano appena uscite di fabbrica, tale è la maniacalità con cui i proprietari le conservano. Quella in cui entro profuma di arbe magique, un aroma che mi ero completamente dimenticato viaggiando sui taxi senegalesi, in gran parte semidistrutti e maleodoranti.
L’autista mi deposita alla Pensão Central, una bella casa di legno bianca e verde di due piani. La proprietaria, Dona Berta, è un’anziana portoghese qui da sempre. Minata da un’infezione alle gambe, trascorre le giornate incastrata su una sedia a sbraitare ordini a Jorge, il cameriere tuttofare. Dona Berta, inossidabile ai colpi di stato e ai mille problemi di questo paese in cui ha scelto di vivere, è seguita come un’ombra da un cagnolino con gli occhi di fuori.
La camera che mi dà è enorme, ma nel bagno comune - l’unico di tutta la pensione - si va avanti a secchiate d’acqua, portate a mano in grandi bidoni di plastica dagli sguatteri. La luce, quando c’è - solo durante la cena e per il tempo di lavarsi i denti prima di andare a letto -, è alimentata per pochissime ore da un generatore rumoroso e puzzolente. Per il resto della notte si gira a tentoni, cercando di non sbattere la faccia contro i muri e l’armadio, o con le candele. La Pensão Central, peraltro, è uno dei pochi luoghi benedetti di questa città dotati di generatore: i più, anche all’ora di cena, stanno al buio o marciano a candele e lampade di kerosene.


L’atmosfera di Bissau, me ne sono accorto già durante il breve giro in taxi, è surreale. Regna un silenzio strano, per strada c’è poca gente è il traffico è costituito quasi interamente dai taxi e dai fuoristrada luccicanti di tutti gli enti di cooperazione del creato: ONU, FAO, UNICEF, PAM, COOP, CONAD, ecc. Nelle vie, nonostante io sia visibilmente un turista - elemento più unico che raro -, nessuno mi disturba, nemmeno quando passo davanti alle bancarelle di artigianato senegalese nei pressi del mercato centrale. Al più divento l’oggetto del timido approccio di qualche bambino, in fuga al primo accenno di rifiuto. Mica male, dopo le orde di rompiscatole ossessionanti del paese confinante.
Sono venuto fin qua da Ziguinchor per ficcare il naso. Travestito da turista con il pallino della fotografia, voglio seguire la vicenda delirante di Ansumane Mané, capo di Stato Maggiore ed eroe della guerra di indipendenza dal Portogallo che, qualche giorno fa, ha tentato di prendere il potere con le armi per la terza volta. La prima era stata all’inizio degli anni Ottanta, quando aveva scippato il potere con la forza al presidente di origine capoverdiana Luis Cabral, passandolo nelle mani di João Bernardo ‘Nino’ Vieira. Da quest’ultimo, sempre con le armi, Mané aveva ripreso il testimone con un golpe nel giugno del 1998: domino all’africana, per intenderci. Al secondo putsch seguirono undici mesi di guerra, prima solo nella capitale Bissau, poi anche nelle campagne. Il paese fu messo a ferro e fuoco, e la guerra civile si concluse grazie all’opera di mediazione di diverse organizzazioni dell’area portoghese, in particolare dell’Africa Occidentale.


Musulmano e di etnia mandingo - avversa a quella dei balantes, cui appartiene il presidente Kumba Yala e che controlla i posti chiave dello stato e delle forze armate -, Mané sostiene da sempre la guerriglia indipendentista della vicina Casamance, dove i primi scontri iniziarono nel 1982. Per i ribelli del Sud del Senegal Mané è il leader, il capo carismatico che può aiutarli con le armi e i rifugi oltre frontiera. La parte dell’esercito governativo rimasta leale al presidente, però, ha avuto la meglio e il brigadeiro - così è soprannominato Mané - si è dato alla macchia assieme a qualche fedelissimo. Per questo motivo le strade che portano in Senegal sono pattugliate in maniera ossessiva dai militari e in città regna una quiete da dopo la tempesta.
La mattina seguente provo inutilmente a cercare un quotidiano locale. L’unico simulacro di edicola, nella Praça Che Guevara - che del rivoluzionario cubargentino ha solo il nome, ma nessun busto o effigie che lo ritragga -, ha solo pochi giornali stranieri, ma nulla stampato in loco. Vende copie seminuove del Washington Post, arrivate fin lì chissà come, e diversi giornali portoghesi di società, costume e chiacchiere di portineria: quanto il primo ministro ha buttato nelle roulette dell’Estoril, il bouquet dell’infanta di Spagna, l’ultimo gruppo di fado, una nuova ricetta per il bacalhau.
«I quotidiani locali li vendono gli strilloni, può essere che più tardi arrivi la nuova edizione», mi consiglia l’edicolante. La sua baracchina di legno si trova all’entrata del Casinò Le Galeon, dotato di slot-machine e amenità affini. Mai visto un casinò tanto fuori luogo. Nella piazza si aggirano bambini che provano a vendere arachidi o a lustrare le scarpe ai clienti della Gelateria Baiana, un bar frequentato soprattutto nel tardo pomeriggio dai portoghesi o dal popolo dei fuoristrada, bianchi con camicie stirate e auto air conditioned da nababbi, sponsorizzati dalle nostre tasse e donazioni. Il poco che in città funziona sembra si debba a loro e le magliette delle Nazioni Unite e della FAO, indossate dai bambini quanto dagli adulti, si sprecano. Uno striscione appeso al centro della piazza ricorda che oggi è la giornata mondiale di lotta all’AIDS, malattia in vorticosa ascesa in Guinea-Bissau. Alla base degli edifici uno stuolo di venditori ambulanti fa da tappeto ai marciapiedi. Una roulette e un black-jack, qui, sono in fondo come i fuoristrada impeccabili che sfrecciano in ogni direzione: fantascienza, gocce di primo mondo versate in un minestrone di terzo tendente al quarto. Schiaffi in faccia alla quotidianità dei più.
Rimando l’aggiornamento sui fatti di cronaca al tramonto, quando usciranno i giornali. Per il momento raggiungo l’altra, unica piazza della città, quella dedicata agli Eroi Nazionali. Anche qui la desolazione è struggente, la piazza sembra lo scheletro di una scenografia di un film di Chuck Norris dopo la battaglia finale. Al centro svetta un grande monumento fallico dal forte sapore sovietico, un po’ per le linee della statua che ne segue il profilo, ma soprattutto per la stella che svetta sulla cima. Alle spalle si intravede un edificio fantasma, con il tetto sventrato. Sulla Lonely Planet leggo che è, era il palazzo presidenziale, proibito fotografare. Le voragini nel tetto sanno tanto di bombe e quasi mai do retta alle guide. Estraggo le Nikon, fotografo abbondantemente, nessuno mi dice niente. La devastazione deve risalire alla guerra civile del 1998 e da allora il presidente alloggia altrove.


Continuo il giro turistico, ma c’è ben poco da vedere. La piccola zona portoghese, con case coloniali carine e decadenti nei pressi del porto, è affascinante, ma in un quarto d’ora ho già percorso in lungo e in largo tutte le viuzze. L’atmosfera che colgo - un ‘centro’ che si riconosce a fatica come tale, un silenzio inquietante lungo gli ampi viali, tracce di distruzione e abbandono qua e là, ogni tanto un’auto con la carrozzeria sforacchiata dalle pallottole e ‘tappata’ da una saldatura come una carie -, in generale, mi ricorda Managua o mi fa immaginare come potrebbe essere Luanda.
Rientro per pranzo alla pensione, il cui ristorante è uno dei più economici della città. Bissau è cara, nei minimarket l’uva costa il triplo che in Italia e una camera d’albergo molto semplice non la paghi meno di 25.000 CFA, circa quaranta euro. Dona Berta propone ai suoi ospiti o ai semplici avventori un pranzo in puro stile portoghese - sopa, zuppone con pasta scotta ma delizioso, piatto ‘forte’ e frutta - per 4000 CFA, cifra imbattibile nei pochi ristoranti sparsi per la città.
Su un tavolo, finalmente, trovo una copia del Banobero, un giornale locale, vecchio di diversi giorni. Le sue dodici pagine sono infarcite di articoli improntati al buon senso e al disastro economico/organizzativo che strangola il paese: la mega retata della polizia che ha dato un bel giro di vite ai ladruncoli locali e ha messo tutti calmini; l’arresto di un paio di tipi che si fumavano tranquillamente un cannone a casa loro; la carenza di passaporti da dare ai cittadini; la mancanza cronica di luce e di acqua corrente. Nella copia che ho trovato, però, non si parla ancora degli eventi del tentato golpe, iniziato qualche giorno dopo.
In tutto l’albergo gli unici clienti siamo io e tre portoghesi, riservati e poco socievoli come molti dei loro compatrioti e, in particolar modo, specializzati nell’asserragliarsi nel bagno sempre un secondo prima di me. Ogni volta che mi fregano mi sforzo per farmi venire in mente una fra le tante barzellette sui portuga che ho imparato in Brasile. Me le racconto e rido da solo.
Nel pomeriggio esco di nuovo e mi chiudo a riccio su un computer del centro internet a due passi dalla pensione. Sì, a Bissau non c’è la luce né l’acqua corrente, ma due centri internet lavorano a pieno ritmo con gli studenti che se lo possono permettere e con gli stranieri - diversi portoghesi, qualche brasiliano, sparuti americani, francesi e italiani - degli enti di cooperazione.
All’uscita incappo in uno strillone, è arrivato il giornale fresco. Il Banobero è filogovernativo e in apertura riporta come Mané sia ancora in fuga e nessuno sappia dove sia nascosto. Si presume che abbia trovato rifugio in una zona remota del paese, ma non ci sono prove certe del suo passaggio.


Come cala il buio andare in giro si fa difficile. Per raggiungere i ristoranti bisogna attraversare strade talmente scure che se non hai un radar, un sonar e la topografia della città inseriti nel cervello rischi di finire in una buca. Io ci riesco perfettamente all’entrata del ristorante Tropico, circondato da una specie di fossato medievale - mancano solo i coccodrilli e l’olio bollente -, invisibile ai più. Non mi spacco un femore per puro miracolo e interpreto la caduta come un segnale premonitore: meglio evitare il ristorante, il cibo potrebbe essere cattivo o il conto troppo salato. Torno verso la pensione e passo di fianco a un negozio di elettrodomestici chiuso - la gente fa la fila davanti alle vetrine per vedere la tv, seppur priva di audio -, poi di fronte all’unico cinema della città. Al pomeriggio ha proiettato La maschera di Zorro, stasera alle dieci e mezza è previsto un film porno d’antiquariato, almeno a giudicare dal cartellone.
Preferisco lo zuppone della pensione, è caldo e riempie lo stomaco senza svuotare il portafogli. Dà una sensazione di sicurezza. Poi ho una mezz’oretta di luce in cui battere i portoghesi sul traguardo della sala de banho, tendere la zanzariera e leggere qualcosa. Quando il baccano da trattore del generatore termina la luce se ne va, segnale che non c’è altro da fare se non dormire.
La mattina successiva vado al Banco de Totto, conviene (converrebbe) cambiare i miei soldi in CFA qui piuttosto che in Senegal, il cambio è migliore. Il principale istituto bancario del paese è appena fallito e la BAO, la banca dall’altra parte della strada, è mal vista dai risparmiatori: costituita con dubbi capitali indiani, potrebbe fallire da un giorno all’altro. La Totto avrebbe una bella atmosfera da banchetta di paesino portoghese degli anni Cinquanta, se non fosse che gli impiegati hanno una lentezza indecente e i clienti, sbuffanti come ciminiere, si accumulano in una fila che continua fino in strada. Il cassiere prova a rifilarmi un sacchetto della spesa pieno di mazzette di banconote da 500 CFA, mi servirà uno zaino solo per trasportarle. Mentre sto in fila faccio la conoscenza di un oriundo italiano, qui da vent’anni.
«Quando arrivai con mio padre negli anni Settanta a Bissau non c’era nulla. Pane, benzina, acqua, elettricità mancavano tutti, a turno, per periodi di tre mesi. Oggi la città non è certo diventata New York, ma a confronto di quegli anni... Ieri, però, il console francese mi ha chiesto se da casa mia gli potevo portare qualche catino d’acqua, al consolato non arrivava più.
Questo è un paese con un’attrazione fatale per l’anarchia, non si può contare su un governo. È estremamente facile che domani non ci sia più, e la speranza nel futuro è attorno allo zero. Le aziende che investono in Guinea-Bissau devono essere completamente autosufficienti, altrimenti falliscono sul nascere. Io ho il mio aereo, sennò non saprei come fare. Dopo il colpo di testa di quel pazzo di Mané l’aeroporto, l’unico del paese, è chiuso da una settimana. Riaprirà solo domani e c’è la gente che si pesta i piedi per smammare».
Dopo l’avventura bancaria decido di fare un salto al grande mercato in periferia. La vera città africana è qui: accozzaglia di merci, persone, odori, rumori, colori. Groviglio di taxi e minibus, cani randagi, gente con le maglie delle squadre di calcio francesi e italiane, Milan e Inter in prima linea. Sono l’unico bianco a perdita d’occhio, in giro non si vedono nemmeno i turisex così frequenti in Senegal. Occhi puntati addosso, la vera attrazione sono io. La zona portoghese del porto ora mi sembra parte di un altro stato.
Poco oltre il centro culturale brasiliano - quando ci passo davanti butto un occhio dentro, sperando che una garota de Ipanema mi offra una caipirinha a passo di samba, ma vedo solo facce di studentelli locali, affatto allegre - fuma un cumulo impressionante di immondizie e alcuni bambini e cani le rimescolano in cerca di qualcosa di commestibile. Nel resto della città, però, le immondizie sono meno abbondanti che in Senegal, forse perché ogni tanto c’è un bidone per la raccolta e la gente lo usa, oppure anche perché qui c’è meno da consumare.


Torno in centro, attraversando belle viuzze con villette un po’ decadenti che ieri il buio della notte mi aveva nascosto. Sento vagamente il ricordo del Brasile, potrei essere in un quartiere residenziale di qualche capitale del Nord-est o del Mato Grosso. Il silenzio, però, torna a essere inquietante, per nulla brasiliano. Incontro un altro strillone. L’edizione odierna del giornale fa un riassunto degli eventi del golpe, giorno per giorno, ma di Mané ancora nessuna traccia.
Alla sera, dopo la zuppona e il telegiornale da Lisbona, in tv arriva la notizia shock. Il telegiornale locale comunica che il brigadeiro Ansumane Mané è stato ucciso dalle truppe governative nel pomeriggio in un villaggio della regione nord-orientale. Tra i camerieri, Dona Berta e i pochi clienti della pensione cala un silenzio di ghiaccio. La lettrice, visibilmente emozionata, mentre dà la notizia sembra più paralizzata del fondale pastello che ha alle spalle. Prima di trasmettere le immagini girate sul posto dell’ultima battaglia, però, il tg passa una conferenza stampa data dal presidente della repubblica a una dozzina di giornalisti. Kumba Yala, il presidente, si presenta con la sua consueta ‘uniforme’: giacca, cravatta e cuffia da montagna rossa. Quando la vedo ci metto un po’ a convincermi che quello sia il presidente; poi, quando mi rendo conto che lo è sul serio, trattengo a stento le risate, non vorrei che qualcuno dei presenti si offendesse. Un cameriere mi rivela come il presidente tenga sempre, in qualsiasi circostanza, quel ridicolo cappello sulla testa. Servirebbe, secondo le sue parole, a difenderlo dalla cattiva sorte: sotto, infatti, nasconde un grisgris, un feticcio fatto di corno di capra e altre schifezze, utile a scongiurare gli spiriti maligni. Quando, tempo fa, è andato in visita diplomatica in Senegal, se lo è tolto di fronte a una platea di giornalisti impiccioni che volevano assolutamente sapere il perché di quel buffo copricapo: in quell’occasione svelò il segreto del suo amuleto.
Il monologo del primo cittadino alla tv va avanti per un bel po’. Fra l’imbestialito e il diplomatico, Yala spiega la sua versione dei fatti, giustificando la fine atroce di uno dei ‘pezzi grossi’ dell’esercito in un portoghese incredibile. Poi arrivano le immagini, dure da dimenticare. Tre corpi giacciono sul fondo di un camion militare scoperto e la telecamera indugia su uno in particolare, quello di Mané. Cerco di riconoscerlo dalle foto che ho visto sui giornali, ma il volto è irriconoscibile. Un quarto superiore del cranio è sparito, probabilmente grazie a uno o più colpi di machete. Il resto del viso è una poltiglia di denti, occhi e grumi di sangue, amalgamato in un polpettone di elementi poco distinguibili. I due fedelissimi che lo hanno appoggiato fino all’ultimo non se la sono cavata meglio. Poi la telecamera scende verso il ventre del generale. Si sofferma sulla pancia scoperta a inquadrare i numerosi feticci che teneva avvolti alle anche, una serie di fili colorati e perline che sono serviti a ben poco. La bestialità maggiore, però, traspare dalle grida di euforia degli individui che circondano i cadaveri. Soldati e semplici civili, abitanti del villaggio, urlano e si dimenavano di gioia folle, gridando verso la telecamera e facendo smorfie invasate da manicomio criminale. Roba da accapponare la pelle.
L’inquadratura torna improvvisamente in studio sulla lettrice, la quale viene sorpresa, per una frazione di secondo, mentre si copre gli occhi per non vedere l’orrore. Segue l’incontro stampa dato dalla ministra dell’Interno, che di fronte all’opinione pubblica nazionale e internazionale assicura i diritti legali - processi giusti e avvocati di ufficio a chi non può permettersi liberi professionisti - ai detenuti dell’opposizione.
Chiuso l’argomento, ancora intontito dalla crudezza delle immagini, vado a letto. Il generatore si spegne e mi sto per addormentare, quando in strada inizia il carnevale in chiave postbellica: fuochi d’artificio e colpi di kalašnikov segnano la fine di un incubo. In un primo momento non capisco se i botti siano il segnale di una ripresa dei combattimenti - gli ultimi seguaci di Mané in libertà con qualche arma fra le mani che tentano il tutto per tutto - o l’inizio di una festa. Esco in balcone a vedere e sento di nuovo la pelle d’oca mentre osservo i traccianti rossi e le raffiche che partono da più punti della città. Nel buio i cani abbaiano e i pipistrelli volano come impazziti.

pubblicato su Diario

da Vita da Toubab




COSTA RICA - PASTA AL DENTE


Quando scoprii la spaguetteria Costa del Sol, lungo l’Avenida Central di San José, Costa Rica, ci feci l’abbonamento. Ogni sera mi presentavo per consumare la mia razione quotidiana di penne all’arrabbiata o di tagliatelle al ragù, anche se alloggiavo a qualche chilometro di distanza e fuori infuriava il tifone. Il proprietario, un giovane - ma già più largo che alto - chef di Torino, aveva ben radicato il concetto di pasta al dente, oggigiorno un valore assoluto che le scimmie, là fuori, insistono a non voler imparare. Inoltre, essendo il mio personalissimo moto vitale, il motore di tutte le azioni, l’abusato e ispanico Cama y Mesa (Cama e Mesa in Brasile), i suoi piatti valevano il triplo di quello che costavano, almeno per me.
Ulteriori fattori che mi attiravano come una calamita in quel locale erano, nell’ordine: la moglie (del torinese)/cassiera, una mulatta bella da strapparsi gli occhi e offrirglieli su un piatto fumante di carbonara, se non fosse stato per la stazza del proprietario; il parmigiano (vero), sempre abbondante sugli accoglienti tavoli del locale; l’assoluta mancanza di fighetterie e salamelecchi da ristorante a cinque stelle - tipo cameriere che ossessivamente ti riempie il bicchiere appena ti sei inumidito le labbra -; la simpatia del cuoco, che preparava personalmente i piatti - da cui l’ottima cottura, non delegata a sottoposti indigeni con il palato privo di sensibilità - e che, quando poteva, si sedeva con te (me) a scambiare due chiacchiere.
Il locale aveva una vetrina piccola e sporca di fuliggine, il costante regalo dei ziliardi di autobus che ci passavano davanti ventiquattrore al giorno. Il Costa del Sol, dunque, poteva facilmente passare inosservato ai viandanti; ma, se per sbaglio un giorno ci finivi dentro e assaggiavi un piatto qualsiasi, rischiavi di non uscirne più.
Lo chef aveva abbandonato lo stivale da ragazzino ed era andato a lavorare, con un certo successo, negli USA. Dopo qualche anno, però, si era logorato diversi importanti organi riproduttivi a causa dell’atmosfera violenta che colà regnava, per cui era sceso in America Centrale, da sempre il cortile in cui i gringos fanno i loro porci comodi. Lì aveva incontrato la Madonna color caffelatte e aveva piantato tende e colapasta.
Il suo localino, in breve, si era trasformato in una specie di Little Italy, di porto della disperazione per i vari nostri compatrioti che erano di passaggio in Costa Rica, come me, o che vi risiedevano. Lì incontrai un esemplare appartenente a una via di mezzo tra le due categorie, un cicciardo sulla quarantacinquina di Ravenna che vi stazionava spesso e volentieri.
“Ogni anno vengo a San José, affitto per tre mesi un appartamento e una ventenne. Le uniche vacanze che concepisco sono queste.”
Visto il fisico non gli si poteva dar troppo torto, almeno per quanto riguardava le sue capacità di conquista senza aprire il portafogli.
Il tipo, nonostante la monomaniacalità, era buffo e simpatico, forse per l’abusata affabilità degli emiliano-romagnoli (ma io ne conosco molti tristi e depressi più di un guardiano di faro norvegese). Andava sempre in giro con una maglietta di ultima e un sacchetto della spesa, nel quale conservava le letture per i momenti di noia. Il tragitto appartamento-ristorante, d’altronde, non lo obbligava a una mise più chic.
Non so come, ma finii a parlare del mio lavoro di fotogiornalista con il ravennate. Lui mi disse che era un affezionato lettore di diverse riviste turistico-geografiche, ma mi sottolineò come fosse stanco del coacervo di cazzate e refusi che, qua e là, si stampavano.
“Per me un sacco di quegli articoli vengono scritti dal materasso o dalla vasca da bagno. Chi li scrive non ha mai messo piede nei posti che descrive.”
“Mmmh, è probabile, ma soprattutto per i quotidiani, che ciucciano notizie di agenzia, le shakerano e le rivomitano con una pennellata di vernice fresca. Addirittura c’è chi le confeziona di sana pianta. Pensa che a Milano conosco un’agenzia giornalistica il cui capo si vanta di usare una collaboratrice specializzata nell’inventare interviste mai fatte. Le danno due foto di Fiorello o di Pavarotti e lei ci cuce attorno un’intervista con le contropalle. Quando la leggi ti sembra di essere nel salotto degli intervistati e di sorseggiare il caffè offerto dalle relative concubine.”
“Hai presente la rivista Sabor, quella specializzata sull’America Latina?”
“Sì..., la conosco molto bene.”
“Beh, è fatta bene, ci scrive gente che ne sa, però ogni tanto si leggono certe robe... Tempo fa, ad esempio, ho visto un bel servizio sul Perù di un giornalista bolognese. L’articolo era bello e le foto pure, ma quando il tipo è passato a dare le informazioni pratiche, prezzi di trasporti, ristoranti e alberghi, deve essere impazzito. Dieci dollari al giorno per tutto! Forse cinque anni fa, ma oggi...”
Impallidii e mi azzittii di colpo. Quel tipo ero IO. Per fortuna, quando mi ero seduto a cenare con Ciccio, non gli avevo detto il mio nome o lui non lo aveva memorizzato. Comunque fosse, cambiai al volo argomento: pasta asciutta, cassiera, il cielo blu del Costa Rica, cose così.
Non volli spiegargli, temevo di finire sotto il tavolo per la vergogna, la causa dei miei errori e, più in generale, come funzionassero le collaborazioni alle lerce riviste. Zero garanzie, zero contributi, sei pubblicato solo se quel giorno il Direttore si ricorda chi sei, che cosa vuoi da lui e perché, se ti fai sottopagare e gli offri esattamente il servizio che si è sognato la notte precedente. Con quelle foto, verticali e non orizzontali, su Velvia anziché su Ektachrome, mi raccomando. La vecchia questione del momento giusto al posto giusto, più un’infinita serie di ulteriori optional, gadget, miracoli, amicizie, coincidenze e promozioni degne del migliore rappresentante di salumi o lavandini (le stramaledette PR, miliardi di/in telefonate e fax, ossequi alla sua signora e determinazione da ariete).
Dall’universale al particolare: Sabor, fallita e sepolta, a tutt’oggi mi deve ancora l’equivalente di 3.100.000 lire nette, cioè l’importo di parecchie collaborazioni (tutte), mai pagate. Quando la nave affonda - il direttore si è bruciato i quattro soldi raccolti dagli sponsor per tenere a galla la baracca, e la pubblicità diminuisce di numero in numero - il collaboratore esterno rappresenta, all’atto della spartizione delle macerie, il due di coppe, il ronzino dello scudiero. L’ultimo degli ultimi a ricevere la biada. Mentre scrivi/fotografi non sai MAI quando e se verrai pagato. Nella migliorissima delle ipotesi sessanta giorni dopo la pubblicazione. Ho clienti che pagano dopo anni e cento solleciti con il bazooka, altri che non pagano nemmeno dopo che ho ottenuto una sentenza di condanna (solitamente in contumacia) da un giudice. Per ottenere il maltolto dovrei contattare qualche albanese spaccarotule o investire il triplo del danno in avvocati, con zero garanzie che, una volta sequestrati televisori e computer, i figli di passeggiatrice siano in grado di sborsare. Parmalat e Cirio dei gironi bassi, per intenderci.
La mia collaborazione a Sabor era tutta improntata al futuro: pagheremo, tu intanto emetti le tue noticine che, vedrai, alla fine di questo mese, al massimo i primi giorni del prossimo, riceverai il tuo compenso. ‘Sti cazzi. Mentre scrivevo non ho mai visto una lira di anticipo, al più qualche cd che avevo recensito, un po’ di pacche sulle spalle e la soddisfazione di sapere che qualche peone alla fiera di Bologna si era fregato un poster con una copertina di Sabor fatta con una mia foto. Ma la gloria non era solo nell’alto dei cieli? E quaggiù? Chi paga le bollette?
L’articolo in questione riportava notizie vecchie, di circa cinque anni prima, perché l’immonda amministrazione della rivista non cacciava un quattrino e io, di conseguenza, se proprio vogliamo poco professionalmente, mi ero limitato a riportare notizie vere ma d’archivio, senza aggiornarle. Aggiornarle - collegandomi a internet, andando ad acquistare una guida recente sul Perù, contattando qualche ente del turismo del menga - costava, i telefoni costavano, le guide pure.
Ma non potevo certo spiegare tutto ciò a Ciccio Ravenna, lì per affittare, divertirsi e filosofeggiare a tavola, tra una forchettata e l’altra. Dopo quella sera, però, imparai ben TRE nuove regole vitali:
1)  alla sera bisogna sempre uscire, ogni volta te ne succede una nuova;
2)  d’ora in poi tutto ciò che scriverò sarà aggiornato al decimo di secondo;
3) il mondo è grande come uno sgabuzzino.

pubblicato su Crocevia

da L'importante è muoversi




INDIA - MARUTI ZATRA


Goa, mid-February

Many Zatras are held during this period in Ponda: the Kavlem Zatra at Shantadurga temple, the three days zatra of Shri Mangesh in the lavish temple of that name, and the Manguesh Zatra at Mangueshi Temple.













In the old Fontainhas district of Panjim the Maruti zatra draws huge and colourful crowds at Mahalaxmi Temple. Maruti is another name for Hanuman.