venerdì 1 febbraio 2013

COSTA RICA - PASTA AL DENTE


Quando scoprii la spaguetteria Costa del Sol, lungo l’Avenida Central di San José, Costa Rica, ci feci l’abbonamento. Ogni sera mi presentavo per consumare la mia razione quotidiana di penne all’arrabbiata o di tagliatelle al ragù, anche se alloggiavo a qualche chilometro di distanza e fuori infuriava il tifone. Il proprietario, un giovane - ma già più largo che alto - chef di Torino, aveva ben radicato il concetto di pasta al dente, oggigiorno un valore assoluto che le scimmie, là fuori, insistono a non voler imparare. Inoltre, essendo il mio personalissimo moto vitale, il motore di tutte le azioni, l’abusato e ispanico Cama y Mesa (Cama e Mesa in Brasile), i suoi piatti valevano il triplo di quello che costavano, almeno per me.
Ulteriori fattori che mi attiravano come una calamita in quel locale erano, nell’ordine: la moglie (del torinese)/cassiera, una mulatta bella da strapparsi gli occhi e offrirglieli su un piatto fumante di carbonara, se non fosse stato per la stazza del proprietario; il parmigiano (vero), sempre abbondante sugli accoglienti tavoli del locale; l’assoluta mancanza di fighetterie e salamelecchi da ristorante a cinque stelle - tipo cameriere che ossessivamente ti riempie il bicchiere appena ti sei inumidito le labbra -; la simpatia del cuoco, che preparava personalmente i piatti - da cui l’ottima cottura, non delegata a sottoposti indigeni con il palato privo di sensibilità - e che, quando poteva, si sedeva con te (me) a scambiare due chiacchiere.
Il locale aveva una vetrina piccola e sporca di fuliggine, il costante regalo dei ziliardi di autobus che ci passavano davanti ventiquattrore al giorno. Il Costa del Sol, dunque, poteva facilmente passare inosservato ai viandanti; ma, se per sbaglio un giorno ci finivi dentro e assaggiavi un piatto qualsiasi, rischiavi di non uscirne più.
Lo chef aveva abbandonato lo stivale da ragazzino ed era andato a lavorare, con un certo successo, negli USA. Dopo qualche anno, però, si era logorato diversi importanti organi riproduttivi a causa dell’atmosfera violenta che colà regnava, per cui era sceso in America Centrale, da sempre il cortile in cui i gringos fanno i loro porci comodi. Lì aveva incontrato la Madonna color caffelatte e aveva piantato tende e colapasta.
Il suo localino, in breve, si era trasformato in una specie di Little Italy, di porto della disperazione per i vari nostri compatrioti che erano di passaggio in Costa Rica, come me, o che vi risiedevano. Lì incontrai un esemplare appartenente a una via di mezzo tra le due categorie, un cicciardo sulla quarantacinquina di Ravenna che vi stazionava spesso e volentieri.
“Ogni anno vengo a San José, affitto per tre mesi un appartamento e una ventenne. Le uniche vacanze che concepisco sono queste.”
Visto il fisico non gli si poteva dar troppo torto, almeno per quanto riguardava le sue capacità di conquista senza aprire il portafogli.
Il tipo, nonostante la monomaniacalità, era buffo e simpatico, forse per l’abusata affabilità degli emiliano-romagnoli (ma io ne conosco molti tristi e depressi più di un guardiano di faro norvegese). Andava sempre in giro con una maglietta di ultima e un sacchetto della spesa, nel quale conservava le letture per i momenti di noia. Il tragitto appartamento-ristorante, d’altronde, non lo obbligava a una mise più chic.
Non so come, ma finii a parlare del mio lavoro di fotogiornalista con il ravennate. Lui mi disse che era un affezionato lettore di diverse riviste turistico-geografiche, ma mi sottolineò come fosse stanco del coacervo di cazzate e refusi che, qua e là, si stampavano.
“Per me un sacco di quegli articoli vengono scritti dal materasso o dalla vasca da bagno. Chi li scrive non ha mai messo piede nei posti che descrive.”
“Mmmh, è probabile, ma soprattutto per i quotidiani, che ciucciano notizie di agenzia, le shakerano e le rivomitano con una pennellata di vernice fresca. Addirittura c’è chi le confeziona di sana pianta. Pensa che a Milano conosco un’agenzia giornalistica il cui capo si vanta di usare una collaboratrice specializzata nell’inventare interviste mai fatte. Le danno due foto di Fiorello o di Pavarotti e lei ci cuce attorno un’intervista con le contropalle. Quando la leggi ti sembra di essere nel salotto degli intervistati e di sorseggiare il caffè offerto dalle relative concubine.”
“Hai presente la rivista Sabor, quella specializzata sull’America Latina?”
“Sì..., la conosco molto bene.”
“Beh, è fatta bene, ci scrive gente che ne sa, però ogni tanto si leggono certe robe... Tempo fa, ad esempio, ho visto un bel servizio sul Perù di un giornalista bolognese. L’articolo era bello e le foto pure, ma quando il tipo è passato a dare le informazioni pratiche, prezzi di trasporti, ristoranti e alberghi, deve essere impazzito. Dieci dollari al giorno per tutto! Forse cinque anni fa, ma oggi...”
Impallidii e mi azzittii di colpo. Quel tipo ero IO. Per fortuna, quando mi ero seduto a cenare con Ciccio, non gli avevo detto il mio nome o lui non lo aveva memorizzato. Comunque fosse, cambiai al volo argomento: pasta asciutta, cassiera, il cielo blu del Costa Rica, cose così.
Non volli spiegargli, temevo di finire sotto il tavolo per la vergogna, la causa dei miei errori e, più in generale, come funzionassero le collaborazioni alle lerce riviste. Zero garanzie, zero contributi, sei pubblicato solo se quel giorno il Direttore si ricorda chi sei, che cosa vuoi da lui e perché, se ti fai sottopagare e gli offri esattamente il servizio che si è sognato la notte precedente. Con quelle foto, verticali e non orizzontali, su Velvia anziché su Ektachrome, mi raccomando. La vecchia questione del momento giusto al posto giusto, più un’infinita serie di ulteriori optional, gadget, miracoli, amicizie, coincidenze e promozioni degne del migliore rappresentante di salumi o lavandini (le stramaledette PR, miliardi di/in telefonate e fax, ossequi alla sua signora e determinazione da ariete).
Dall’universale al particolare: Sabor, fallita e sepolta, a tutt’oggi mi deve ancora l’equivalente di 3.100.000 lire nette, cioè l’importo di parecchie collaborazioni (tutte), mai pagate. Quando la nave affonda - il direttore si è bruciato i quattro soldi raccolti dagli sponsor per tenere a galla la baracca, e la pubblicità diminuisce di numero in numero - il collaboratore esterno rappresenta, all’atto della spartizione delle macerie, il due di coppe, il ronzino dello scudiero. L’ultimo degli ultimi a ricevere la biada. Mentre scrivi/fotografi non sai MAI quando e se verrai pagato. Nella migliorissima delle ipotesi sessanta giorni dopo la pubblicazione. Ho clienti che pagano dopo anni e cento solleciti con il bazooka, altri che non pagano nemmeno dopo che ho ottenuto una sentenza di condanna (solitamente in contumacia) da un giudice. Per ottenere il maltolto dovrei contattare qualche albanese spaccarotule o investire il triplo del danno in avvocati, con zero garanzie che, una volta sequestrati televisori e computer, i figli di passeggiatrice siano in grado di sborsare. Parmalat e Cirio dei gironi bassi, per intenderci.
La mia collaborazione a Sabor era tutta improntata al futuro: pagheremo, tu intanto emetti le tue noticine che, vedrai, alla fine di questo mese, al massimo i primi giorni del prossimo, riceverai il tuo compenso. ‘Sti cazzi. Mentre scrivevo non ho mai visto una lira di anticipo, al più qualche cd che avevo recensito, un po’ di pacche sulle spalle e la soddisfazione di sapere che qualche peone alla fiera di Bologna si era fregato un poster con una copertina di Sabor fatta con una mia foto. Ma la gloria non era solo nell’alto dei cieli? E quaggiù? Chi paga le bollette?
L’articolo in questione riportava notizie vecchie, di circa cinque anni prima, perché l’immonda amministrazione della rivista non cacciava un quattrino e io, di conseguenza, se proprio vogliamo poco professionalmente, mi ero limitato a riportare notizie vere ma d’archivio, senza aggiornarle. Aggiornarle - collegandomi a internet, andando ad acquistare una guida recente sul Perù, contattando qualche ente del turismo del menga - costava, i telefoni costavano, le guide pure.
Ma non potevo certo spiegare tutto ciò a Ciccio Ravenna, lì per affittare, divertirsi e filosofeggiare a tavola, tra una forchettata e l’altra. Dopo quella sera, però, imparai ben TRE nuove regole vitali:
1)  alla sera bisogna sempre uscire, ogni volta te ne succede una nuova;
2)  d’ora in poi tutto ciò che scriverò sarà aggiornato al decimo di secondo;
3) il mondo è grande come uno sgabuzzino.

pubblicato su Crocevia

da L'importante è muoversi




Nessun commento:

Posta un commento