Le sculture erotiche di Khajuraho
Khajuraho è una cittadina di circa ventimila abitanti nella regione del Bundelkhand, parte del distretto di Chhatarpur e dello stato del Madhya Pradesh, nel Nord dell’India, circa 620 km a sud di Delhi. Ciò che differenzia questo luogo da molti altri del paese, oltre a un passato glorioso - fu l’antica capitale del clan Rajputi dei Chandela, dominatori dell’India Centrale e discendenti, per loro dichiarazione, dalla Luna -, sono le sue sculture erotiche indù e giainiste, considerate tra le più importanti espressioni dell’arte indo-ariana e, come tali, riconosciute dall’Unesco quali patrimonio dell’umanità dal 1986. Un vero Kamasutra intagliato nella pietra, dotato del potere di lasciare a bocca aperta ogni visitatore. Ai tempi d’oro della dinastia della Luna, tra il 950 e il 1020 d.C., nell’area di Khajuraho, allora nota come Vatsa, si potevano contare ben ottantacinque templi. Dopo il declino dei Chandela nel XIII secolo il sito fu avvolto dalla vegetazione, costituita perlopiù da palme da dattero, da cui deriva il nome attuale della città (khajur significa palma da dattero, in hindi). Oggi rimangono solo una ventina di templi, alcuni dei quali in perfette condizioni di conservazione, raggruppati nella zona occidentale - la più corposa - e in quella orientale dell’abitato, cui va aggiunta una zona minore, quella meridionale. L’area archeologica, in origine circondata da mura con otto porte, ognuna delle quali ‘incorniciata’ da due palme dorate, si stende su un terreno complessivo di circa 21 chilometri quadrati. Khajuraho è situata a una certa distanza dai centri maggiori e furono necessari migliaia di operai per trasportare le grandi quantità di granito e di arenaria gialla, quest’ultima usata soprattutto per le statue. Costruiti inspiegabilmente in questo luogo, i templi dei Chandela rimasero illesi dopo le incursioni dei Moghul musulmani, che conquistarono la città-santuario nel XII sec. Un altro fatto inspiegabile riguarda proprio questa mancata distruzione. Durante la dominazione dell’India, laddove l’Islam si impadronì dei templi indù tutte o quasi le raffigurazioni ‘tabù’ - soprattutto quelle d’ispirazione tantrica - subirono danni parziali o totali. A Khajuraho, invece, nulla è stato distrutto per mano dell’uomo.
Non solo sesso acrobatico
L’erotismo è solo una delle diverse tematiche - senz’altro la più curiosa ed esilarante, vista la fantasia delle posizioni degli amanti - rappresentate nei templi di Khajuraho. Molti altri, infatti, sono gli aspetti della vita quotidiana indiana raffigurati: dagli dèi (sia maschili sia femminili) agli animali (reali, come il cavallo, e fantastici, come il drago e il sardula, metà uomo e metà leone, entrambi ricchi di valenze sessuali), dai musicisti ai guerrieri, dalle processioni religiose alle scene di caccia, dalle donne che scrivono lettere a quelle che cullano i bambini (le sarasundari). Queste ultime, inoltre, sono immortalate mentre danzano, si lavano i capelli, fanno offerte agli dèi, si truccano, si guardano allo specchio, si tolgono una spina conficcata in un piede o giocano con gli animali. Altre figure ricorrenti sono i nayika, gli eroi delle leggende, e le salabhanjika, le ninfe degli alberi che vivono fra i rami, presenti soprattutto all’interno dei templi come cariatidi. Le figure erotiche più comuni, invece, sono le apsara e i mithuna. Le prime, ‘fanciulle (o ninfe) celesti’, sono sempre raffigurate in pose sensuali e languide, apparentemente atteggiate per chi le ammira dal basso. Espongono provocatoriamente le natiche, indossando sari striminziti o impugnando seni prosperosi in bella mostra. Ancora più espliciti sono i mithuna, coppie di amanti, a volte coadiuvati da ulteriori partecipanti orgiastici - se non addirittura da animali come draghi e cavalli - che si contorcono in amplessi molto fantasiosi, spesso affrontando posizioni che vanno oltre l’ABC più classico del Kamasutra. All’uomo e la donna, molto spesso, corrisponde la coppia Shiva-Parvati, creatori della vita, ma anche metafora dell’unione tra cielo e terra, con i rispettivi organi lingam e yoni. Queste immagini, è interessante ricordarlo, destarono meraviglia, scandalo e turbamento nei primi archeologici occidentali dell’era vittoriana, a partire dal capitano T.S. Burt, un ingegnere dell’esercito britannico, che ‘scoprì’ il sito nel 1838.
Posizioni da ginnasti dell’amore
A volte alcune posizioni erotiche rasentano l’assurdo, come quella - la più fotografata di tutte - che ritrae un quartetto dove una figura maschile soddisfa contemporaneamente tre donne. Oltre alla fatica dell’impresa, ardua persino per un ginnasta, è curioso notare come questa immagine non tenga conto della forza di gravità: le collane del partner maschile pendono verso il cielo, ribaltando ogni legge fisica, a meno che lo scultore non abbia voluto rappresentare la scena dall’alto, un po’ come una fotografia scattata dal soffitto verso il pavimento. I templi più interessanti, almeno dal punto di vista delle sculture erotiche, sono quelli del gruppo occidentale. All’esterno del tempio Lakshmana, per esempio, è rappresentata una vera e propria orgia, con tanto di partecipazione equina, mentre alcune donne osservano la scena esterrefatte. Anche su quelli di Kandariya Mahadev - il più imponente del complesso, con ben 646 statue all’esterno e 226 all’interno - e di Devi Jagadamba - a lato del precedente, dove, a detta degli esperti, si trovano i mithuna più sensuali di tutta Khajuraho - le raffigurazioni erotiche non mancano di fantasia. Le interpretazioni date all’erotismo scultoreo di Khajuraho sono innumerevoli, ma la più attendibile sembra quella che attribuisce alle raffigurazioni un carattere iniziatico-esoterico ispirato al tantrismo, dottrina eterodossa del brahmanesimo diffusasi a partire dal V sec. Secondo questo insieme di dottrine, infatti, la soddisfazione degli istinti sessuali offrirebbe all’individuo un mezzo per sconfiggere gli spiriti malvagi e raggiungere la beatitudine e l’illuminazione eterna (ciò che nel buddhismo corrisponde al nirvana). Il tantrismo, successivamente, influenzò anche diversi settori del buddhismo, ma perse rapidamente importanza: alcuni suoi elementi contrari alla morale comune, soprattutto la libertà per le pratiche sessuali, lo fecero decadere in breve. Nella tradizione indiana il rapporto sessuale, parte integrante dell’ascesi, rappresenta la creazione del mondo stesso, mentre il bogha, il piacere fisico, è considerato liberatorio alla stregua dello yoga, come una pratica spirituale. Il cammino verso la salvezza si segue nel contrasto fra il kama, il desiderio, e il tapa, la rinuncia. Ogni dio, poi, è sottoposto a una shakti, un’energia creatrice femminile che lo condiziona e lo spinge ad agire.
Dietro l’orgia, la logica
Le statue erotiche, dunque, avrebbero una funzione molteplice. Stimolerebbero il visitatore alla procreazione, quindi alla rigenerazione del mondo. Rappresenterebbero la fugacità della vita umana, celebrandola al tempo stesso in tutti i suoi aspetti più gioiosi: ecco, dunque, l’accostamento delle scene erotiche a personaggi e situazioni ‘normali’, che esulano dalla sfera sessuale. Metterebbero alla prova l’imperturbabilità dell’asceta, il bramino che per scelta ha rinunciato ai piaceri della carne. E, più in generale, possono essere considerate anche come una spettacolare dedica alle divinità, in parte giainiste, ma soprattutto indù: alla Trimurti (Brahma, Vishnu, Shiva) e ad alcune delle incarnazioni femminili di Devi (Parvati). In realtà le sculture erotiche non sono all’interno dei santuari, né vicine alle raffigurazioni degli dèi, ma decorano solo le pareti esterne dei templi che hanno due cerchia di muri. La struttura architettonica di questi, classica dell’India del Nord nel periodo in cui furono costruiti, spesso era composta da un corpus centrale, circondato da quattro santuari minori agli angoli. Questi ultimi hanno uno sviluppo decisamente verticale, ricco di guglie che riprendono la silhouette dei picchi himalayani. Anche la struttura architettonica dei templi sembra suggerire un’interpretazione: per raggiungere Dio e l’illuminazione bisognerebbe lasciare le proprie pulsioni sessuali, terrene, fuori dal tempio. Un’altra interpretazione, meno accreditata, attribuisce alle statue di Khajuraho una funzione più ristretta: quella di placare l’ira di Indra, il dio della Pioggia. Ricoprendoli con immagini erotiche, gli artisti dell’epoca dei Chandela avrebbero salvato i templi dalla distruzione dei fulmini. Le sculture erotiche, inoltre, sarebbero servite anche come ‘testo di studio’: prima della conquista musulmana, quando molti giovani asceti vivevano in eremitaggio fino all’età adulta, il ‘Kamasutra in pietra’ poteva servire loro per imparare gli usi del mondo, in particolare per quanto riguardava i desideri terreni. C’è chi, infine, ha visto in queste statue una semplice rappresentazione della vita, totalmente libera e priva dei tabù del cattolicesimo o del musulmanesimo. Per gli occidentali, però, può apparire meno comprensibile la partecipazione degli animali, in qualche occasione, agli atti orgiastici. Rifacendosi probabilmente a riti veri e propri, solitamente segreti e nascosti alle grandi masse, questa inclusione ‘zoologica’ si rifà al concetto secondo cui il divino è presente in ogni essere vivente. Nell’animale, dunque, così come nell’uomo.
IL GRUPPO OCCIDENTALE (Western Group)
È il gruppo più massiccio e ricco di templi:
Chaunsat Yogini – l’unico tempio in granito di tutta Khajuraho
Chitragupta – dedicato al dio del Sole, Surya; è orientato verso est, così da accogliere il sole che sorge
Devi Jagdamba – dedicato alla dea Devi, anche se si ritiene che in origine sia stato costruito per Vishnu; conserva alcune delle sculture più raffinate dell’area archeologica e, nella terza fascia, quelle più osé
Kandariya Mahadev – decorato con sculture bellissime, considerate capolavori dell’arte indiana
Lakhsmana – è il più antico e bello di questo gruppo, intitolato al condottiero che lo fece costruire; nella parte che sovrasta l’entrata è raffigurata la Trimurti, assieme a Lakshmi, moglie di Vishnu
Matanageswara – dedicato a Shiva e, come tale, ospita un grande lingam
IL GRUPPO ORIENTALE (Eastern Group)
Adinath – dedicato all’omonimo santo giainista
Brahma – dedicato a Vishnu, è tra i più antichi della zona archeologica
Ghantai – altro tempio giainista, raffigura i sedici sogni della madre di Mahavira e una dea giainista mentre vola sulle ali di Garuda
Hanuman – dedicato al dio-Scimmia indù
Javari – altro tempio minore di questo gruppo
Parsvanath – il più grande del gruppo, ha belle sculture sul muro esterno settentrionale
Vamana – con un’architettura piuttosto semplice, cela una raffigurazione ‘in miniatura’ di Vishnu
IL GRUPPO MERIDIONALE (Southern Group)
Beejamandal – in prossimità del tempio Chattarbhuj, è in cattive condizioni di conservazione
Chattarbhuj – noto anche come tempio Jatkari, è l’unico privo di sculture erotiche; costruito nel 1100, conserva una massiccia raffigurazione di Vishnu Chaturbhuja (a quattro braccia), da cui il nome del tempio
Dulhadev – decorato con raffinate apsara, racchiude un lingam, simbolo di Shiva; è il tempio più ‘esterno’ di Khajuraho, a sud del tempio Ghantai
SUONI E LUCI
Molto popolare, tra i visitatori, è lo spettacolo di suoni e luci nel gruppo occidentale dei templi. Si tengono ogni sera, accompagnati dalla narrazione dell’attore/idolo di Bollywood, Amitabh Bachhan. Vige la doppia tariffa, molto più costosa per gli stranieri. I ristoratori locali, quando passerete nei dintorni del Western Group, vi tireranno per una manica all’interno dei loro locali, giurandovi sulle proprie madri che lo spettacolo si può vedere benissimo dalle terrazze dei loro ristoranti, evitando di pagare il biglietto (basta pagare la cena). Le cose non stanno esattamente così. Dalle terrazze di alcuni ristoranti si vedono scorci di templi e, conseguentemente, solo frammenti dello spettacolo. Meglio, dunque, non confondere la storia fatta spettacolo con i piaceri della tavola…
Con Air India (www.airindia.com) fino a Delhi, e di lì a Khajuraho, collegata anche a Mumbai e Varanasi. La buona compagnia low-cost Jet Airways, inoltre, la collega a Delhi e Varanasi, mentre la più costosa Kingfisher solo a Varanasi. Il visto indiano, se fatto in Italia, dura tre mesi. A Milano si ottiene solo attraverso l’agenzia Indian Visa Outsourcing Centre (via Marostica 34, tel. 02-48701173) e costa 65 euro (50 di visto + 15 di commissione). Se fatto in altri Paesi (Sri Lanka, Tailandia ecc.) per qualche oscuro mistero della burocrazia può durare sei mesi.
ALBERGHI
Hotel Chandela
Distretto Chhatarpur
Tel. (0091) 7686 272355-64
www.tajhotels.com
Parte della buona catena Taj, circondato da bei giardini, offre tutte le comodità dei grandi alberghi. Colazione a buffet, camere a 160 euro (5*).
Hotel Clarks
Distretto Chhatarpur
Tel. (0091) 7686 274038
www.hotelclarks.com
Parte della catena U.P. Hotels Limited, anche questo albergo è circondato da giardini lussureggianti, a 10 minuti dalla zona archeologica. Su una sponda del fiume Khuddar, offre camere confortevoli a 85 euro (4*).
Hotel Usha Bundela
Usha Bundela Temple Road
Tel. (0091) 7686 272386/87
www.ushalexushotels.com
Nel cuore della città, a 2 km dall’aeroporto, il complesso fa parte della catena Usha-Lexus. 66 camere a partire da 65 euro (3*), con una bella piscina. Colazione a buffet.
Hotel Greenwood
Bamhita Marg Airport Road
Tel. (0091) 124 3252035
www.grandkhajuraho.com
A breve distanza dall’aeroporto, su una sponda del fiume Khuddar, ha belle decorazioni con oggetti d’arte locale (si autodefinisce “Art’otel”). 30 stanze a partire da 55 euro (la singola, 3*), ha anche una Spa per massaggi e terapia ayurveda.
RISTORANTI
Blue Sky
Main Road (di fronte al Western Group)
Tel. (0091) 7686 274120
Ottima cucina indiana, con una bella vista panoramica sulla zona archeologica dalla terrazza al primo piano. Ha anche qualche piatto ‘italiano’ e cinese. Su tre piani, per chiamare il cameriere basta suonare la campanella…
Hotel Siddharth
Main Road (di fronte al Western Group)
Tel. (0091) 7686 274627
Cucina indiana, ma il cuoco abusa dell’aglio. I piatti non eccellenti vengono compensati dalla bella vista sulla zona archeologica, soprattutto al tramonto, dai tavoli sul tetto.
Mediterraneo
Jain Temple Road
Tel. (0091) 7686 272246
Ristorante italiano, per chi proprio non ce la può fare con le spezie indiane. Buone pizze e diversi piatti classici della nostra cucina, oltre a qualche piatto greco. Costo un po’ più alto dei colleghi indiani.
PATTI CHIARI AL RISTORANTE
Entrati in un ristorante indiano, il nemico può essere tra noi. Daniya il suo nome più diffuso nel Nord dell’India (Kotmir nel Sud). In italiano coriandolo o ‘prezzemolo cinese’, con effetti sul gusto molto più venefici di quelli dell’omonimo carnevalesco. Curiosità: i coriandoli di carnevale hanno preso nome dai semi della pianta che, ricoperti di zucchero, in antichità erano usati durante la festa. L’erbetta maledetta (o benedetta, a chi piace) ha il potere di devastare qualsiasi altro gusto. Molto usata nelle cucine asiatiche, africane e sudamericane, assomiglia al prezzemolo - è della stessa famiglia - ma ha un sapore completamente diverso. Da noi ha poco successo (ma gli antichi Romani lo sparsero ai quattro angoli dell’impero), se non in qualche raro piatto regionale, perlopiù di pesce o di arrosti. In India, se non lo dite tre volte tre al cameriere prima di essere serviti, potrà rovinarvi il pasto. Annotatevi accuratamente il doppio nome locale di Satana, vi sarà utile.
DOLCETTI LOCALI
Lo stato del Madhya Pradesh in cucina è noto per i suoi dolcetti, molto colorati, friabili, pastosi e zuccherati, in parte vagamente simili alla pasta di mandorle e ideali per accompagnare un buon bicchiere di chai (tè con latte, nella varietà masala, se contenente cardamomo). Tra i dolci da provare i burfi all’anacardo e i jalebi (frittelline a spirale, di solito di colore arancione). In loco c’è anche una varietà speziata di dolci, chiamata namkeen.
Pubblicato su Viaggiando, Playboy
ALTRE FOTO SU
Nessun commento:
Posta un commento