La boxe thailandese
A Bangkok ogni giorno si combatte boxe thailandese o, meglio, Muay Thai, così come la chiamano i patiti di questa disciplina. I luoghi per eccellenza dello sport più duro che esista sono due, nella 'Città degli Angeli': lo stadio Lumphini (il martedì, il venerdì e il sabato), di proprietà della Thai Police Force, e lo stadio Ratchadamnoen (il lunedì, il mercoledì, il giovedì e la domenica), gestito dalla Royal Thai Army. Nella sola capitale esistono oltre 2500 palestre consacrate alla boxe thailandese, mentre nel paese si calcola che vivano almeno 60.000 lottatori professionisti. Chi non ha la possibilità di seguire dal vivo gli incontri non deve fare altro che accendere la televisione (soprattutto sul settimo canale, la domenica pomeriggio), la quale li riprende e li trasmette, in diretta, in differita o in sintesi, praticamente ventiquattrore al giorno. Persino nei taxi i guidatori più fanatici hanno installato un piccolo televisore dal quale conducente e passeggero possono seguire il match, imbottigliati nel traffico infernale.
La Muay Thai fa parte della cultura maschile thailandese. Il sogno più comune di molti bambini o adolescenti è quello di diventare, da grandi, campioni di Thai Boxing. Ed è forse proprio per questo motivo che i combattenti sono quasi sempre reclutati tra le fila dei più giovani, ingaggiati per una miseria a incontro: l’importante è far carriera e diventare famosi. La grande crudeltà di questo sport sta nella totale assenza di limitazioni sulla scelta dei colpi: tutti sono permessi, anche se, in realtà, pochi sono quelli abitualmente utilizzati, in quanto più dolorosi (in quanto inferti con le estremità delle ossa) e apprezzati dal pubblico. Le ginocchiate, le gomitate e le 'spazzate' con i piedi, prime fra tutti - sebbene meno spettacolari di tanti calci presi dal karate -, vengono acclamate e scandite dagli spettatori con grida simili agli 'olé' calcistici, in quanto sono i colpi più debilitanti. Il clinch - la ginocchiata data con un caricamento circolare della gamba, data mentre gli avversari sono avvinghiati tra loro -, in particolare, sembra essere la tecnica più apprezzata (e valorizzata dai punti degli arbitri) in assoluto. Anche i calci volanti portati a segno hanno un grande successo tra il pubblico. Gli allenamenti sono durissimi, fatti in palestre così come in campi all’aperto. Un combattente professionista si allena quotidianamente, alternando ginnastica ad incontri. Quando il maestro ritiene lo pronto per il combattimento gli dà un nuovo nome, solitamente caratterizzato da quello della palestra.
Tre giorni alla settimana, lo stadio Lumphini - il tempio assoluto di questo sport -, verso le diciotto, è gremito di spettatori. I primi a combattere sono i più giovani, ancora - in pratica - dei bambini. L’incontro è costituito da cinque round, della durata di tre minuti ciascuno, con intervalli di due minuti. Le gare si aprono con l’inno nazionale, durante il quale tutti, thailandesi e stranieri, si devono alzare in piedi in segno di rispetto (lo stesso avviene anche prima della proiezione di un film al cinema o di qualsiasi spettacolo pubblico). Poi vengono fatti entrare gli sfidanti, da parti opposte rispetto al ring. Indossano, oltre a un colorato accappatoio di seta che riporta il nome dell’atleta, una fascia sulle braccia (che contiene una piccola immagine del Buddha, e che viene indossata per tutta la durata dell’incontro), ed una sulla testa, a forma di pennacchio: è il mongkon, simbolo di benedizione e protezione divina, e viene tolto dall’allenatore subito prima dell’incontro, dopo aver soffiato sulla testa dell’atleta, in segno di buona sorte.
L’incontro è preceduto da una danza rituale, la ram muay, eseguita contemporaneamente dai due sfidanti nel centro e in ogni angolo del ring, utile a ringraziare il proprio maestro, il 'guru' dell’atleta (khuru), lo spirito guardiano della boxe e il Buddha, supremo arbitro della sfida. Questa danza-preghiera può durare fino a cinque minuti e servire, al tempo stesso, come riscaldamento muscolare. Alcuni combattenti sembrano eccellenti danzatori mentre seguono questo rituale, e chi meglio esprime la propria convinzione nel rappresentare le figure classiche viene inneggiato dal pubblico. Questa danza, purtroppo, è inclusa solo di rado negli incontri che si svolgono in Europa.
La musica di un’orchestrina, situata lungo un lato del ring, scandisce ogni movimento e dà il ritmo per tutta la durata dell’incontro. Dopo lo scambio del saluto tra i concorrenti e le raccomandazioni dell’arbitro contro i colpi proibiti (un po’ come nella boxe occidentale), il match ha inizio e, fin dalle prime battute, il pubblico, come impazzito, inizia a scommettere urlando le puntate a squarciagola. Sono soprattutto gli spettatori più poveri, quelli che assistono l’incontro dalle gradinate - non potendosi permettere i posti più costosi ai piedi del ring -, che scommettono più furiosamente, attirando l’attenzione dei puntatori gesticolando, sbracciandosi, emettendo strani versi di richiamo con la bocca e gridando puntate e quotazioni.
I lottatori più giovani hanno fisici asciutti e sono dotati di una velocità sorprendente. I colpi sono durissimi, soprattutto quando gli sfidanti sono alle prime armi e, dunque, tesi e nervosi. I calci si sprecano nell’aria, solo pochi sono quelli che vanno a segno, così come poco usati e apprezzati sono i pugni (non validi per il punteggio, a meno di un k.o.). Quando i lottatori combattono avvinghiati da troppo tempo senza concludere, l’arbitro li avvicina ulteriormente con le mani, per un breve istante, facendo toccare le teste o i corpi, per poi separarli. Così come nella boxe occidentale, gli arbitri contano i punti, annotandoli su apposite tabelline. Tra un round e quello successivo gli sfidanti vengono massaggiati, lavati, e raffreddati dagli allenatori, mentre prendono fiato seduti su uno sgabello alla cui base giace un grande piatto metallico che raccoglie tutto ciò che cola dai loro corpi: saliva, ghiaccio, sudore e sangue. Il vincitore viene generalmente proclamato senza troppe cerimonie, piuttosto frettolosamente, perché subito dopo tocca ad altri lottatori. Il perdente, in segno di rispetto, va a bere nel bicchiere del vincitore.
I lottatori più giovani hanno fisici asciutti e sono dotati di una velocità sorprendente. I colpi sono durissimi, soprattutto quando gli sfidanti sono alle prime armi e, dunque, tesi e nervosi. I calci si sprecano nell’aria, solo pochi sono quelli che vanno a segno, così come poco usati e apprezzati sono i pugni (non validi per il punteggio, a meno di un k.o.). Quando i lottatori combattono avvinghiati da troppo tempo senza concludere, l’arbitro li avvicina ulteriormente con le mani, per un breve istante, facendo toccare le teste o i corpi, per poi separarli. Così come nella boxe occidentale, gli arbitri contano i punti, annotandoli su apposite tabelline. Tra un round e quello successivo gli sfidanti vengono massaggiati, lavati, e raffreddati dagli allenatori, mentre prendono fiato seduti su uno sgabello alla cui base giace un grande piatto metallico che raccoglie tutto ciò che cola dai loro corpi: saliva, ghiaccio, sudore e sangue. Il vincitore viene generalmente proclamato senza troppe cerimonie, piuttosto frettolosamente, perché subito dopo tocca ad altri lottatori. Il perdente, in segno di rispetto, va a bere nel bicchiere del vincitore.
Il vero spettacolo di un incontro di Muay Thai, però, è dato non tanto dalla lotta vera e propria - monotona, dopo un po’ -, quanto dal pubblico, scalmanato ed eccitato, come impazzito di fronte a tale sfoggio di violenza. Anche molti anziani partecipano alla tifoseria, lasciandosi a volte andare, come tarantolati, a grida e contorcimenti di partecipazione all’entusiasmo dell’incontro. I poliziotti tentano, spesso con scarso successo, di mantenere composti gli scalmanati che, a volte, danno più spettacolo degli sfidanti stessi. Gli unici a starsene seduti sono i freddi ed educati turisti, i soli ad aver pagato una somma elevata per un posto ai piedi del ring. Solo alle personalità locali, come il capo della polizia, tali posti vengono riservati, ovviamente gratis. La televisione riprende l’incontro, ma ai privati è proibito fare altrettanto, se non con la macchina fotografica: telecamere e registratori sono vietati - in quanto potrebbero immortalare la musica dell’orchestrina, considerata sacra -, oppure permessi dietro un forte pagamento dei diritti di ripresa (in fondo, dunque, è solo una questione economica, per nulla spirituale).
Tra il pubblico circolano decine di venditori ambulanti, anch’essi lottatori negli altri giorni o ritiratisi dall’attività (raramente si combatte oltre i 25-26 anni), che rifilano grandi quantità di boccette di vitamine agli spettatori: l’euforia del combattimento è contagiosa e ognuno, nel corso della gara, si sente di essere un lottatore di Muay Thai. Se un turista viene contagiato da tale esaltazione (nel tifo, nei movimenti o nelle grida), immediatamente qualcuno tra gli spettatori locali gli domanda se anche lui è un thai-boxer. Molti, infatti, sono gli stranieri, soprattutto statunitensi ed europei, che seguono con entusiasmo questa disciplina, venendo a vivere e combattere in Thailandia. La boxe thailandese è sempre più diffusa anche in Europa. È piuttosto in voga in Inghilterra - soprattutto a Liverpool, dove però gomitate e ginocchiate sono proibite -, così come in Francia e in Olanda, dove, invece, tutti i colpi sono consentiti, come secondo la disciplina originaria. Anche in Germania, USA, Hong Kong, Corea, Giappone, Cina, Taiwan e Singapore la Muay Thai è praticata da un buon numero di atleti, seppure con lievi differenze che variano da luogo a luogo. In Italia sta avendo un grande successo in questi ultimissimi anni: nuove palestre dedicate a questa disciplina nascono in continuazione, e i calendari delle gare, quasi dovunque nel nostro territorio, sono sempre più fitti.
Tra il pubblico circolano decine di venditori ambulanti, anch’essi lottatori negli altri giorni o ritiratisi dall’attività (raramente si combatte oltre i 25-26 anni), che rifilano grandi quantità di boccette di vitamine agli spettatori: l’euforia del combattimento è contagiosa e ognuno, nel corso della gara, si sente di essere un lottatore di Muay Thai. Se un turista viene contagiato da tale esaltazione (nel tifo, nei movimenti o nelle grida), immediatamente qualcuno tra gli spettatori locali gli domanda se anche lui è un thai-boxer. Molti, infatti, sono gli stranieri, soprattutto statunitensi ed europei, che seguono con entusiasmo questa disciplina, venendo a vivere e combattere in Thailandia. La boxe thailandese è sempre più diffusa anche in Europa. È piuttosto in voga in Inghilterra - soprattutto a Liverpool, dove però gomitate e ginocchiate sono proibite -, così come in Francia e in Olanda, dove, invece, tutti i colpi sono consentiti, come secondo la disciplina originaria. Anche in Germania, USA, Hong Kong, Corea, Giappone, Cina, Taiwan e Singapore la Muay Thai è praticata da un buon numero di atleti, seppure con lievi differenze che variano da luogo a luogo. In Italia sta avendo un grande successo in questi ultimissimi anni: nuove palestre dedicate a questa disciplina nascono in continuazione, e i calendari delle gare, quasi dovunque nel nostro territorio, sono sempre più fitti.
Un po’ di storia
La storia della Muay Thai affonda le proprie radici nell’antico Regno del Siam (XIV secolo), quando questa disciplina era una vera e propria tecnica di guerra, trasformatasi nel tempo in sport nazionale. Le prime testimonianze giungono da antichi racconti birmani riguardanti gli eterni conflitti con i vicini Siamesi, nel XV e XVI secolo. La primissima traccia di questa lotta, però, risale al 1411 d.C., quando viene menzionato un feroce stile di combattimento senza uso di armi, fondamentale nella storia dei re siamesi di quel periodo. Una seconda testimonianza narra delle vicende di Nai Khanom Tom, un imbattibile combattente siamese, maestro nell’arte della boxe, che si guadagnò la propria libertà - dopo essere stato imprigionato dai birmani - battendone un’intera dozzina, presso la corte nemica.
Successivamente, fu il re Naresuan il Grande (1555-1605), ritenuto egli stesso un abile lottatore, ad introdurre obbligatoriamente la Muay Thai nel corso di addestramento militare dei soldati siamesi.
Re Phra Chao Seua - il cosiddetto “Re Tigre” - incentivò la diffusione di questa disciplina come attività sportiva, indicendo le prime gare a premi agli inizi del XVIII secolo. In quel periodo gli incontri erano assai cruenti e si narra che il re stesso, camuffato da anonimo lottatore, vi partecipasse.
La violenza dei combattimenti, tuttavia, raggiunse un livello così elevato da imporre negli anni Venti di questo secolo una regolamentazione che ne limitasse tempi, accessori e abbigliamento: sino ad allora i lottatori avevano le mani ricoperte da guantoni di cuoio di cavallo (per ottenere il massimo impatto con il minimo danno alle nocche), di cotone imbevuto nella colla (per indurirlo), o di canapa, i quali spesso provocavano la morte dell’avversario. Negli anni Trenta, quindi, venne introdotta una vera e propria serie di regole, basata sulle convenzioni internazionali di Queensberry. Gli atleti furono divisi in sedici categorie per peso, i piedi vennero fasciati (proibendo l’uso delle scarpe), e fu reso obbligatorio l’utilizzo di guantoni internazionalmente approvati. Anche il campo di combattimento, fino ad allora costituito da un semplice circolo dai limiti scarsamente definiti, venne confinato in un ring di 7,3 metri quadrati, con cordoni e angoli ricoperti da protezioni. Tutte queste regole, oltre ad offrire una maggiore sicurezza agli atleti, contribuirono alla diffusione della Muay Thai anche all’estero e a renderla una tra le arti marziali più spettacolari.
Pubblicato su Frigidaire
La violenza dei combattimenti, tuttavia, raggiunse un livello così elevato da imporre negli anni Venti di questo secolo una regolamentazione che ne limitasse tempi, accessori e abbigliamento: sino ad allora i lottatori avevano le mani ricoperte da guantoni di cuoio di cavallo (per ottenere il massimo impatto con il minimo danno alle nocche), di cotone imbevuto nella colla (per indurirlo), o di canapa, i quali spesso provocavano la morte dell’avversario. Negli anni Trenta, quindi, venne introdotta una vera e propria serie di regole, basata sulle convenzioni internazionali di Queensberry. Gli atleti furono divisi in sedici categorie per peso, i piedi vennero fasciati (proibendo l’uso delle scarpe), e fu reso obbligatorio l’utilizzo di guantoni internazionalmente approvati. Anche il campo di combattimento, fino ad allora costituito da un semplice circolo dai limiti scarsamente definiti, venne confinato in un ring di 7,3 metri quadrati, con cordoni e angoli ricoperti da protezioni. Tutte queste regole, oltre ad offrire una maggiore sicurezza agli atleti, contribuirono alla diffusione della Muay Thai anche all’estero e a renderla una tra le arti marziali più spettacolari.
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