Orrori e strafalcioni della lingua italiana, in giro per il mondo
Occhi e orecchie pronti, Signori e Signore? Sedetevi, accomodatevi sul divano, tenetevi stretti. Letterati e linguisti, prendete un calmante. Il viaggio attraverso il massacro della nostra lingua sta per iniziare. Il dizionario non vi servirà. Tanto, nel mondo là fuori, nessuno lo usa.
Made in Italy, il veicolo della piaga
Le nostre sono lacrime di coccodrillo. Come un untore di manzoniana memoria, il Grande Virus, il bacillo infettante aerobico, ce lo siamo costruito con le nostre stesse manine. Applaudiamo le vittorie della Ferrari, esportiamo con orgoglio e foraggiamo i grandi stilisti della moda, facciamo di tutto per registrare il marchio DOC dei nostri prodotti culinari? Non lamentiamoci, dunque, se il resto del pianeta ci scimmiotta. Se ci tarocca l’anima, per non parlare delle grammatica. Mio nonno, negli ultimi anni di vita, faceva questione d’onore quella di usare l’essi, alla D’Alema, al posto del dilagante loro. “Essi hanno già mangiato?”, mi chiedeva per sapere se avevo dato lo sbobbone di riso e carne ai cani, verso l’ora di pranzo. Non so, mi suonava e continua a suonarmi strano. “La lingua cambia, nonno. Si muove e cambia pelle, come una biscia. Non rimane sempre uguale a se stessa”, era la mia replica da saputello che faceva immancabilmente scatenare discussioni linguistiche, etiche, culturali, zoologiche. Si rischiava di scomodare la bandiera, in tali annodate circostanze. Il gap generazionale, come direbbe qualche giornalista contadino tutto sinergie e trend, si faceva sentire. La mia istruzione tardosessantottina era altra cosa dalla sua, inculcata a base di fasci, d’annunzi e righelli sbattuti sulle mani degli scolari più asini. Le sue basi erano state costruite sugli essi, le mie sulle assemblee di classe, dove per forza di cose - seppure si svolgessero tra muri ipoteticamente dedicati all’istruzione - la correttezza grammaticale era un futile accessorio (più fondamentale il mazzo di carte per farsi un tressette nei bagni del liceo). Seppellito l’amato nonno è stata seppellita pure la lingua di Dante? Ho come l’impressione che sia andata così.
Vagando per il mondo nell’ultimo ventennio sono stato testimone di un’escalation dell’Orrore, come avrebbe detto il colonnello Kurtz, cresciuta di pari passo al diffondersi del Made in Italy. I menù dell’universo, dai ristorantini per fricchettoni sul lago Atitlán in Guatemala a quelli che se la tirano, per l’élite con i soldi di Bangkok o São Paulo, mangiatoie a cinque stelle e cinque zeri (e spesso cinque in pagella, in quanto a contenuti dei piatti), sono il Grande Libro della Bestemmia che circola impunito nei quattro angoli del globo. Ormai tutti mangiano italiano, per cui i menù si sono dovuti adattare. Lasciando, però, troppo spesso, la grammatica in cantina. Si è quasi offeso, tempo fa, un caro amico indiano con un ristorantino a Goa, il giorno in cui mi è capitato il suo menù con pagine e pagine di roba italiota. Nonostante l’educazione dalle orsoline, dopo un po’ non ce l’ho più fatta, e sono finito a rotolarmi dalle risa sotto il tavolo. Sembrava che qualcuno scientificamente si fosse messo a massacrare, sillaba per sillaba, tutto ciò che vi era riportato. “Chi lo ha scritto, Sanjay?”, gli ho domandato tra un singhiozzo e una lacrima da crisi isterica di riso. “Ganesh, il mio cuoco di Katmandu”. Eppure, anni prima, sbafavo ottime tagliatelle quotidiane al La Dolce Vita della capitale nepalese. Evidentemente Ganesh non aveva lavorato al La Dolce Vita.
Sia come sia, non di sola grammatica i nostri piatti vengono maltrattati. Una sera, diversi anni fa, alcuni amici mi portarono in un ristorante italiano sciccoso di São Paulo. Volevano fare bella figura e, in qualche modo, farmi sentire a casa. Camerieri con la puzza sotto il naso, di quelli che ti versano liquami nel bicchiere non appena ne bevi un millilitro. Scorrendo il menù, gli occhi mi vennero presi a schiaffi su due voci che osai ritenere strane: Espagueti ao ragù e Espagueti à Bolonhesa. Dopo aver mangiato per un trentennio buono il ragù buonissimo di nonna bolognesissima, mi si era improvvisamente offuscato l’intelletto. Ma come, non sono la stessa cosa?, mi domandai retoricamente, consapevole della bestemmia interna (entro i confini italici) di come già fuori le antiche porte di Bologna il ragù prenda il nome di ‘sugo alla bolognese’ (li mortacci loro). Osai esprimere il mio dubbio al cameriere, che senz’altro mi prese per un cliente puntiglioso e rompiculhões. Dall’alto al basso, mi rispose schifato: “a Bolonhesa è un sugo di carne, mentre ragù, óbvio, è con i funghi”. L’ignorante non ce lo mise, a fine didascalia, ma era incluso nel conto.
Detto ciò, per carità, non prendetemi per uno snob che non si rende conto di quanto noi massacriamo le lingue altrui. Mai dimenticherò, ad esempio, un italiano che, entrato in un bar del Morro de São Paulo (Bahia, Brasile), ordinò alla cameriera, con la massima disinvoltura, un suco de manteiga (succo di burro). In realtà ne voleva uno di papaya (mamão), entrambi iniziavano con ma, dunque... Gli occhi e il cervello della cameriera, per qualche secondo, mi sembrò che andassero in corto circuito, e lo schifo provocatomi solo dall’idea di un succo di burro bloccò immediatamente il flusso del liquido della mia cannuccia.
Incontri in autobus
Tema (da me) scritto l’8 ottobre 1975
Pochi giorni fa tornando dal centro, ho incontrato in autobus tre miei compagni di scuola: Stefano Simoni, Alberto Testoni, Alessandro Zanetti. Per un po’ abbiamo parlato delle cose che abbiamo fatto durante le vacanze. In autobus appena arrivato avevo scambiato Alessandro Zanetti per la sorella di Simoni. Quando gliel’ho detto s’è arrabbiato (aveva ragione). Dopo abbiamo ripreso a chiacchierare. Poco dopo Simoni è sceso. Dopo ho fatto vedere dei giornalini a Sandro e mi ha detto che Simoni ne aveva tanti. Poco dopo è sceso Alessandro Zanetti. Dopo però ho dovuto salutare anche Alberto perché siamo scesi alla stessa fermata. È la prima volta che incontro tanti amici assieme in autobus.
(giudizio dato dalla maestra: Suff.)
Accettato, in qualche modo, che tutti là fuori hanno il diritto di massacrare la nostra cucina come gli pare (i clienti di Sanjay sono perlopiù russi, e questo vi dovrebbe bastare), torniamo al Made in Italy, vetrina scintillante del nostro essere italiani. Anche qui non dovremmo avere la presunzione di sentirci gli unici a essere linguisticamente stuprati. Anche solo per una questione statistica, l’inglese è la lingua che più sanguina e lacrima. I miei occhi, per esempio, non sono mai stati abbandonati dalla visione di una maglietta che un bambino portava su un autobus senegalese, dov’era ritratto Ronaldo pre-ingrasso con la divisa della seleção e la scritta INTERMILAN - Foodboll Legend (nel foodboll un segnale preveggente del suo aumento di stazza?). Oppure l’insegna fantascientifica di un negozio di scarpe a Goiânia, Brasile: Foot shoes. Scarpe per i piedi. L’elenco potrebbe andare avanti a oltranza, ma è meglio se mi fermo e torno ai cosiddetti stilisti. Armani, Versace, Dolce e Gabbana, tutti meravigliosamente taroccati sulle bancarelle di Erevan, in Armenia, così come su quelle di Manila. Il prezzo del successo globale si paga anche in termini di scopiazzatura da due soldi, in fondo pure questa un lucroso passaparola (quando e se il poveraccio con ambizioni di griffe avrà fatto i soldi comprerà gli originali) che serve a mantenere ‘alto’ il nome. Ma quello che credo sia più interessante è la ‘cornice linguistica’ che fluttua attorno ai Grandi Nomi: l’italianità intesa come plus, come brodo primordiale che eleva la qualità dell’abito, cibo o film che sia e, di rimando, di chi lo veste, mangia, guarda.
L’italianità a trecentosessanta gradi là fuori è di moda, che lo vogliamo o meno. Cioccolatini cinesi, parmigiani tedeschi, telenovelas latinoamericane, stilisti asiatici: tutti, in qualche modo, ripescano in un immaginario italicus dai confini sfumati (altrimenti che immaginario sarebbe). Immaginario che, tradotto in una pennellata di pseudoitalianità data qua e una là, produce valore aggiunto sulla merce proposta. Bellicimo, recita un cartellone di qualche stilista dello Sri Lanka affisso lungo la strada principale di Colombo. Vi è ritratto una specie di clone di Hugh Grant sorridente che rimanda a stili di vita e del vestire primomondisti. Dev’essere una colpa della mia puntigliosità, ma se io fossi uno stilista di Colombo - o di Nairobi - in questi tempi di internet sprecherei tre secondi della mia esistenza e andrei a vedere come cippa si scrive bellissimo. Ma il sentire italicus non è geometria né base per altezza diviso due: trattasi di sentire e, come tale, ha i contorni opachi, non necessariamente tirati con il righello. Dunque vanno benissimo mutande Valantino o Huomo, l’importante è che non stringano troppo nelle parti intime e che profumino di italianità. Le precisioni della lingua lasciamole a quegli isterici nullafacenti degli intellettuali.
Consonanti doppie, un’opinione
Certo è che la nostra lingua è rognosetta. Grammatica tosta, pronuncia e capriole con la lingua non per tutti, quantità infinite di eccezioni alle regole. Ce n’è abbastanza per competere con un ceco o un ungherese, in quanto a difficoltà. Ma, almeno tra cugini latini, le cose dovrebbero essere più facili. Il condizionale è d’obbligo, il succo di burro lo conferma. La prima volta che prendo una classe o uno studente per insegnargli italiano inizio con le due-tre regole d’oro (variabili a seconda della provenienza della ciurma, a grandi linee divisa tra mondo anglofono e mondo latino). Regola ricorrente è: “Per pronunciare una doppia consonante immagina che le consonanti non siano due, ma tre” (quattro per i più somari). Il trucchetto, dopo qualche bacchettata iniziale, sembra funzionare. Godo ogni volta che sento uno dei miei discepoli soffermarsi, trascinarsi, grattugiarsi il palato su una doppia (tripla) r, n, t. Com’è noto, però, il mondo portoghese e quello ispanico non ce la possono fare in questo campo. La mia amica Flávia, brasiliana da sempre a Bologna, tira eccellenti sòccia nei momenti topici della quotidianità, ma un fatto per lei sempre e solo sarà un fato, anche se dovesse reincarnarsi sei-sette volte sotto le Due Torri. E, di nuovo: vale il contrario. Non crediamo di essere migliori, una volta là fuori cadiamo negli stessi errori. Per parlare francese (senza saperlo) basta parlare dialetto bolognese, per parlare spagnolo è sufficiente aggiungere una s a tutte le parole, e per parlare portoghese un ao. Intere campagne pubblicitarie hanno campato su questo sciocchezzaio, su questo Bignami caciottaro da emergenza linguistica. Papa Giovanni Paolo II, quando andava e parlava in Brasile, emetteva suoni da far accapponare la pelle. Qualche fedele, forse, lo capiva pure. Ma certo è che lui, almeno, ce provava. Noi quand’è che cominciamo a farlo?
Paese di poeti, navigatori e tronisti
Questo mio, può apparire come un grido nel vuoto, se consideriamo il background socio-culturale - come direbbe qualche sociologo da Costanzo - che ci avvolge. I congiuntivi sono andati a farsi benedire qua quel tempo, persino tra i giornalisti della TV, che in teoria dovrebbero avere/offrire un livello minimo di istruzione (per non parlare di ogni volta che devono affrontare un vocabolo straniero). Ricordate i tempi del ‘Dentone’ di Alberto Sordi? Forse coincidevano con quelli degli essi nonneschi, ma… quanta eleganza. Oggi, che lo stile da tronista ha scalzato a suon di gel l’ABC della grammatica imparata alle scuole elementari, non siamo più in alcuna posizione per dire a quelli là fuori “Ehi, ragazzi, che cosa vi ha fatto di male la nostra lingua?”. Al più, chi se la sente, può cercare, con gentilezza e un sorriso, di trasmettere la bellezza della nostra lingua (che fu). Io ci ho provato, più volte, insegnando l’italiano qua e là, dove capitava e quando avevo bisogno di arrotondare la paghetta. Esperienza di grande scambio culturale, quella dell’insegnamento. Soprattutto quella volta in cui ho fatto da supplente in una scuola privata di Goiânia, in Brasile. Il professore ufficiale, schiantatosi in moto, aveva dovuto prendere qualche giorno di permesso per rincollare i polsi. Mi appiopparono una classe di quattro gatti, i quali mi passarono il testo ciclostilato sul quale stavano lavorando, una composizione scritta dallo stesso professore. Il cattedratico si era IN-VEN-TA-TO parole italiane, oppure ne aveva italianizzate alcune dal portoghese. Inorridii, ma feci finta di niente. Non volevo portare via la sedia a nessuno e, si sa, i sindacati in Brasile sono cattivelli. Non avrei voluto, poi, dover riaggiustare i miei, di polsi.
Dal Jornal Gazeta, giornale di Bento Gonçalves (Rio Grande do Sul, Brasile). In occasione di una mia visita alle comunità venete colà trapiantate.
SALUTI A PIETRO
Saluti a PIETRO SCOZZARI il giornalista italiano che é in visita nella nostra regione. lui nel altra volta che é venuto qui ha fatto molta publicita degli punti di turismo regionale, ed é sempre buono che la nostra regione sia conosciuta in italia. un altra volta volta saluti PIETRO! E qui siamo un altra volta con paura che sucedano guai via par il mondo. speremo che tutto vada a posto suo e che niente di bruto succeda in giro vero buona gente! qui il registro del grande incontro della famiglia lucchese, che é successo nel ultimo giorno 16 nel salone del barracão. piu di setecento persone hanno partecipato. la origine della famiglia luccheseéarrivata qui a bento é della citta di pordenone, nella regione friuli italia. ma in italia esiste anche una citta che si chiama lucca, e di li c’e anche una procedenza dei lucchesi, perche esiste anche un associazione che si chiama lucchesi nel mondo. salute a tutti della famiglia lucchese, bene ora vi salutiamo a tutti e fino alla prossima settimana qui nel giornale gazeta. e su co le reccie parche la vita bisogna vierla con amore… vero amore pero!
Violetta scrive:
RispondiElimina15 agosto 2011 alle 14:49
“…. (più fondamentale il mazzo di carte per farsi un tressette nei bagni del liceo). ” questo, all’interno di un articolo che ci mostra come gli stranieri massacrano la lingua italiana, proprio non ci sta.
Petracco scrive:
16 agosto 2011 alle 18:39
Mi scusi, gentile Violetta, ma non capisco che cosa ci sia che non va nella frase da lei enucleata?
Violetta scrive:
16 agosto 2011 alle 20:54
Nella frase c’é un errore di grammatica: ‘più fondamentale’. Fondamentale , non è qualificato come aggettivo superlativo, tuttavia esso non può avere un comparativo di maggioranza. Questo aggettivo evoca le fondamenta, cioè la struttura che regge un edificio, la parte più importante della costruzione, pertanto è il suo stesso significato a farne un superlativo.
Pietro Scòzzari scrive:
18 agosto 2011 alle 12:44
Gentile Signora Violetta,
GRAZIE per la puntigliosa precisione grammaticale.
Lo spirito dell’articolo, però, non vuole, voleva, vorrebbe essere solo quello della difesa contro il massacro della nostra e delle altre lingue, ma anche quello di uno stimolo all’apertura mentale nei confronti dei cambiamenti delle medesime (‘la biscia che cambia pelle…’). Seguendo la biscia (volendo seguirla) mi concederà, spero, una forzatura maggiorata delle fondamenta superlative, insite nel potere distruttivo del tressette, soprattutto se perpretato ai danni dello studio pagato dai genitori.
E poi, per carité, nessun nazionalismo linguistico! Noi, Italians/os, siamo i primi a massacrare le lingue altrui. Dunque, più che gli stranieri, i Veri Nemici di Dante sono i nostri grandi fratelli scemi, i nostri falsi amici al gel, avidi di riflettori puntati in faccia. In altre parole, la maledetta TV, madre di tutte le fogne.
I mie più fondamentali saluti, e mazzi di violette
P.S. (non polizia di Stato – va bene la maiuscola? – né post scriptum)
Violetta scrive:
18 agosto 2011 alle 18:08
Beh, signor Scozzari, se si tratta di una forzatura nulla da dire. Non l’ho interpretata così semplicemente perché io l’avrei, in qualche modo, evidenziata ma lo scrittore è lei quindi le chiedo scusa.
Saluti, Violetta.