lunedì 18 luglio 2011

STATI UNITI - SULLE TRACCE DEI GUIDOS


Le tre Little Italy di New York, fino a quella del Bronx. Fra scatole di pelati e sigari di Santo Domingo, inseguendo gli aromi


Tre sono le principali Little Italy di New York City, ognuna con un’anima particolare. La più nota, quella di Manhattan, è una specie di Disneyland del tempo che fu, concentrata in poche vie lentamente fagocitate da Chianatown. Da quando l’inesorabile blob cinese ha iniziato a inghiottire l’ex ghetto italiano, tanto da decimarne gli Italians (termine perfetto, decimare: oggi a Little Italy vive un decimo degli italiani che la abitavano nel periodo d’oro), i pochi rimasti sono dovuti correre ai ripari. Da decenni, da queste parti, l’italianità non è solo un fattore di appartenenza o di accento: se si stimano le cifre che circolano, tra rigatoni alle triple polpette, espresso annacquati e magliette Per favore non mi rompere i coglioni. Grazie (raffigurati un martello e un paio di sfere biologiche), l’italianità è innanzitutto business. Le quattro stradine in croce sopravvissute all’onda gialla da tempo sono una roboante Disneyland dell’italianità ai quattro formaggi, del mandolino che piange e della gondola che dondola. Roba da esportazione di cui gli americani del Minnesota o del Montana, a giudicare dalla quantità di teste bionde invasate che razzolano su e giù per Mulberry Street, vanno pazzi. Buttadentro dei ristoranti che ti assalgono a suon di menù contundenti, manco stessi per morire di fame e loro, proprio e solo loro, fossero La Salvezza. Caricature di se stessi, sanno che l’accento e il gesticolare italici piacciono ai turisti, e ne fanno studiato sfoggio da pavone. I cinesi vendono t-shirt ogni anno più fantasiose e spettacolari nella loro capacità di scovare slogan italioti, spesso ispirati al mafioso televisivo del momento. La foto dell’epica testata di Zidane all’attore Materazzi accanto a quella di Sophia Loren d’antan, quella del mafioso vero Gotti di fianco a quella del mafioso finto Scarface. Tutto è souvenir, qui. Pagando, pure tu. In un negozietto incorniciato da magliette ti puoi far fare una foto e la tua faccia verrà inserita sul corpo di un commensale che partecipa a una specie di Ultima cena mafiosa, un quadro dove appaiono tutti i mafiosi VIP del cinema, dal Padrino Brando a Scarface, da Tony Soprano ad Al Capone. Poi ti stampano un bel poster.







Un bel giorno decido di portare un caro amico in visita a NYC per la prima volta a Little Italy. Non perché appena abbandoniamo la Patria ne sentiamo nostalgia, ma perché io, dopo mesi di americanate, ho il bisogno fisiologico di comprare il pane al prosciutto e arancini come dio comanda. Mentre mastichiamo, racconto con fare esperto al mio amico come Little Italy, in fondo, non sia un cliché del mafia-style, alla Soprano. Ho appena pronunciato nove decimi di questa frase che dal nulla appare un tipo che, se non appartiene al clan dei Soprano, di sicuro è un picciotto di quello nemico. Catene e anelli d’oro in ordine sparso, occhiali nerissimi, fedina penale forse pure nera, fare agitato al telefono. Stando al gesticolare, se potesse, sparerebbe attraverso il telefono. Il mio amico non resiste, il cliché è troppo cliché, estrae la videocamera e ne riprende pochi secondi di su-e-giù nevrastenico lungo il marciapiedi. Se il tipo lo vede, spara a noi, altroché al telefono.







Di recente inaugurazione è il piccolo Italian American Museum (IMA), all’angolo tra Mulberry e Grand Street. Ricavato nell’ex Banca Stabile (1885) - una banca usata in passato dagli immigrati italiani anche per fare rimesse all’estero, acquistare i viaggi transoceanici, importare ed esportare, oltre a offrire servizi notarili e di ufficio postale - il minuscolo locale è, finalmente, un riconoscimento dell’apporto culturale (scusate la parolaccia) degli italiani al polpettone-New York. Finalmente non solo proteine e pulcinella. Fotografie, documenti, antiche macchine per fare i conti, un breve video e tutte le informazioni del caso da parte del gentile Antonio, cicerone di nonni italiani che mi confessa come, tra breve, a due passi sarà inaugurato anche un museo dell’immigrazione cinese (guerra ideologica o sindrome della taroccatura, a voi giudicare). Il museo italo-gringo è a pochi metri dall’angolo di Grand Street in cui ogni settembre, durante l’orgia religioso-culinaria di San Gennaro, si tiene l’incomparabile gara di chi ingoia più cannoli alla crema. Alla competizione partecipano esseri umani di sembianze cinghialesche, solitamente accompagnati da familiari pure incinghialiti a fare il tifo. Ma il bello della gara è che, di solito, vince qualche mingherlino, probabilmente con un prolasso interno dello stomaco non visibile al mondo di fuori.





Bruccolino, almeno per un caffè
Nel cuore di “Bruccolino”, Bensonhurst è la Little Italy che vale la pena raggiungere per scovare un espresso come Illy comanda e una cassatina al triplo zucchero e al quadruplo godimento (dimenticatevi i risultati delle ultime analisi del sangue se entrate nella pasticceria Villabate). Aria di autenticità e niente turisti. Qui, lungo il Cristoforo Colombo Boulevard (al catasto 18th Avenue), gli oriundi o i padri dei medesimi si incontrano al Caffè Italia, dove una biondissima barista forse polacca è stata istruita a dovere su come scodellare un espresso a prova di italiano-vero. Il bar dal punto di vista architettonico è rimasto agli anni Settanta e, per fortuna, lo è pure il caffè. Unica cosa ‘diversa’, rispetto alla madrepatria, il prezzo: un dollaro e mezzo, più mancia. Caro, ma il palato, dopo le brodaglie di Starbucks e simili, ve ne sarà eternamente grato. L’orgia religiosa, rivale della pluridecorata processione di San Gennaro di Manhattan, qui è dedicata a Santa Rosalia, ogni fine agosto-inizio settembre. Zeppole a go-go, verdoni appuntati con spilli alla statua della santa, bancarelle italiote e politici in campagna elettorale in giro a stringere mani. Un Italian che, addobbato in puro Soprano-style, ama esibire le proprie manone ricche di ori (anelli, bracciali, orologi), mentre dà boccate a un sigaro extra-large. Tra le bancarelle, se lo stomaco vi regge e volete provare un’americanata, scovate gli Oreos (biscotti neri fuori con l’anima bianca; così, in gergo, sono soprannominati gli afro-americani con ambizioni WASP) fritti. Sullo sfondo una sicilianità dominante, non solo a tavola. Infilate il naso nello Sciacca Social Club, dove di donne non se ne vede manco una. In passato vi volarono pallottole di Cosa Nostra, oggi il tressette domina incontrastato. Trinacria pura, manca solo il bel mare della Sicilia.




Bronx, non solo violenza, droga & hip-hop
La Little Italy più autentica e attraente, però, si trova parecchio più a nord, nel cuore del Bronx. Pochi lo sanno, identificato com’è questo enorme distretto quasi solo con marginalità e delinquenza, nell’immaginario dei più. In realtà il Bronx è tappezzato da diverse isole felici, inclusi quartieri scintillanti per ricchi, come quello di Pelham Bay Parkway (gli italiani poveri stanno a sud, gomito a gomito con i portoghesi). Belmont, attraversato dalla Arthur Avenue, è l’isola più felice di tutte, almeno agli occhi e al palato dei visitatori a caccia di italianità. Pulita e ordinata, questa Little Italy sa di autentico. Niente menù taroccati o gonfiati, con le doppie al posto giusto nei menù e i sapori pure. Il vecchio barbiere e il vecchio ciabattino, entrambi nati lungo la costiera amalfitana e, per un caso della vita, finiti entrambi oltreoceano. Un caseificio calabrese (Calandra’s Cheese) privo di insegne ammalianti attira-turisti, ma con un aroma da farti arricciare i cinque sensi per l’estasi. E poi il vecchio pastificio Borgatti, dove la pasta fatta a mano sotto il naso dei clienti fa accorrere le signore-per-bene della zona a fare incetta e stivare il frigo. Cibo vero, prezzi decenti, facce nostrane, santi e bandiere, ma soprattutto per l’autoconsumo. Qui di turisti non ne arrivano molti - lontani parenti dall’Italia, al più -, l’italiano vero lo parlano in pochi (i dialetti campani e calabresi dominano incontrastati) e l’atmosfera è di rilassato benessere. Il ciabattino si lamenta per le tasse, il barbiere ha appeso al muro una foto della costiera più grande di quella dedicata alla Madonna, e le magliette cretine si trovano pure qua, ma almeno i turisti del Minnesota manco sanno dell’esistenza di questa Little Italy. Però siamo in America, dunque è inutile immaginare che le tribù siano per i soli ‘purosangue’. Fra barattoli di pelati e poster dei Santi Azzurri Vittoriosi Durante l’Ultima Guerra Santa Contro gli Odiati-Amati Francesi s’incunea qualche negozietto albanese, una drogheria messicana, una pescheria gestita da chissà chi e, poco oltre i tricolori appesi agli ingressi delle vie, il Bronx più tradizionale, afroamericano e latinoamericano. Il bello di questa città è appunto il continuo disorientamento: un anziano ebreo intrufolatosi a ficcanasare durante una partita di dama cinese nel cuore di Chinatown; un suonatore di cornamusa nero, durante la sfilata irlandese di Saint Patrick; un trombettista cinese durante la processione di san Gennaro. Chi sei e quali sono le tue origini, oggi, qui, in fondo poco importa.


La Casa Grande: puros da Santo Domingo
Prova tangibile e annusabile di questa ‘legge del polpettone’ newyorchese è un’oasi nell’oasi. Respirate l’aria attorno al 2344 di Arthur Avenue, e le narici vi porteranno alla fonte del piacere come una bacchetta da rabdomante. Sarete calamitati nell’Arthur Avenue Retail Market, un capannone sotto il quale si nascondono delizie per il palato. Qui, tra un dipinto del Vesuvio con Pulcinella che arrotola spaghetti e un bambolotto raffigurante un marine portabandiera, potete trovare pomodori secchi, pasta che non scuoce e colombe pasquali in offerta. All’ingresso, occasionalmente, qualche vecchietto dà l’anima per vincere Il Tressette della sua vita. A pochi passi, tra banconi ordinati, una mezza dozzina di arrotolatori e tagliatori dominicani sforna sigari a getto continuo, dall’alba al tramonto, domenica esclusa. Avvolti in bellissime camicie guayaberas, gli operai della compagnia di tabacco La Casa Grande sono disponibili anche per feste private, dai matrimoni alle commemorazioni aziendali, durante le quali gli invitati possono ammirare la maestria manuale nella fattura di un puro e, eventualmente, gustare il medesimo. Nata nel 1994, questa piccola ma agguerrita impresa offre anche la visita di una specie di micro-museo all’interno del mercato coperto di Arthur Avenue. 



Fra una statua a grandezza naturale di Al Capone (in doppiopetto bianco e con un grande sigaro tra le mani) e foto-icone di fumatori famosi, tra una collezione di cappellini e un’impronta della mano di Muhammad Ali/Cassius Clay, La Casa Grande espone i suoi prodotti in teche ordinate. Più un’infinità di accessori e gadget relativi al culto del fumo del sigaro: umidificatori, trinciatori, accendini, portasigari ecc. Una mente pensante, dunque, ha sapientemente organizzato il luogo e lo gestisce con maestria. Su internet il sito www.LCGcigars.com offre un’ampia carrellata dei prodotti disponibili. In generale, i sigari di questa azienda sono riempiti con tabacco dell’Honduras e del Connecticut (quest’ultimo proveniente dalle piantagioni dell’omonima River Valley), e avvolti da foglie di maduro brasiliano. Tra i prodotti ‘classici’ dell’azienda troviamo il Casa Grande Connecticut Shade, il Casa Grande Maduro, il Churchill Connecticut Shade, il Churchill Maduro, il Corona Connecticut, il Corona Brazilian Maduro (normale e doppio), il Corona Connecticut Shade (normale e doppio), il Courvosier, il Créme de Menthe, l’It’s a Boy! (avvolto da una fascetta azzurra), l’It’s a Girl! (idem… indovinate di che colore è la fascetta) - sigari dedicati a festeggiare l’arrivo di un bebè -, il Robusto (nelle versioni Connecticut Shade e Brazilian Maduro), il Rotschild (idem), il Sugar Tipped (dolce), il Toro (Connecticut Shade e Brazilian Maduro), il Torpedo (idem) e l’aromatizzato Vanilla. Nella linea Premium, invece, La Casa Grande produce l’Aniversario 1994 (cinque foglie di tabacco dominicano, filtro del Nicaragua e foglia esterna Virgin Sun Grown), El Diablo Rosa (Il Diavolo Rosa, con tabacco del Nicaragua, della Repubblica Dominicana, del Perù e Habana, anch’esso avvolto in foglia di maduro brasiliano; di grandezza media, ‘piccante’, è venduto a 8$), il Rey Corto (il ‘Re’ dei sigari, fatto con tabacco nicaraguese e dominicano, avvolto da una foglia di maduro; ricco, di colore marron, è ideale per la carne e il vino e viene venduto a 6$ il pezzo - 135$ la scatola) e, infine, El Preferido (con tabacco dominicano e peruviano; legnoso, ha aromi di cocco e cedro ed è venduto allo stesso prezzo del Rey Corto). Fra le ricche teche de La Casa Grande, inoltre, si possono trovare oltre cinquanta marche, tra le quali gli H. Upmann, i Romeo y Julieta, i Montecristo e i Cohiba, così come diversi marchi di sigarette importate (Dunhill, Gauloises, Nat Sherman, Djarum ecc.). Tutto ciò al mercato del 2344 di Arthur Avenue, Belmont, Bronx. Un tempio dedicato agli aromi e ai sapori, tra Italia, Nord e Sud America. Da non perdere, se siete da queste parti.

Pubblicato su Smoking


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