martedì 18 ottobre 2011

CINA – IL PAESE GENTILE


Piccole storie di quotidiana maleducazione cinese

Leggete, se riuscite a stanarlo in libreria, La tigre con le dita nel naso – Guida pratica contro il mal di Cina (Giacomo Danieli, Editrice Zona, 2009). Dopo la lettura, se avevate voglia di visitare il Paese ‘dalla cultura millenaria’ probabilmente vi passerà. E se già la conoscete o vi abitate - come molti italiani all’in$eguimento di una delle poche economie globali dove forse è ancora possibile accumulare qualche spicciolo (se dotati di fortuna e scaltrezza) - troverete tutte le conferme, raccontate in maniera esilarante, del quotidiano orrore che vi circonda appena uscite dalla vostra stanza per immergervi nella giungla della maleducazione.
Se possibile, oggi la Cina è il Paese più capitalista al mondo. Avvolto in un plaid ufficiale di comunismo di Stato, all’atto pratico, nella vita di tutti i giorni, è il luogo in cui più l’individuo è lasciato a se stesso (se il Berlusca lo viene a sapere si rimangia tutto quello che ha sempre detto e pensato sui comunisti mangiabambini e termina i suoi giorni di latitanza nel buen retiro cinese, in un harem di troie – si dice che i cinesi, oltre alla pasta e a mille altre cose, abbiano inventato la prostituzione, here you go…). Sia da cittadino cinese, sia da turista, è desolante e deprimente dover vivere una vita da salto agli ostacoli, non appena si prova a mettere il naso in strada. Vediamo assieme come può essere una ‘giornata tipo’ in una città cinese qualsiasi.



Se vi è andata bene, e i vostri vicini di camera non vi hanno tenuti svegli tutta la notte con il loro televisore acceso a volume da deflagrazione e/o con il puzzo delle loro sigarette, avete dormito discretamente. Sveglia presto, perché la Cina lavora e accumula, non tergiversa a letto, è antiproduttivo. I rumori del mondo di fuori vi chiamano. E poi, se siete in un albergo, a quest’ora i vicini di stanza vi avranno già tirati giù dal letto, sbattendo la loro porta manco i cardini li regalassero, in ferramenta. Le addette alle pulizie sbattono porte e si urlano facezie lungo i corridoi, quando non prendono ordini dalla direzione via walkie-talkie, a volume deflagrante pure quelli, ça va sans dire. Primo passo: prendere l’ascensore, per scendere dal venticinquesimo piano del mostro di cemento in cui siete alloggiati. Davanti alle porte non c’è nessuno, vi mettete su un lato e premete il pulsante, attendendo che la scatola di latta arrivi. Quando è al piano, all’improvviso sbucano da chissà dove alle vostre spalle almeno cinque individui di sesso ed età assortite che apparentemente lottano all’ultimo spasimo per tagliarvi la fila e vincere la medaglia d’oro dello sport nazionale cinese (altroché pingpong): l’arrivo-prima-io (sport unisex, nella Cina comunista non c’è distinzione fra generi). Se non siete stati educati dalle orsoline e guardate un po’ troppi film americani d’azione, non appena avrete presagito con la coda delle orecchie lo sciame che si avvicina darete una spallatina al gruppo brado e la medaglia la vincerete voi. Se siete dei veri provocatori, poi, a vittoria conclusa, guarderete dritti negli occhi i perdenti, con voglia di sfida. Trattandosi appunto di perdenti, abbasseranno lo sguardo, e voi potrete leggere i loro pensieri (‘Straniero di merda, vabbè, lasciamo stare, tanto sono tutti matti’). Dentro la scatola, mentre scendete, potrete scacciare la noia deliziandovi i timpani con un’alternanza di suoni gutturali (le mattine, soprattutto quelle uggiose, sono ricche di catarro, che va espulso al più presto; il più presto è all’apertura delle porte dell’ascensore, nel posacenere all’ingresso) e urla al telefono cellulare, non importa se a tre centimetri dalle vostre orecchie. I telefoni portatili cinesi hanno sempre campo, anche se state girando su un carrello da minatore nelle viscere della Madre Terra; e i cinesi hanno sempre molte cose, tutte urgentissime, da dirsi. Arrivati a destinazione (pianterreno), preparatevi alla centrifuga. Il popolo dietro di voi vi spingerà come se l’ascensore stesse prendendo fuoco, quello che aspetta di entrare in realtà non aspetta alcunché, entra e basta, anche se voi siete ancora lì che cercate di uscire. La Cina non è un Paese per vecchi rincoglioniti, dunque prendete l’iniziativa, sapendo ciò che vi aspetta, e batteteli sul tempo: una spallata decisa a chi sta per entrare, una gomitata ai mufloni alle vostre spalle. Se non siete incappati in qualcuno più grosso e incarognito di voi ce l’avrete fatta, avrete conquistato il primo tassello della giornata: la strada. Ora sono davvero cazzi.


Il marciapiedi, così vi avevano insegnato durante l’età dell’innocenza, serve, servirebbe, a far marciare i piedi. Visto che di piedi in Cina ne circolano più o meno un miliardo e trecento milioni x2 (uno per gamba), potete fare un rapido calcolo e avere l’idea di quanto sia mediamente affollato un medio marciapiedi di una media città cinese. Il Grande Paese, però, non ama sprechi, dunque perché lasciare libero qualche centimetro quadrato di asfalto pubblico? Quando camminate fate spazio all’esercito di motorini – la bicicletta ormai è out, fa troppo contadino – che provano ad azzopparvi. I migliori, quelli che meglio aiutano le aziende produttrici di protesi degli arti inferiori, circolano in città come Guilin (Guangxi). Sono elettrici, dunque quasi-ecologicamente corretti. L’inquinamento sembra essere zero, anche se i marciapiedi prospicienti i negozi (tutti) sono un continuo salto agli ostacoli degli scooter sotto carica (produrre energia elettrica non inquina?). Se rispettosi dell’ambiente in senso lato, senz’altro questi motorini non sono rispettosissimi di parte del suddetto ambiente – voi -, almeno a giudicare dalla guida di chi li cavalca. La strada scorre lì, di fianco a voi, ma un motorino cinese che si rispetti predilige il marciapiedi. La strada, intasata da camion e autobus con le spalle grosse e da auto di potente cilindrata manovrata da nuovi ricchi che hanno appena comprato la patente non è indicata per le carrozzerie sottodotate. Le linee continue che imporrebbero il divieto di sorpasso devono essere trasparenti per gli occhi di autisti di camion e di autobus. La strada è pericolosa, il marciapiedi meno: cozzando contro le ginocchia di qualcuno il motoguidatore si fa molto meno male che andando a sfrantecarsi contro il paraurti di una betoniera. Occhi e orecchie spalancati, dunque, se volete arrivare a fine marciapiedi con le ossa ancora tutte d’un pezzo. Il nemico è alle porte, cioè alle vostre spalle. Arriva silenziosissimo – il motore elettrico fa il rumore di un’ape che ronza attorno a un girasole – da dietro, spesso condotto da un/a telefonista impegnato/a a dire cose di importanza storica per il futuro della nazione (telefono in una mano, l’altra sul gas, per centrarvi meglio). Dio bonino, quanto ho goduto quella sera a Yangshuo, dopo aver pasteggiato in strada, dal mio pusher personale di noodles saltati nel wok. Satollo, mi incammino per fare ritorno alla cuccia, percorrendo un marciapiedi di larghezza medio-bassa, decorato e intasato da ciarpame dei negozi, motorini parcheggiati alla bruttodio e cani e gente randagia. A un certo punto la vedo. Donnetta a bordo di Munstang a due ruote, fanali abbaglianti puntati contro le mie sante pupille, timone di bordo puntato sulle mie rotule. Velocità da crociera cento nodi. La larghezza del marciapiedi può contemplare al massimo il mio passaggio e il suo, purché a piedi. Uno specchietto retrovisore è di troppo, non ci sta. Con fare di chi sta pensando a cose ultraterrene, e con sguardo diretto al drago verde di plastica proposto dal negozio di giocattoli alla mia destra, allargo di un micron il gomito sinistro. Tanto quanto basta per sfiorare il suddetto specchietto in più. Senza farmi del dolore, senza farmi notare e, soprattutto, facendo deviare quanto basta la traiettoria del missile (al liceo in fisica me la cavavo benino). Risultato della lezione di applicazioni tecniche: come uno Shuttle impazzito, il Munstang e il carico subumano che lo cavalca vanno a rotolare rumorosamente tra i cesti del negozio. La zoccola si tira su, per fortuna non si è fatta male, e ancor più per fortuna non ha scalfito il bellissimo drago verde. Specchietti e fiancate della moto si sono scalfite, Dio esiste. Essa mi urla cose cinesi. Ma io non parlo né mandarino né dialetti minori, e poi sono concentrato sulle cose ultraterrene. Lei, ad altezza del terreno, non mi interessa. Un italicissimo ma và a caghèr le augura una buonanotte e un buon carrozziere (per fortuna non interviene alcuna Guardia del Popolo a farmi fare la fine di Richard Gere in L’angolo rosso). Credo di aver smesso di ridere mezz’ora dopo essermi addormentato.












Un utilizzo peculiare è quello che si fa a Guangzhou, ex Canton, di alcuni scooter arancioni. Il governo locale li concede (finalmente un po’ di comunismo applicato) ai portatori di handicap. Questi mezzi, però, non sembrano mai davvero finire nelle mani di chi ha qualche problema fisico. C’è sempre un parente dell’intestatario della moto con necessità di arrotondamento che si presta a fare il moto-tassista nel centro della città. Soprattutto dopo il tramonto. Gli stranieri sono i clienti preferiti, pagano meglio e non rompono le scatole. I più scaltri si portano appresso il familiare handicappato, e appena trovano un cliente lo abbandonano a zoppicare su un marciapiedi, per passarlo a riprendere a servizio concluso. Falsi invalidi italiani, pensavate di essere i più furbi? Avete perso. I cinesi vi hanno battuto non solo in termini di basso costo della manodopera, di taroccatura dei prodotti, di data di battesimo degli spaghetti e dell’escortaggio. Vi hanno fregato anche nel campo della creatività. 


Dalle due alle quattro ruote il salto è breve. Anche perché, prima o poi, il marciapiedi finisce, e dovrete attraversare la strada. È questa la vera prova del nove. Sì, perché anche se la comunità locale ha speso soldi pubblici in vernice bianca con cui decorare l’asfalto, come dice il sommo Danieli, le strisce pedonali sembrano servire più agli autisti per prendere la mira e centrarvi, che non ad attraversare incolumi. Anche in questo campo, peraltro, non abbiamo da insegnare alcunché a chicchessia, le strisce pedonali italiane servono ad ammazzare tanta gente quanta in Cina. La differenza, a voler essere dei puntigliosi ricercatori di sfumature, è che da noi, tra i pedoni, circola ancora la leggenda popolare che le strisce diano qualche specie di diritto a chi le calpesta, mentre in Cina questa velleità non è manco presa in considerazione. Nel Paese che un bel giorno tutto dominerà, si sopravvive alle strisce pedonali solo agli incroci regolati da semaforo + sbirro in uniforme a vigilare il flusso degli assassini su quattro ruote, L’unico vero deterrente che funziona è lo spauracchio della multa. Toccate i soldi a un cinese, è come se aveste dato della zoccola alla madre di un camorrista mentre siete a passeggio nei Quartieri Spagnoli. Non arriverete alla tazzulella e cafè.









Attraversare una strada in Cina, decorata o meno da inutili strisce bianche, è un’impresa non per tutti. Non per gli anziani, non per i bambini. E, a volte, semafori e strisce non bastano. Se un neoricco locale ha appena acquistato l’ultima Mercedes lanciata sul mercato, che cosa credete, che abbia speso tutti quei soldi solo per lasciarla in garage e far bella figura con gli amici? Un neoricco locale che si rispetti non attende un cazzo, perché Alte Missioni lo aspettano. Anche se siete nel mezzo dell’attraversamento pedonale mentre il semaforo lampeggia e l’omino verde vi fa l’occhiolino, dunque  starebbe a voi passare, non vorrete mica distogliere il commenda indigeno mentre parla al telefono e vi passa con copertoni Pirelli sulla punta delle scarpe? Cos’è, non siete sensibili all’economia che avanza? Siete per caso degli sporchi comunisti anticapitalisti??
Il più delle volte, affrontando lancia in resta un attraversamento pedonale, si rischia di passare poi al reparto ortopedico o, almeno, dal lustrascarpe. Attraversare fuori dalle strisce, su strade non regolate da semafori+sbirri, è puro suicidio. Non fatelo, se non dopo aver controllato tre volte tre che all’orizzonte nulla si muove. Non mi credete? E male avete digerito il trancio di montone al porridge che avete mangiato mezz’ora fa? Volete vomitare, ma non ce la fate a infilarvi due dita in gola? Guardatevi il video al link (in portoghese brasileiro)


dove una bambina viene trasformata in ragù da pneumatico, sotto gli occhi zero comunisti dei passanti. Dopo averlo visto, non ci sarà più dèpliant dell’Ente del Turismo Cinese che farà breccia nei vostri sogni da turista. La Muraglia Cinese, per voi, sarà crollata per sempre.


Se oggi è il vostro giorno fortunato, e per un puro caso del destino siete riusciti a raggiungere incolumi la Terra Promessa, l’altro lato della strada, ora vi sentirete invincibili. Non vi fermerà più nessuno. Potete anche affrontare le viscere della terra, se non su un carrello da minatore almeno su un vagone della metropolitana. Molte grosse città, in espansione rapidissima, negli ultimi anni si sono dotate di linee metropolitane fantastiche, da fare invidia a qualunque metropoli occidentale. Vagoni comodi e ipertecnologici, macchine automatiche per la distribuzione dei biglietti. Quello che manca, però, è il contorno: l’addestramento dell’essere umano all’utilizzo della suddetta tecnologia. Per accedere alla metro scendete una lunga scalinata, facendo il salto agli ostacoli tra venditori di pelli di bestie scuoiate e di DVD taroccati. Arrivati alle macchine automatiche, scovate il pulsante per l’inglese, ed evitate che qualche peone provi a tagliare la fila. Preso il biglietto, si parte. In giro ci sono cartelli più che evidenti sul divieto di fumo, ma il furbastro che se ne fotte c’è sempre, d’altronde nessuno si prende la briga di dirgli qualcosa. Sul pavimento davanti alle porte dei vagoni – che si fermano con precisione millimetrica – è tracciato, visibilissimo, un settore per fare la fila. Nessuno, a parte voi, la fa. Come il vagone arriva e le porte si aprono ci sarà sempre qualche testina di cippa che, aggirandovi alle spalle, vi passa davanti e si intrufola all’interno del vagone, quando ancora il flusso di gente sta provando a uscire. Fategli/le lo sgambetto, sarà come darvi una carezza da soli. E preparatevi a essere presi a schiaffi: non dallo/a sgambettato/a, ma dagli aliti all’aglio all’interno del vagone. Brutta bestia da digerire, soprattutto se ci fai la colazione. Cercate un posto a sedere, se c’è, a distanza di sicurezza da aliti velenosi e telefonatori compulsivi. Non vi interessa ciò che hanno da dire, cioè urlare, ai loro punti di riferimento. Anche perché, come già detto, non capite il cinese. Sopravvissuti all’attacco chimico, ora preparatevi ai quarterback di sfondamento: quelli che, mentre cercate di uscire dal vagone, proveranno a sfondarvi la cassa toracica per impossessarsi del posto a sedere prima della vecchietta zoppa e incinta che li precede. Gomiti in fuori, come sempre in funzione di ariete difensivo. Se siete dei provocatori incurabili questo sarà uno di quegli istanti che arricchirà la vostra giornata. Ogni incornato vi darà almeno un micro-orgasmo, lo giuro.





Ohhh, finalmente. Dopo tutta quella gente e quelle lamiere impazzite potete godervi il meritato pranzo. Ieri, passando di qui, avevate scorto un ristorante che deve avere i suoi perché. Propone la famosa zuppona mongola, portate non-stop di ciccia da cuocere con le vostre manine in un tegamone bollente ricco di verdure esotiche e funghi, nell’insieme un ben-di-dio a prezzo basso e fisso. E fin qui ci siete arrivati. Ma il problema ora è ordinare. Nessuna cameriera nel raggio di cinque chilometri, forse mille, parla inglese, e il menù è scritto in venusiano. Dopo troppi tentativi riuscite a ordinare solo perché quelli del tavolo vicino sono poliglotti e parlano lingue impossibili e sono riusciti a ordinare uno zuppone molto simile a quello che vorreste. I funghi sono un po’ diversi, ma non dovrebbero essere velenosi. A tempo di record vi arriva ciò che avete ordinato, ma mentre state per infilarvi in gola il primo succulento pezzetto di carne dietro il separé alle vostre spalle si scatena la Terza Guerra Mondiale. Baccano infernale. Siete un ficcanaso, per cui andate a ficcare naso e pure gli occhi dietro la tenda che vi separa da Babele. Nessuno sta sgozzando un maiale. Si tratta solo di tre cari amici, e relative fidanze, che pasteggiano allegramente. Alcol a go-go, urla da curva Sud allo stadio, per dirsi chissà cosa a distanza di venti centimetri l’uno dall’altro. Siete nervosetti, parecchio scossi, lo sapete già, la vostra ex moglie ve lo ha fatto notare mentre eravate dal giudice a firmare la separazione. Per cui chiedete (fate capire in qualche modo, magari trascinandovi la tovaglia appresso) alla cameriera di traslocare qualche tavolo più in là, in una zona del ristorante desolata e deserta. Lo zuppone vi segue. Dopo i primi due pezzetti di carne venite affiancati, nel tavolino alla vostra destra, da una coppietta di fidanzatini. Passeranno il tempo a masticare la ciccia e a masticarsi le labbra, vi dite e sperate. Dopo un po’ squilla il telefono, di entrambi. Urla al telefono, come se si trattasse di mayday da una cabina di pilotaggio in picchiata. Seguite a ruota da sigarette pestilenziali. Il fumo da sigaretta, è noto, segue sempre la direzione di chi è nei paraggi e odia il fumo ed è nervosetto. Nonostante gesù nostro signore ci abbia dotati di ben 360 gradi, state tranquilli che il fumo nicotinico non desiderato sarà sempre sintonizzato sulla vostra latitudine+longitudine, qualunque siano le strategie antivento da voi studiate e applicate. Lo zuppone non lo avete ancora terminato, ma è comunque meglio pagare e scappare da McDonald’s. Sembra che, almeno lì, quei fanatici antitabagisti dei gringhi abbiano imposto davvero il divieto al fumo.





McDonald’s, che dolci ricordi. Quando nel 1994 andai a Guangzhou in luna di miele, la mia dolce mogliettina subì una specie di terapia d’urto. Sognava resort tropicali e cenette al lume di candela, la costrinsi a seguirmi nel buio Medio Evo (poi uno si meraviglia, se finisce divorziato). Mentre affondavo le fauci in un hamburger, mi fece notare che il gentile avventore seduto davanti a noi si scaccolava gli alluci con un indice della mano destra, usato a mo’ di grissino. Mi passò l’appetito, chissà perché. La pulizia cinese è globalmente nota. Uno dei luoghi più odorosi che ricordo, impresso per sempre nel mio cervelletto, è una guest-house di Penang, in Malesia. Il proprietario cinese offriva camerette così-così a prezzi abbordabili, ma il cesso alla turca in comune – un asse di legno con un profondo e misterioso buco nero su cui era meglio non indagare - era un vero ciesso, davvero inabbordabile. Miasmi di escrementi diluiti da secchiate di ammoniaca buttate qua e là ogni tanto. Mi ci sono seduto vent’anni fa, ma lo ricordo come fosse oggi.






Fino al McDonald’s di Guanghzou avevo una sensibilità bassina circa i rumori volgari del popolo, ma dopo quel viaggio la mia ex mi regalò, per sempre, un’ipersensibiltà nei confronti degli scaracchiatori. Ogni volta che sentiva un essere virtualmente umano grattugiarsi la gola con suoni da ospedale per tubercolotici le veniva la pelle d’oca. Ora viene a me. Tornato a Guangzhou nel 2010, mi hanno fatto un po’ impressione i cartelli a fumetti voluti dall’amministrazione cittadine per educare il pueblo in occasione dei Giochi d’Asia (afflusso di stranieri a vagonate): non si sputa per terra; non si lancia monnezza dalle finestre; non si guida ubriachi; non si tagliano le file. Belli, surreali.
Le stesse ondate di ribrezzo ora le provo per i succhiatori di noodles, idem per quelli che mentre mangiano biascicano, a bocca aperta. Un cinese (e un coreano, e un giapponese) che si rispetti risucchia rumorosamente i noodles perché: 1) sono roventi e aspettare mezzo minuto prima che si raffreddino gli farà perdere il treno; 2) equivale a un complimento allo chef. Accettato in qualche modo tutto ciò (la famosa Cultura di cui tanto si straparla in giro?), non sono ancora riuscito a capire perché quando mangiano lo debbano fare biascicando, come se il cibo che hanno nel palato facesse schifo (la cucina cinese, in media, è notoriamente buona), fosse sporco, e toccarlo con le pareti del palato contaminasse il masticatore. Un po’ come fanno gli indiani quando bevono direttamente da una bottiglia di plastica, senza mai toccarla con le labbra. Misteri dell’uomo fatto bestia, imperscrutabili. Qualcuno di ampi orizzonti mi spieghi, per favore.


8 commenti:

  1. Complimenti Pietro. Sono un tuo fan(se posso permettermi di usare questo termine). Ho letto Tropico banana,l'ho trovato illuminante. Insomma,complimenti per il tuo lavoro e per lo spirito da viaggiatore(osservatore e mai saccente). Finalmente un artista italiano con le palle. Ti spetta un plauso!angelo

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  2. caro Angelo,
    grazie a te per le belle parole.
    'fan' va bene, anche se spesso mi ricorda i ventilatori.
    'artista' va meno bene (ma ti perdono), è un termine che ho depennato dal mio dizionario (assieme a 'tipico' e 'sinergia'), in quanto a dir poco abusato. in Brasile è pieno di disoccupati che si vendono come 'artisti', e in generale il globo è sovraffollato da gente che si spaccia come tale, manco appartenessero a una casta superiore. preferisco, se possibile, fotografo/scrittore/giornalista - roba da artigiani, in altre parole -, vedi tu. abbasso l'arte, evviva l'artigianato!
    un caro saluto e buon natale (panettone senza canditi, mi raccomando)
    Pietro

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  3. Viva l'artigianato dunque. Capita spesso che mi dicano che sono un artista. Io rispondo alla tua stessa maniera. Il mio lavoro(cuoco), è oggetto infinito di questa lotta arte o artigianato? Sono felice che tu la pensi come me. L'artigiano é comunque un artista?:-)Grazie per la risposta e complimentoni per il tuo lavoro. Buon Natale,ti farò sapere com'è andata col panettone(senza canditi ovviamente):-)

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  4. per me i vari artisti sono i panettieri/giornalai/infermieri che si svegliano alle quattro del mattino e vanno a farsi il mazzo. quelli che si presentano agli altri come 'artisti' li manderei a spaccare pietre in qualche campo di lavoro cambogiano, se solo Pol Pot fosse ancora vivo. cuoco: GRANDE lavoro. quando i prezzi delle fotografie saranno crollati del tutto (siamo molto vicini) mi dedicherò alla mia seconda passione, la cucina. che cosa fai di buono? e dove? sto accrezzando l'ipotesi di aprire un mio ristorantino, burocrazia e investitori permettendo, qui a Okinawa, dove mi trovo al momento. i giapponesi sanno riconoscere la vera arte...

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  5. Okinawa? Com'é? Deve trattarsi di un posto assurdo. Cosa cucino? Ho 29 anni e dopo 13 passati in ristoranti di tutti i livelli di Italia e Spagna,comincio a fare la mia cucina,con prodotti stagionali e a km 0. Al momento sto a a Catania mia città natale. Una delusione! Vedere la città di Bellini,di Verga e di Battiato,trasformata in una seconda capitale del neomelodico napoletano di bassa lega,mi fa male. Rimarrò ancora qui qualche mese,poi mi sposterò,dove non saprei. La cucina che tanto paragono al viaggio,per me é vita. Spero che il tuo soggiorno nell'arcipelago giapponese,porti a scatti stupendi,che spero di vedere presto. Un saluto grande. Angelo

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  6. Okinawa? una figata, a mio parere. se ti va di vedere un po' di mie foto dell'isola e hai tempo, fai un giro su

    http://www.agefotostock.com/age/ingles/isphga01.asp?querystr=okinawa&ph=scozzari&Page=1

    posto abbastanza 'assurdo', yesss. una volta vi ho mangiato la pizza CON LE BACCHETTE da 'Buono Pizza' ('buono' è sempre molto soggettivo).
    beh, se la Catania che-potrebbe-essere-ma-che-non-è (più) ti sta stretta, con il tuo lavoro puoi farti un giro oltre i Bastioni di Orioni e vedere Altro, sgobbando al tempo stesso, no?
    la cucina italiana ti può portare ovunque, è un dato di fatto, e volere è potere (scusa la banalità). ora mi hai fatto venire fame... ciaoooo

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  7. Molto belli i tuoi scatti. Certo dev'essere una figata di posto. per quel che riguarda il mi sono rotto e mollo tutto,lo sto pensando seriamente!!! il locale dove lavoro chiuderà per l'estate e volevo farmi un paio di mesetti all'avventura in Brasile. Da tempo voglio visitarlo e con il tuo libro mi sono finalmente deciso. Volevo fare la parte nord. se hai qualche consiglio su itinerari,cose da vedere e quanto,ne sarei molto felice. Chissà che non riesca a trovare un lavoro da cuoco in Brazil. io ci conto. intanto tengo accesa la voglia:-). Un saluto Pietro,e beccati questa,dagli scatti di Okinawa, alla musica brasiliana:-)http://www.youtube.com/watch?v=E-FdGG05Uh0

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  8. caro Angelo, la fuga in Brasile è sempre una tappa fondamentale dell'uomo. ti consiglio almeno due anni, anziché due mesi (troppo pochi per capire un Paese così complesso). se vai a Nord e vuoi lavorare ti consiglio... di trascinarti qua e là, finché non troverai un posto che senti tuo. a me Sao Luis, nel Maranhao, dà belle sensazioni, anche se è piccolina e apparentemente congelata nel tempo. gli indigeni, poi, non hanno idea di che cosa sia la vera cucina italiana. perché non gliela insegni tu? così la prossima volta che ci torno so dove andare. boa sorte (buona fortuna)!

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