Al
mondo ci sono batik non solo indonesiani, ma anche africani, giapponesi,
sudamericani, indiani, nepalesi e singalesi, realizzati secondo stili e gusti
diversi, tutti con una caratteristica comune: un unico metodo di colorazione
del tessuto. Trattato ‘in negativo’, quasi come una pellicola fotografica, il
telo bianco di base viene disegnato utilizzando la cera come coprente.
Non si
sa esattamente chi fu il primo a utilizzare la cera calda per impermeabilizzare
le parti che non si volevano tingere. I primi artigiani sicuramente si
trovarono di fronte a questo problema, dopo aver scoperto che i tessuti
potevano essere colorati con tinte vegetali e che queste rimanevano fissate,
una volta immerse le tele nel bagno di colore. Successivamente, i tessuti
vennero esposti per periodi più lunghi al sole, permettendo l’ossidazione dei
colori. Per combinare le brevi immersioni nella tintura e stampare
indelebilmente i disegni tracciati sul tessuto bisognava operare al ‘negativo’,
cioè trovare qualche materiale che impedisse l’assorbimento del colore in
corrispondenza della sagoma bianca del disegno e consentisse successive
immersioni in bagni di tintura di colore diverso. In origine, prima di passare
alla cera sciolta, si pensò di ricoprire alcune parti del tessuto con materiali
quali la fecola di patate, la pasta di riso, oppure legando strettamente parti
della stoffa con fibre vegetali.
Le
ipotesi riguardo alla nascita del batik sono diverse, e vedono come probabili
luoghi d’origine l’India del Sud - dalla quale si sarebbe diffuso in Indonesia
-, l’Egitto o l’antica Persia, ma quelle più attendibili intravedono
nell’Indonesia la vera culla di questa arte. A Giava, terra probabilmente
originaria del batik, è noto l’uso antico del canting (o tyanting, utilizzato
ancor oggi), un piccolo serbatoio di rame, montato su un manico di canna,
dotato di un sottile cunicolo di vario spessore che permette di dosare e
spargere la cera calda secondo la larghezza e le linee desiderate. I disegni
così ottenuti risultano più definiti e, addirittura, puntiformi, non più a
grandi masse, come accadeva in precedenza in altri paesi, ove veniva usato il
pennello (ancor oggi) o altro. Le tracce sulla stoffa, ottenute con il canting,
sono più raffinate e accurate, e danno una migliore qualità del prodotto finale.
La cera, indispensabile per questa tecnica, sembra venisse originariamente
dall’isola di Sumatra, nota fin dai tempi antichi per l’apicoltura. Il termine
‘batik’ deriva, infatti, dalla parola indonesiana tik, la goccia (di cera), che
viene depositata sul tessuto tramite il canting.
Oggi,
a qualunque latitudine il batik venga prodotto - grazie alla domanda dei
turisti, in costante spostamento in ogni angolo del globo - la sua
fabbricazione segue un processo di base, comune a tutti gli artigiani. In Indonesia,
in particolare, le fasi di fabbricazione sono undici, e la produzione di un
buon batik tradizionale può richiedere anche sei mesi di lavoro costante e
accurato. Innanzitutto, su un lucido viene disegnato il profilo delle figure
che si vorranno far apparire sul prodotto finale. Questa sagoma viene
perforata, con la punta di un ago, o qualcosa di simile. Il lucido viene fatto
poi combaciare con il telo di base, bianco; un vecchio lenzuolo può essere un
ottimo sfondo. Una tinta scura, solubile all’acqua, è quindi fatta passare con
un pennello in corrispondenza dei forellini, così da rimanere tracciata sulla
tela bianca. Il lucido viene tolto - può essere riutilizzato per altri batik
uguali - e il disegno, nella sua forma primaria, rimane così impresso sulla
stoffa. Alcuni abili disegnatori, come le donne indonesiane, tuttavia, non
eseguono questa prima fase, essendo perfettamente in grado di disegnare a mano
libera, direttamente sul tessuto bianco (mori), la cui qualità ha una grande
influenza sul risultato finale. Il tessuto neutro, cioè, deve essere
estremamente pulito e stirato, senza pieghe che possano impedire l’aderenza
della cera. In Indonesia, addirittura, la tela bianca viene inizialmente
depurata da ogni asperità per mezzo di martellate (utili a indebolire le fibre
e prepararle ad assorbire meglio il colore) e un bagno d’olio (solitamente di
arachidi), al quale segue un’immersione in un composto di cenere e di paglia di
riso e acqua, necessaria per rimuovere l’eccessiva oleosità. Il tessuto, quindi,
viene fissato a un telaio, ben teso. Cera neutra (di api, così come paraffina o
resina usate allo stato puro o mescolate tra loro in quantità variabili),
contemporaneamente riscaldata su un fornellino a gas e raccolta in una
bacinella di metallo, viene passata, sempre per mezzo di un pennello o del canting
sulla tela, a seconda del disegno dell’artista-artigiano, in corrispondenza
delle parti che si vogliono lasciare prive di colore e che daranno il profilo
dell’opera finale: ad esempio, le linee dei muri delle case, degli alberi,
delle montagne; oppure i profili delle figure antropomorfe o floreali. Alla
fine di questa fase la stoffa appare come il negativo di una pellicola, sulla
quale sono tracciati i limiti che comporranno l’immagine, mentre le zone che
verranno colorate rimangono bianche.
Attraverso una sequenza di tinte chimiche, solubili in acqua, si passa alla fase della colorazione. La prima tintura, solitamente, è quella nell’indaco, il colore di base, che non deve assolutamente intaccare i profili del disegno, ricoperti di cera: se questo colore passerà attraverso, bisognerà rincominciare tutto daccapo. La stoffa viene quindi immersa in bagni successivi di colori complementari, che rimangono fissati sulla tela se la sequenza è stata seguita correttamente. In pratica, ad esempio, il nero si fisserà solo se prima si è passati attraverso tutti gli altri colori della scala cromatica (indaco, giallo, rosso, ecc.). Se alcune parti del batik vanno tinte con colori che si trovano all’inizio della sequenza (ad esempio il giallo), basta fare attenzione a non immergere nuovamente quella parte di stoffa nei bagni successivi, tenendola sospesa fuori delle vasche di colorazione.
Attraverso una sequenza di tinte chimiche, solubili in acqua, si passa alla fase della colorazione. La prima tintura, solitamente, è quella nell’indaco, il colore di base, che non deve assolutamente intaccare i profili del disegno, ricoperti di cera: se questo colore passerà attraverso, bisognerà rincominciare tutto daccapo. La stoffa viene quindi immersa in bagni successivi di colori complementari, che rimangono fissati sulla tela se la sequenza è stata seguita correttamente. In pratica, ad esempio, il nero si fisserà solo se prima si è passati attraverso tutti gli altri colori della scala cromatica (indaco, giallo, rosso, ecc.). Se alcune parti del batik vanno tinte con colori che si trovano all’inizio della sequenza (ad esempio il giallo), basta fare attenzione a non immergere nuovamente quella parte di stoffa nei bagni successivi, tenendola sospesa fuori delle vasche di colorazione.
Tra
un bagno di colore e l’altro viene tolta la cera, sciogliendola in acqua bollente
e raschiandola manualmente, per poi venire applicata di nuovo, a seconda delle
esigenze di colorazione, prima della tintura successiva. Alcuni colori che non
siano in grado, da soli, di fissarsi sul tessuto - come il marron -, vengono
‘aiutati’ con l’aggiunta di un mordente chimico. Se il disegno finale è
caratterizzato da particolari troppo minuti per essere tinti grossolanamente,
con soli bagni in sequenza, è necessario l’uso del pennello, unito a una
copertura a mano con la cera delle parti di colore differente.
Attraverso
un lavoro che può durare anche più di un mese, tinta dopo tinta, il batik
giunge alla sua fase finale. Per un migliore assorbimento delle tinte, durante
le fasi successive di colorazione, la tela va immersa nei bagni e agitata energicamente,
strofinandola con l’ausilio di spessi guanti di gomma, impermeabili ai potenti
coloranti chimici. La tela, infine, dopo essere passata attraverso tutte le
fasi della colorazione, viene stesa al sole, necessario per ossidare e fissare
definitivamente le tinte.
Fra
gli artigiani del batik c’è ancora chi afferma di utilizzare esclusivamente
colori naturali, ma è difficile crederlo, almeno per quanto riguarda le tele
vendute ai turisti e prodotte su larga scala: i colori chimici sono molto più
facilmente e rapidamente reperibili, sono più economici e si fissano meglio.
Gli
stili del batik variano da regione a regione, secondo le tradizioni culturali
del popolo che li produce e la domanda dei compratori. In Africa predominano le
figure antropomorfe (guerrieri, contadini, danzatori, ecc.), mentre in Sud
America i temi naturalistici hanno la maggior frequenza. Singolari sono i batik
giapponesi, ove lo stile riprende forme e soggetti dei fumetti locali: orsetti
e samurai, buffe mucche pezzate e civette.
In
Indonesia, probabile terra madre di questa arte, i temi ricorrenti sono i più
disparati, variando dalla flora e la fauna, fino a soggetti che potremmo
definire ‘astratti’. A grandi linee, possiamo suddividere questi temi in motivi
geometrici e in temi non geometrici: i primi sono il banji (di influenza
cinese), il ceplok (stilizzazione di esseri viventi), il kawung (assai antico,
che riprende in forma stilizzata la pianta del capoc), il nitik (motivo
puntiforme, che imita la tessitura delle stoffe, secondo una combinazione di
punti e linee) e il garis miring (motivo a linee diagonali). Tra i motivi non
geometrici, invece, troviamo il semen (‘bocciolo’, motivo composto da gemme,
montagne, templi, fiori, piante e animali) e il lookyan (di influenza cinese, con
elementi floreali e animali).
Ogni motivo rappresenta un simbolo, un concetto
ideale, e la sua scelta dipende dal messaggio, culturale o religioso, che si
vuole comunicare. Anche la scelta dei colori, mai casuale, è simbolica: il
bianco, per esempio, rappresenta la nascita, il rosso la crescita, l’arancione
la vita matura, il blu la notte e la morte. Nel grande arcipelago indonesiano,
inoltre, diverse sono le tecniche di lavorazione, a partire da quella manuale (tulis),
fino a quella più moderna, eseguita a macchina: i batik stampati (tyap), assai
più economici, sono largamente usati come sarong, l’abito unisex nazionale.
Altrettanto numerosi sono gli utilizzi dei prodotti finiti: dai quadri alle
tende, dai cuscini agli abiti, dai costumi per la danza agli scialli (slendang)
o ai copricapi (kain kepala). Nel
subcontinente indiano, invece, fondamentale è la tematica religiosa, indù,
buddista o musulmana, a seconda delle regioni di produzione, con immagini e
situazioni che si rifanno alla mitologia delle diverse dottrine e alla storia
dei tanti dèi. I batik nepalesi, infine, ultimi arrivati nel tempo, seguono
fedelmente la domanda del sempre crescente turismo, e imitano, a grandi linee,
stili e soggetti indiani e tibetani, secondo una moda e una richiesta di mercato
dettata dal gusto dei visitatori stranieri.
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