venerdì 9 marzo 2012

THAILANDIA - I POPOLI DELL'OPPIO


Trekking fra le tribù del Triangolo d’Oro

Un ritratto di alcune fra le tribù che abitano il ‘Triangolo d’Oro’, la zona compresa fra Thailandia, Myanmar e Laos, il cui principale mezzo di sostentamento è l'oppio, coltivato e venduto ai trafficanti locali. La vita di queste popolazioni, minata da una crescente perdita d’identità grazie a un turismo sempre più invadente, però, non è incentrata esclusivamente su questo commercio: tradizioni e riti antichi ancora stentano a morire.




LISU

I Lisu sono una popolazione di origine tibeto-birmana che vive sulle montagne nel Nord della Thailandia, nelle province di Chiang Mai, Chiang Rai, Mae Hong Son e Tak. Sono facilmente distinguibili dalle altre tribù che vivono nella zona per i costumi coloratissimi. Arrivarono in Thailandia circa un secolo fa, partendo dal Tibet e attraversando le province cinesi dello Yunnan, del Sichuan, e la Birmania. Molti Lisu, tuttavia, sono rimasti in Cina e in Birmania: i loro ‘parenti’ thailandesi, nel corso del tempo, hanno modificato diversi costumi tradizionali, soprattutto per quanto riguarda l’abbigliamento.


Primo giorno - Non mi era mai capitato di svegliarmi perché un pollo mi cammina sulla faccia, ma nel villaggio Lisu ciò è normale, anche se alloggiamo nella capanna del capo tribù. È qui che, dopo una faticosa giornata di trekking, ci siamo fermati per trascorrere la notte e la mattinata seguente. Fatto il bagno sotto la cascata poco fuori dal villaggio, e lavati i vestiti sporchi, una bambina, canticchiando tra sé Fra’ Martino Campanaro in versione thailandese, imparata da chissà quale turista, ci accompagna attraverso lo stretto sentiero che porta alla capanna principale, adibita ad ospitare i visitatori: è quella del capo del villaggio, la più spaziosa.
A volte i Lisu costruiscono le loro abitazioni a livello del terreno, altre su palafitte. I letti sono lunghi sedili di bambù e stoppie, sui quali dormiamo in quindici, assieme alla numerosa famiglia del padrone di casa. All'interno della fumosa e annerita capanna si trova anche la ‘cucina’ - quattro pietre e un braciere -, che scarica tutto nell'unica grande stanza. Sotto il tetto di paglia, attraverso fessure, svolazzano vorticosamente alcune rondini, che hanno costruito il loro nido dentro alla casa, nel punto di intersezione fra le travi reggenti. I bambini indossano costumi meravigliosi dai colori luminescenti, e alcuni hanno lineamenti orientali, mentre altri potrebbero essere di origine europea. Facciamo subito amicizia, anche se, per problemi di lingua, non possiamo dialogare: il linguaggio delle caramelle - che chiamano bubù -, però, è universale, e qui, sulle colline sperdute, valgono come oro. La malsana abitudine dei turisti di distribuire oggetti in regalo ai bambini ha instaurato nel tempo un odioso rapporto turisti/locali basato sull'elemosina. Ogni scusa è buona per domandare, ai ‘ricchi’ visitatori, penne, monete (usate più che altro a scopo decorativo, infilate in lunghe collane), caramelle, braccialetti, biglie di vetro.
La pulizia è un concetto estraneo alle popolazioni del ‘Triangolo d'Oro’: porci, bufali e galline convivono in perfetta simbiosi con gli esseri umani, mescolati in una confusione totale di colori e di mosche, il cui evidente risultato è una gamma completa di infezioni della pelle, visibilissima soprattutto sui bambini. I costumi tradizionali dei Lisu sono caratterizzati da vive tinte a strisce, che coprono tutto l’abito e confluiscono in una lunga coda a pompon, annodata all’estremità della cintura che tiene ferme le gonne. Altrettanto luminosi sono gli orecchini, costituiti da piumini viola, quasi fosforescenti, e da una singolare catenella d'argento che, passando sotto il mento, va da un orecchio all'altro. Le donne, in particolare, indossano pantaloni neri che arrivano alle ginocchia, accompagnati da ghette rosse. La mia attenzione è attirata da una bambina che sta armeggiando con i propri vestiti, non capisco cosa stia facendo: avvicinandomi, mi accorgo che si sta ‘lavando’, quasi di nascosto, seduta sul terreno e scrostandosi - letteralmente - la sporcizia di dosso con una forcina per capelli, cercando di coprirsi pudicamente con una coperta.
Tutti, nel villaggio, masticano foglie di betel, che accelera la salivazione e la colora di rosso: il terreno è, ovunque, a pois carmini. Il gioco preferito dai bambini Lisu è la fionda, una semplice quanto efficace ipsilon di legno intagliato. Alcuni bambini scavano buche profonde per raggiungere la terra umida e farne, appiattendola con i palmi delle mani, delle palline: queste, quindi, vengono sistemate su piatti di metallo e lasciate essiccare al sole, fino a diventare dure come pietre. I bersagli preferiti, sia dai maschi sia dalle femmine, sono gli innumerevoli animali che vagano dovunque.
Il capo del villaggio, prima di lasciarci ripartire, ci descrive qualcuna delle usanze dei Lisu. Lo stregone del villaggio, oltre a dover conoscere tutto riguardo alla magia occulta, alla medicina e al rito matrimoniale, è tenuto anche a saper esorcizzare gli spiriti cattivi insiti nel bambino appena nato, in occasione del parto. Per fare ciò, pesta ripetutamente il terreno della capanna in cui il bimbo è venuto alla luce, scacciando gli spiriti malvagi. Inoltre, ogni bambino di un anno deve avere un padre adottivo, che diventa parte della famiglia, dopo aver legato - a suggello del suo impegno - qualche moneta al polso del protetto, e ricevuto in regalo un pollo dai genitori. Tutto il villaggio, poi, è protetto da uno spirito, al quale è dedicato un santuario apposito, seminascosto in una zona sacra dell agglomerato.


Per quanto riguarda la vita coniugale, le donne possono prendere marito già a quindici-sedici anni. Per esternare la loro volontà in tale senso, devono partecipare a una cerimonia apposita, durante la quale lo stregone dona loro un disco d'argento. Viene poi scelta accuratamente la data del matrimonio, facendo attenzione che sia un giorno di buon auspicio: non tutti lo sono nel calendario Lisu, e da evitare, per un buon matrimonio, sono soprattutto i giorni del Dragone, della Tigre e del Maiale. Nel giorno scelto dallo stregone, secondo il rito animista dei Lisu, vengono sacrificati alcuni maiali.
Una volta sposatasi, la donna Lisu perde totalmente la propria libertà, e diventa, in pratica, una serva del marito. Non può andare dove desidera né lamentarsi per alcuna ragione e, se il consorte muore, diviene di proprietà della famiglia del defunto. Si potrà risposare solo con il consenso di questa, e la dote pagata dal secondo pretendente sarà molto alta.
Anche i funerali seguono un cerimoniale stretto e rigoroso. Il defunto viene seppellito vestito di abiti nuovi e usati, assieme a cibo e bevande. A seconda della sua età sono sacrificati polli o maiali, di diversa grandezza. La processione funebre è capeggiata dall'onnipresente stregone che, questa volta, stringe in una mano una bandiera di carta bianca e porta, sulle spalle, una sacca piena di vestiti del defunto. Più lo scomparso era ricco, maggiore è il volume dei vestiti che lo stregone si deve caricare addosso. Se il defunto era molto ricco, allora lo stregone si farà aiutare da un mulo. Nella famiglia dello scomparso si piange per alcuni giorni, e chi non lo fa, magari perché proprio non ci riesce, viene considerato con disonore. Al cimitero si annuncia in paradiso l'arrivo dell'anima dello scomparso, con scoppi di ogni genere: petardi e pistolettate. I familiari continueranno a fare offerte al defunto per tre anni: entro quel periodo l'anima sarà sicuramente rinata.


AKHA

La popolazione degli Akha vive disseminata in un centinaio di villaggi tra il Sud della Birmania e il Nord della Thailandia. Sono arrivati dalla Cina (dallo Yunnan, dove vivono numerosi ancor oggi) circa un secolo fa, attraversando il Laos, il Vietnam e la Birmania orientale. Stabilitisi sulle colline thailandesi, oggi se ne contano circa venticinquemila.


Secondo giorno - L'entrata nel villaggio Akha già fa presagire un ambiente diverso da quello incontrato nella tribù dei Lisu, forse troppo abituata alla visita degli stranieri: un arco rudimentale in legno, presso il quale gli spiriti - effigi ricavate da tronchi, con sembianze antropomorfe - presidiano la sicurezza degli abitanti, segna il confine.
Addentrandosi lungo il sentiero principale, che divide in due il villaggio, un fatto balza immediatamente all'occhio, sui volti dei bambini che ci accolgono correndoci incontro, sulle abitazioni e sugli animali: la forte sporcizia, che rende tutto più scuro, tingendo l'intero paesaggio di una tonalità marrone. I bambini giocano fra escrementi di bufalo grandi come montagne, e i più sembrano averne preso il colore.
Anche qui troviamo alloggio presso la capanna più ampia, una palafitta in bambù e paglia, il cui proprietario è il capo del villaggio. Lo spazio interno è diviso da una parete a mezza altezza, e una porta mette in comunicazione la metà riservata alle donne - dove si trova l'altare degli antenati - con quella degli uomini. È il capo stesso, immediatamente, che ci narra qualcuna delle loro usanze.
Gli archi, posti uno all'entrata e uno all'uscita del villaggio, segnano i confini, e ogni anno sono spostati - generalmente di pochi centimetri - per indicare di quanto l'abitato sia cresciuto. A volte, però, le vecchie porte sacre non vengono abbattute o spostate, ma sono lasciate in piedi, così da formare una specie di corridoi rituali. Ogni cosa, nel villaggio, ha il proprio spirito: quelli posti all'entrata - gli spiriti della giungla - servono per preservare nel tempo la fertilità degli Akha, mentre quelli presenti in ogni casa proteggono la famiglia che vi abita. Il culto animista degli Akha vuole che, attraversando gli archi posti alle entrate del villaggio, gli abitanti si liberino degli influssi negativi provenienti dall'esterno.



Fra le tante feste del calendario Akha c'è anche quella per scacciare gli spiriti malvagi, prima della quale si sacrifica un cane: buoi e galline sono tenuti ‘di riserva’, qualora di cani, in circolazione, non ce ne siano più. Secondo il rito animista degli Akha, tre sono i modi per sacrificare il cane, tutti agghiaccianti. Il primo consiste nell'impiccagione e nel successivo taglio delle zampe posteriori, finché l'animale non muore dissanguato. Il secondo, ancora più crudele, consiste nell'appendere il cane a una trave, per poi divaricargli la bocca con un bastone e riversargli acqua rovente nelle viscere. L'ultimo metodo d'immolazione si risolve nel bastonare sul naso la bestia dopo averla drogata, fino alla morte. Sta al sacerdote scegliere il metodo: una volta terminata la cerimonia, il cadavere dell’animale viene appeso a uno degli archi, e vi rimane finché non va in putrefazione. La festa per scongiurare gli spiriti maligni non è, tuttavia, l'unica causa dell'alta mortalità, presso gli Akha, del ‘migliore amico dell'uomo’. La carne di cane, infatti, qui è considerata prelibata quanto quella di qualsiasi altro animale. Tuttavia, gli Akha ritengono che se la bestia piangerà al momento dell'uccisione la sua carne non sarà commestibile. Viceversa, se morirà in silenzio - c'è da domandarsi come ciò possa avvenire -, sarà squisita.


Sulla collina più alta del villaggio domina una strana costruzione: tre pali incrociati e una lunga corda, aventi una duplice funzione: ogni anno, durante la Festa dell'Altalena, le donne ci si dondolano, appese alla corda per quattro giorni, festeggiando così l'arrivo dell'anno nuovo. Gli uomini festeggeranno il loro capodanno separatamente, senza il divertimento dell'altalena. Ma gli stessi tre tronchi fungono anche da forca per impiccarvi chi ruba, e chi compie adulterio o qualche raro omicidio.
Donne e uomini vivono separatamente, anche se sposati. Mangiano e dormono ognuno nella propria casa: è per questo motivo che il villaggio degli Akha sembra così grande, anche se sono in pochi a viverci. La cerimonia nuziale dura tre giorni, e i festeggiamenti sono imponenti. Solo in questa occasione le donne si possono vestire di bianco, altrimenti indossano sempre un vestito nero. Per sposarsi, gli uomini pagano simbolicamente una moneta d'argento alla famiglia della sposa. Durante la cerimonia i due siedono al centro di una grande stanza, e gli invitati (tutti gli abitanti del villaggio) hanno a disposizione tre palle di riso a testa, da scagliare contro i due sposi, mentre questi tentano di consumare il loro pasto nuziale. Durante il primo giorno di festeggiamenti si uccide un pollo su di un altare, e tutto il villaggio smette di lavorare. Gli uomini costruiscono una capanna di bambù da utilizzare come momentanea alcova per i due, fino a quando non avranno deciso di fare ritorno ognuno alla casa dei propri parenti. Prima del matrimonio il rapporto fra uomini e donne è piuttosto agitato, nel senso che una donna può anche avere tre fidanzati contemporaneamente: quando, però, avrà deciso quale dei pretendenti sposare, scoppieranno lamentele furibonde fra gli insoddisfatti.


Grossi problemi sorgono quando una donna Akha partorisce un bambino deforme o mentalmente ritardato, con sei dita o con un gemello. Gli Akha sono inorriditi da tutto ciò, ne hanno un enorme timore, tant'è che generalmente uccidono questi sventurati sotto gli occhi della madre, che viene obbligata ad assistere alla scena. In seguito questa viene mandata in esilio per tre giorni, vestita di sole foglie: le sarà permesso di fare ritorno solamente dopo che avrà incontrato qualcuno ‘di buon auspicio’, che l'avrà fornita di nuovi abiti e di alloggio. Ma la nuova vita nascerà, per la donna, solo dopo aver sacrificato tre cani, tre maiali e tre capre. La casa che ospitava la famiglia e tutti i suoi averi vengono bruciati, e la donna potrà abitare solo in una nuova piccola capanna alla periferia del villaggio. Incontrando gli altri Akha non potrà parlare con loro, né le sarà permesso di attingere acqua alle diverse fonti del villaggio: per bere dovrà andare fino alla cascata principale, di solito piuttosto distante. Quando, eccezionalmente, una delle persone ritenute ‘anormali’ viene lasciata in vita – di solito questa fortuna capita solo a quelli nati con sei dita -, la si utilizza come ‘spaventa-creditori’: se, ad esempio, un Akha compra a credito un maiale da un altro villaggio, vi manda a saldare il debito il nato deforme, così che il creditore - nove volte su dieci - scappi terrorizzato, rinunciando di conseguenza al denaro.


Nel villaggio Akha la sveglia viene data alle quattro e mezza, quando tutte le donne si alzano per andare a raccogliere il riso necessario per la giornata: questo viene pulito verso le cinque e mezza, battendolo in una vasca di pietra per mezzo di una lunga leva di legno. Poi c'è la raccolta dell'acqua, visto che il villaggio, generalmente, non ha fonti al suo interno. Così tutte le donne - gli uomini sono appena andati a dormire, dopo una notte passata a fumare oppio -, si caricano la schiena di zucche vuote da riempire alla cascata principale. Il resto della giornata viene trascorso a cucinare, scacciare galline e maiali dal riso lasciato a seccare, e a masticare foglie di betel. Le madri non accudiscono minimamente, se non per lo stretto indispensabile, i loro bambini, e li lasciano scorrazzare per tutto il giorno nella più indescrivibile sporcizia. Davanti ai miei occhi uno di essi, di circa quattro anni, completamente nudo, corre giù per la discesa del villaggio, inciampa, cade con la faccia sopra ciò che il bufalo, da poco passato, ha lasciato sul terreno. Si rialza, tocca il viso, e scoppia a piangere.
Durante il giorno i pochi uomini che ne hanno voglia lavorano nei campi di riso o di papaveri da oppio, quand'è la stagione. Ma l'unica attività che sembra davvero impegnarli, come scende il buio, è un'eterna, intensa, lenta fumata d'oppio che dura tutta la notte, per addormentarsi, finalmente, poco prima dell'alba.


Alla mattina il nostro risveglio è a dir poco sconcertante: ai piedi della nostra capanna un cane è stato ucciso durante la notte, strangolato con una catena, e adesso un bambino ci ‘gioca’, bastonandolo ripetutamente sul cranio e sui testicoli. Poi un altro lo afferra per il ‘collare’ che lo ha strangolato e, dopo averlo trascinato attraverso tutto il villaggio, lo scaraventa, come fosse spazzatura, giù dalla rupe.
Lasciando il villaggio Akha passiamo attraverso l'arco d'uscita, stando ben attenti a non sfiorarlo.



LAHU NYI

I Lahu vivono in Birmania e nelle province thailandesi di Chiang Mai, Chiang Rai e Mae Hong Son. Sono arrivati dalla Cina, passando attraverso la Birmania durante l'ultimo secolo, e oggi sono divisi in quattro sottotribù: i Nyi, i Na, gli Shi, e gli Shele. In Thailandia, tuttavia, sono tutti noti anche con il nome di Musur.


Terzo giorno - I primi ad accoglierci sono i cani e i maiali, che fanno da guardia all'entrata del villaggio, costruito sulla discesa di una collina con poca vegetazione. Poi arrivano i bambini; sono tutti nudi o vestiti a metà, e giocano con ogni cosa: bufali, porci, gatti, ma anche con le immondizie, disseminate ovunque, tra escrementi di vacca e latrine all'aperto. Anche qui la capanna del capo-tribù è la più grande, e tutti gli abitanti vi entrano per osservare i nuovi arrivati. È una palafitta costruita con un bambù piuttosto elastico, e il tetto è fatto di stoppie e foglie di palma, necessarie per tenere fuori l'acqua. Al centro dell'unica grande stanza c'è la ‘cucina’, quattro pietre e un focolare, adoperato anche per riscaldarsi durante la stagione fredda. I servizi igienici sono costituiti dai sentieri che si snodano attorno alle abitazioni. Oggi c'è il ‘dottore’ (un semplice piazzista di medicinali), venuto dalla città in motocicletta. Espone al capo le sue medicine - soprattutto contro la malaria - , in gran parte cinesi, cercando di spiegarne l'uso. Il capo ha ventisei anni e sei bambini: il primo l'ha avuto a tredici anni, e la moglie è ancora più giovane di lui. Tutti sono riuniti con curiosità attorno a noi, e qualche bambino con escoriazioni infettate dalla sporcizia viene a farsele curare dai nostri disinfettanti spray, qui considerati un rimedio miracoloso. I buchi nella cute sono impressionanti, qualsiasi medico occidentale inorridirebbe solo a vederli. Qui, i bambini, li indossano con disinvoltura.
È sera, finalmente è giunta l'ora di relax dopo la giornata trascorsa a lavorare nei campi, e gli uomini, così come le donne, si concedono una sosta, fumando enormi foglie di tabacco od oppio, accovacciati ‘alla turca’ in mezzo alla strada. Gli uomini più giovani e forti, però, sono ancora nei campi, al lavoro, e vi rimarranno tutta la notte. Qualcuno, invece, ha un'occupazione specifica all'interno del villaggio, come fabbricare i fucili da caccia, dalle canne lunghissime, estremamente precisi.


Il lavoro minorile nel villaggio (e in tutta la Thailandia) è considerato semplicemente lavoro, senz'alcuna distinzione per fasce d'età: che tutti lavorino è cosa scontata. Già a pochi anni i bambini portano a pascolare le mandrie nei monti, oppure aiutano la famiglia nei campi, soprattutto durante la stagione della raccolta dell'oppio. Anche in questa occasione il capo-tribù ci racconta qualche usanza della sua popolazione.
Il matrimonio viene celebrato in due modi differenti: con cerimonia - e una grossa dote in denaro -, oppure senza cerimonia, poche monete e tre polli per dote. Per i primi tre anni di convivenza la coppia vive alternativamente presso entrambe le famiglie, per poi decidere con quale delle due stabilirsi. Molte ragazze (adolescenti), però, non sono così fortunate da arrivare fino al matrimonio, perché spesso vengono prima vendute dai genitori ai bordelli di Chiang Mai o di Bangkok, con o senza il loro consenso, mediamente per una cifra di 50.000 Bath, un vero capitale nelle zone rurali thailandesi.
Il villaggio non è autosufficiente, dipende per i consumi in gran parte dalla città, piuttosto lontana. La sua estensione è commisurata all'importanza del suo capo: se questi è stimato il villaggio sarà grande, altrimenti piccolo quanto la stima che la tribù nutre per lui. Generalmente tutti i villaggi Lahu Nyi sono piuttosto piccoli. Il capo viene eletto da un'assemblea di dieci-dodici persone, uomini e donne, gli stessi che lo sostituiranno se risulterà corrotto o inefficiente. L'educazione è scarsissima, l'unica scuola è distante, e i pochi bambini che ci vanno la frequentano per soli due anni, a partire dal loro decimo compleanno. Anche i Lahu Nyi, inoltre, adorano gli spiriti (della casa, della natura), così come un essere divino superiore di sesso maschile e uno corrispondente di sesso femminile.


I Lahu sono emigrati dal Sud-est della Cina, dal Lang Chan, una regione autonoma dello Yunnan, circa duecento anni fa, spingendosi soprattutto in Birmania (dove oggi vivono in 50.000) e, solo ultimamente - dopo gli scontri etnici degli anni Cinquanta in Birmania -, anche nel Nord della Thailandia. Inizialmente appartenevano tutti ad un'unica tribù, quella dei "Gialli": poi si sono divisi in varie fazioni: quella dei "Neri" - "Rossi" (Nyi), "Neri" (Na) e Sheh Leh (o Shele) -, e quella dei "Gialli" - "Bianchi" (Shi Ba Lan) e Ba Keo -, riconoscibili a seconda dei differenti abiti. I Nyi indossano vestiti neri intrecciati da larghe strisce rosse, bianche e blu, che corrono attorno al collo e al petto. Anche i Na si vestono di nero, ma con sole strisce bianche. Gli Shi si distinguono per le orlature bianche e rosse, mentre gli Shele hanno pantaloni con lunghe ginocchiere penzolanti e ghette con tagli di colore blu. I diversi gruppi parlano dialetti differenti fra loro, ma il Lahu Na è compreso da tutti. Il motivo della loro incessante migrazione è la continua ricerca di nuovi terreni da coltivare: i Lahu sono agricoltori nomadi che sfruttano troppo intensamente i campi, esaurendone in breve tempo la fertilità, così da doversi trasferire circa ogni tre anni. I villaggi, di conseguenza, letteralmente si spostano: a volte le case vengono smontate e trasportate altrove intere, altrimenti sono bruciate sul posto e poi ricostruite. Un'altra causa del loro incessante trasferirsi è dovuta alle credenze riguardanti gli spiriti malvagi: quando qualcosa nel villaggio va male - qualcuno, per esempio, dopo aver fumato troppo oppio, si addormenta e cade nel fuoco -, la colpa non può che essere del luogo, maledetto dagli spiriti. Così alcuni iniziano ad andarsene, per essere poi seguiti da molti altri. Qualche anno fa il governo thailandese e il ministero per l'Ambiente, stanchi della continua distruzione delle colline dovuta ai Lahu, hanno cercato di porre un freno al loro perpetuo vagabondare, spesso respingendoli in territorio birmano.



YAO

Gli Yao un tempo abitavano alcune zone della Cina centrale, nelle province dello Tzechuan e del Kieng-tsi. Sotto la pressione di popolazioni vicine ostili migrarono verso sud (nel Guangxi), stabilendosi in aree che oggi fanno parte della Birmania, del Laos, del Vietnam e della Thailandia. In quest'ultimo Paese vivono nelle province settentrionali, sulle zone montuose di Chiang Rai, Chiang Mai, Lampang e Mae Hong Son, e sono noti anche con il nome di Mien. Molti Yao, tuttavia, continuano a vivere in Cina (circa un milione e mezzo), e sono l'unico gruppo etnico del Nord della Thailandia ad avere una tradizione scritta, riportata per mezzo degli ideogrammi cinesi.


Quarto giorno - Il villaggio Yao è costituito da case che poggiano sul suolo e da un piccolo laghetto al centro; le note delle litanie buddhiste birmane fanno da sottofondo, captate da una radio accesa. Esistono veri e propri ‘bagni’, separati dalle abitazioni, e racchiusi in un paio di capanne a sé. Anche qui i bambini giocano con ogni cosa: dal maialino nero di casa - mentre mangia nella stessa ciotola in cui, a orari diversi, si servono i cibi alle persone -, a vecchie latte di sardine riciclate, usate come bicchiere e secchiello per contenere la terra. Un altro bambino scala una pila di canne di bambù, mentre un coetaneo si diverte a giocherellare con dei fiori, strappati dalla pianta e indossati sulle dita, a mo' di artigli. Una donna cura l'infezione a un orecchio del suo figlioletto con un impasto di erbe medicinali, e il bambino strilla sonoramente.
Gli abiti delle donne Yao sono caratterizzati da tessuti in cotone nero o blu, decorati con una lunga stola di cotone rosso - che cinge il collo - e con un ampio turbante. I bambini più piccoli, invece, indossano colorati berretti decorati da grandi pompon rossi. Tutti vivono in case situate a livello del terreno, costruite in legno e bambù. Al loro interno un'ampia sala è divisa in due ambienti - uno per gli uomini, l'altro per le donne -, e le camere da letto sono separate da alcune assi. In tutte le abitazioni c'è un piccolo altare degli antenati, di fronte al quale si trova una porta, riservata agli spiriti della casa: il loro accesso è favorito da questa apertura a loro uso esclusivo. Questa credenza negli spiriti, unita a quella negli antenati, deriva dal taoismo, dal quale gli Yao, nel corso del tempo, hanno sviluppato una religione particolare. Come la maggior parte delle popolazioni del Nord della Thailandia, gli Yao rispettano tutti gli spiriti, inclusi quelli dei loro antenati, del Cielo, del Vento e della Foresta. Credono che questi possano proteggerli e dare loro prosperità, perciò fanno offerte in molte occasioni, come, per esempio, quando i raccolti sono abbondanti o quando ci si ammala. Le cerimonie di offerta, celebrate anche prima di intraprendere un viaggio, comportano il sacrificio di un maiale o di pollame. Dal momento che gli spiriti hanno un ruolo centrale nella vita e nella morte di tutti, le figure più importanti della tribù sono i praticanti di stregoneria. Se ammalato, uno Yao preferisce senz'altro lo stregone alle moderne medicine occidentali, prese in considerazione solo qualora lo stregone si riveli inefficace. Esistono due tipi di stregoni: il Toom Sai Kong, che si occupa del Grande Spirito, e il Sai Ton, che bada ai riti minori. Il primo, per essere considerato tale, deve godere di larga fama di esperto in materia.


Gli Yao sono piuttosto liberali in materia di costumi sessuali: un uomo e una donna, per convivere, non sono obbligati a sposarsi, e cambiare amante, così come avere figli illegittimi, è accettato da tutti. È tradizione che l'uomo, qualora metta incinta una donna, debba pagare una multa al capo del villaggio, consistente in una piccola somma di denaro e un pollo.
Le cure mediche, perfino nelle tribù meno primitive, vengono completamente ignorate durante la gravidanza. Al loro posto il marito, consapevole della nascita imminente, fa delle offerte allo spirito della casa - il Sam Dao -, e implora il suo aiuto. Chiede che la moglie sia forte durante il parto, che il bambino nasca sano e non abbia alcun handicap, e che entrambi, madre e figlio, godano di un benessere generico. Quindi l'uomo trasforma la casa in una specie di ospedale, pronto per il parto: il pavimento viene rialzato, formando una piattaforma, sulla quale pende una corda fissata saldamente al soffitto. Questa servirà alla donna, alcuni secondi prima del parto, per fare entrare una maggiore corrente d'aria all'interno dell'abitazione, aprendo una finestrella. Quando il bambino viene alla luce la levatrice del villaggio, stesa sulla paglia, taglia con un coltello di bambù il cordone ombelicale: verrà messo in un cesto e sarà appeso a un albero a essiccare. Lo stregone ‘superiore’ è responsabile anche di cerimonie quali il Pienhoong (Omaggio agli Spiriti), e in casi di malattia grave.
La morte di uno Yao viene celebrata lasciando il corpo su una barella dai tre ai cinque giorni se il defunto era ricco, per uno solo se era povero. Dopo il bagno di rito, il cadavere viene posto in una bara per essere sepolto o cremato. La cerimonia viene tenuta in casa se il defunto è morto al suo interno, altrimenti all'aperto, nel piazzale del villaggio. La sepoltura o la cremazione vanno invece assolutamente tenute al di fuori del villaggio, per scaramanzia. Nello scegliere il luogo adatto alla sepoltura o alla cremazione lo stregone lancia un uovo di gallina in aria e, laddove cade, giaceranno il corpo o le ceneri.


LA COLTIVAZIONE DEL PAPAVERO DA OPPIO

Il campo di papaveri è generalmente ben nascosto, anche se tutti sanno benissimo dove, tra la vegetazione fitta, poco distante dal villaggio. Le piante giovani vengono interrate tra agosto e novembre, a un'altitudine che va dagli 800 ai 1300 metri. In dicembre il papavero produce i fiori - bianchi e rossi - e i semi. I petali iniziano a cadere dopo circa quattro mesi; segue quindi la stagione della raccolta del lattice, tra gennaio e marzo. È in questo periodo che il papavero viene intagliato - dal basso verso l'alto -, per non più di tre volte (dopo ogni taglio la qualità del lattice diminuisce). Il lattice è quindi raccolto in piatti di latta o su cortecce di bambù, ed è di colore bianco vivo. Lasciato coagulare per circa quattro ore, si trasforma in oppio grezzo, di colore marron scuro, colloso e appiccicoso come catrame. Bollito e filtrato, solamente il 40% del raccolto rimane sotto forma di oppio puro, da consumo: da dieci chilogrammi di oppio si ottiene ‘appena’ un chilo di eroina. Il governo thailandese sta tentando da anni - almeno ufficialmente - di sostituire la coltura del papavero da oppio - dichiarato illegale nel lontano 1959 - con altri tipi di coltivazione, ma con scarsissimo successo. In certe zone isolate l'oppio è ancora un prodotto di base, a volte utilizzato come moneta.



Il grosso degli introiti, fino ad anni fa, finivano perlopiù nelle tasche di Khun Sa, il cosiddetto ‘Re dell'Eroina’. Leader della Shan United Revolution Army (SUA), un esercito privato che contava ben cinquantamila regolari armati stanziati soprattutto in Birmania, Khun Sa proveniva dalle fila dei nazionalisti cinesi, tradizionalmente anticomunisti. Oggi, dopo il ritiro e la morte di Khun Sa – nel suo villaggio, Ban Theuat Thai,  gli è stato eretto un monumento equestre e un mini-museo -, il controllo del business è passato nelle mani di altri ‘generali’ del narcotraffico, solitamente a capo di minieserciti etnici.



Ogni famiglia che vive nel Triangolo d'Oro viene controllata dai guerriglieri-trafficanti, e gli enormi introiti del commercio dell'eroina passano attraverso Hong Kong e Taiwan, nelle cui banche vengono versati i proventi miliardari guadagnati dai grandi trafficanti di mezzo mondo. Qualche anno fa è stato avviato il cosiddetto ‘Progetto Reale Thailandese’, voluto dallo stesso re – quando ancora era in buone condizioni fisiche -, per introdurre colture alternative. Nel Nord della Thailandia operano ventotto stazioni di sviluppo, ove sono coltivati sperimentalmente albicocche (donate dal Giappone), pesche e prugne (arrivate dal Nord America), kiwi (Nuova Zelanda), pere (Taiwan), verdure, cereali, legumi, spezie e fiori: tutte colture redditizie, ma mai quanto quella dell'oppio. Il Progetto Reale ha coinvolto 365 villaggi - per una popolazione totale di circa 60.000 persone -, ove vengono inviati medici e infermieri dell'ospedale universitario di Chiang Mai, i quali trasmettono alle comunità tribali le nozioni elementari di alimentazione e di pianificazione familiare. Ogni anno l'esercito thailandese viene impegnato in battute esemplari, largamente pubblicizzate dai media, di distruzione dei campi di papavero. Ai telegiornali si vedono soldati armati di machete che recidono le piante con aria soddisfatta e vittoriosa, come se radere al suolo le piantagioni su qualche chilometro quadrato risolvesse il problema. Comunque, anche per quest'anno, come ogni anno, si è preventivato un raccolto superiore al passato.

Pubblicato su Frigidaire



ALTRE FOTO della Thailandia su:
http://www.agefotostock.com/age/ingles/isphga01.asp?querystr=thailand&ph=scozzari&Page=1






3 commenti:

  1. Ciao Pietro ho letto del tuo viaggio in Thailandia puoi aiutarmi per fare in modo che io possa ripeterlo mi piace entrare a contatto con altri popoli e quello che ti offrono le agenzie sono solo visite guidate. Te ne sarei grato puoi scrivermi a mky.g75@gmail.com

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  2. caro/a mky.g75@gmail.com, mi dispiace, ma tutti quei tour sono organizzati dalle agenzie locali. la differenza la fa la guida, buona o cattiva. ti consiglio di fare una ricerca on-line fra le agenzie di Chiang Mai e Chiang Rai, sono sicuro che riuscirai a trovare qualcosa per te. buona fortuna!

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