Nel
nord di Luzon, la più grande isola dell’arcipelago filippino, si trova la
regione della Mountain Province, nota da secoli per le sue risaie, da
molti definite come ‘l’ottava meraviglia del mondo’. Attorno alla cittadina di
Banawe, situata nel cuore di questa regione, vive la popolazione degli Ifugao
- il termine significa ‘abitanti della terra riconosciuta’ -, disseminata tra i
villaggi attraverso della cordigliera centrale. Le risaie di Banawe, dette
‘scale del cielo’, costituiscono una vera e propria opera di ingegneria
agraria, realizzata nel corso dei secoli - si ritiene che le prime risalgano al
periodo tra il 200 a.C. e il 100 d.C. - utilizzando esclusivamente attrezzi
primitivi.
Soltanto
in Asia le risaie hanno raggiunto un tale grado di ampiezza - oltre a quelle
del Madagascar - e di perfezione tecnica: si è calcolato che i muretti di
bordatura di Banawe, messi l’uno accanto all’altro, raggiungerebbero una
lunghezza di 19.000 chilometri, pari a circa metà della circonferenza
terrestre. Le terrazze, così come sono disposte, ricoprono una superficie di
circa 50.000 ettari, tutti produttivi e dotati di canali di scolo, che portano
l’acqua necessaria per la coltura dalle cime al livello più basso. In questa
regione piove quasi ogni giorno, soprattutto fra giugno e ottobre, quando il
monsone di sud-ovest investe la maggior parte dell’arcipelago.
Il
tasso di umidità dell’ambiente supera l’80% e, unito al calore, produce una
costante atmosfera da serra. La natura, di conseguenza, non può che essere
esuberante: circa novecento sono le specie di orchidee che crescono
spontaneamente. Bambù, ibisco, champacos, sampanguitas (il fiore
nazionale filippino), felci giganti e gigli crescono un po’ dovunque.
Si
dice che gli Ifugao abbiano iniziato a costruire risaie duemila anni addietro,
e non è difficile crederlo: dotati esclusivamente di strumenti rudimentali -
bastoni appuntiti o vanghe di legno -, ancor oggi scavano con la stessa tecnica
degli antenati. Si procede dall’alto verso il basso, costruendo prima le
terrazze superiori, quindi scendendo a completare le inferiori. La tecnica
contraria - dal basso verso l’alto - viene usata solo quando si deve scavare su
un pendio piuttosto friabile: prima si mette a nudo la roccia sotto il terreno
per costruire una base solida (che viene puntellata con tronchi d’albero),
quindi si procede alla costruzione della terrazza vera e propria, fatta di
terreno coltivabile.
Le
risaie richiedono cure costanti, soprattutto in novembre - che qui prende il
nome di Chattu -, quando termina la stagione delle piogge e comincia
l’epoca della semina. Gli
uomini si spostano nelle risaie con passo agile e leggero, sui muretti di terra
solida, saltando rapidamente dall’uno all’altro: a loro spetta il lavoro
mattutino, mentre alle donne sarà riservato quello pomeridiano.
Gli
spagnoli, che nel XVI secolo governarono ed evangelizzarono le isole, non
essendo mai riusciti ad avvicinare a lungo queste popolazioni, le chiamarono
tutte con il termine di Igorot, verosimilmente di origine tagalog (la
principale lingua filippina), che significa ‘popoli delle montagne’. Gli
autoctoni si distinguono in base alla zona di influenza del villaggio, poiché
ciascuna etnia di questa zona non ha mai costituito vere e proprie tribù, ma
piuttosto una vaga confederazione di villaggi con una lingua comune.
In
tempi non molto lontani gli Ifugao erano temibili cacciatori di teste. Qualcuno
afferma che ancor oggi una testa può rotolare ‘accidentalmente’ dall’alto di
queste montagne fin sul fondo della valle. Davanti ad alcune case si trovano le
scansie sulle quali venivano esibite le teste dei nemici uccisi. La dimora
Ifugao, vista dall’esterno, sembra una piccola piramide posta su quattro
palafitte: alla sommità di ognuna un largo disco di legno trattiene i roditori
(specialmente i ratti), che fra queste montagne sono molto numerosi. Sotto il
tetto piramidale di paglia c’è un’unica stanza di circa tre metri per lato: vi
si accede per mezzo di una scaletta, che viene ritirata durante la notte o
quando l’inquilino è assente. All’interno si trova una stuoia vicino al
focolare, delimitato da piccole pietre e da un quadrato di legno; le pareti
sono annerite: poiché non ci sono aperture sul tetto e il fumo della cucina
resta all’interno. Lungo due lati vi sono delle mensole su cui si ammassano gli
oggetti di casa: sacchi di riso, stoffa, paglia, legno, qualche utensile e i bulul:
idoli di legno, ritenuti i depositari delle forze soprannaturali degli
antenati.
La città di Banawe ha subito, in questi ultimi anni, un grande
stravolgimento culturale, economico ed architettonico, grazie all’arrivo sempre
più massiccio del turismo. Molte sono le pensioncine che, per pochi dollari,
offrono ospitalità ai visitatori e, per i più bisognosi di comfort, c’è persino
il Banawe Hotel, gestito dal governo: dotato di piscina, vino ‘italiano’ (si fa
per dire) e danze ‘tipiche’ per i turisti, il tutto decisamente fuori luogo. Da
Banawe è possibile organizzare trekking di diversa durata nelle vicinanze. Una
delle mete più sfruttate e affascinanti è quella verso il villaggio di Batad,
una perla di architettura agraria inghiottita in un enorme anfiteatro di
terrazze di riso. Il minuscolo villaggio è raggiungibile esclusivamente a piedi
- almeno per l’ultimo tratto -, e si trova a dodici chilometri da Banawe. La
cosiddetta ‘piazza’ del villaggio, dove c’è una piccola chiesa e una scuola, è
raggiungibile discendendo lungo i tanti muretti delle risaie, magari aiutati
dai bambini che si offrono come guide (il loro insistente «I guide You!»,
ripetuto cento volte, anche se volete fare da soli, vi accompagnerà per tutto
il tragitto), esperti conoscitori del tragitto più breve. L’escursione è
realizzabile, per i camminatori più allenati, in una sola giornata; altrimenti
non resta che passare la notte nell’unica, essenziale pensioncina di Batad.
Subito sotto Banawe, scendendo lungo una scalinata che parte dal Banawe
Hotel, si può invece raggiungere l’altro piccolissimo villaggio di Tam-An,
dove i pochi Ifugao rimasti nelle immediate vicinanze della città vivono
fabbricando artigianato in legno e ossa. Tra i loro articoli più venduti ai
turisti di passaggio spiccano il tapis - stoffa a righe colorate - e i bolos,
grandi coltelli con il manico di legno intarsiato.
Più distante da Banawe - passando prima per il capoluogo regionale di
Bontoc, circa 50 chilometri a sud-est - si raggiunge, esclusivamente in jeepney
(il colorato mezzo di trasporto pubblico più usato dai filippini), il villaggio
di Sagada, centro dell’area Bontoc, un’altra delle popolazioni della Mountain
Province. È questa una zona incantevole, ricoperta di fitta boscaglia -
numerose le conifere -, famosa per le cave in cui i Bontoc nascondono i loro
morti, adagiati in di casse di legno dissotterrate e accatastate l’una
sull’altra. Le cave di Matangkib, di Sugong e di Lumiang sono le più
note e vicine al centro abitato. La zona è anche nota per le sue piantagioni di
marijuana - illegali ma tollerate da tutti - e per la guerriglia, quasi
endemica su queste montagne, dell’MPA, l’esercito ribelle filocomunista.
Nessun commento:
Posta un commento