Otavalo: è ora di Yamor
Circa
110 km a nord di Quito, capitale dell’Ecuador, si trova la cittadina di Otavalo,
nota per la comunità indigena che la abita. Situata nel cuore della provincia
di Imbabura, è raggiungibile in un paio d’ore abbondanti d’autobus dalla
capitale, percorrendo una tortuosa strada di collina. Gli otavaleños
sono famosi in tutto l’Ecuador - ma anche all’estero - per il loro artigianato,
esportato e reperibile anche sulle bancarelle europee. La cittadina è
frequentata dai commercianti e dagli importatori occidentali, che rivendono
l’artigianato locale, acquistato su commissione e in grandi quantità, negli
Stati Uniti o in Europa. La fortuna di questo commercio nacque negli anni
Sessanta, con l’arrivo dei turisti: da allora, gli otavaleños si
arricchirono, e oggi costituiscono una delle comunità indigene più benestanti
dell’intera America Latina (spesso invidiati, per questo motivo, dalle altre
etnie del paese). Il pezzo forte del loro artigianato sono i tessuti, prodotti
in grandi quantità in piccole fabbriche artigianali e solitamente rivenduti ai
grossisti. Tra gli articoli più richiesti e di maggiori dimensioni spiccano gli
arazzi (per i quali sono indispensabili almeno due settimane di lavoro) e i
tappeti - che spesso riprendono i disegni messicani o quelli delle fajas
(cinture intessute) di Salasaca e Cañar -, ma anche gli abiti (maglioni,
guanti, ponchos), coperte, zaini, articoli in pelle e cappelli. Il
locale Istituto Otavaleño de Antropologìa, che sprona la comunità locale
a valorizzare la propria cultura, in questi anni ha spinto gli artigiani a
riprodurre solo motivi autoctoni. I disegni spesso hanno un significato
mitologico: le scimmie e le rane, per esempio, indicano fecondità e benessere
(le rane anche nel vicino Perù), mentre i ragni e le lucertole sono sinonimo di
protezione. Questi motivi, riportati su ricami, erano usati già durante la
colonizzazione castigliana (Otavalo fu fondata dagli spagnoli), in particolar
modo lungo i bordi delle sottane e sulle camicie delle donne. La grande
occasione della settimana per osservare tutte queste merci è il sabato, quando
si tiene - fin dalle prime luci dell’alba (già alle quattro arrivano i primi cargadores,
facchini) - la feria sabatina, il mercato più importante. Anche il
mercoledì vede una certa affluenza, mentre permanente è il mercato di
dimensioni ridotte allestito appositamente per i turisti, in afflusso costante.
Di sabato arrivano gli indios di tutta la regione, per vendere i loro
manufatti, nella centralissima Plaza Centenario, soprannominata Plaza de los Ponchos. Il posto per
esporre le merci in questa piazza lastricata è piuttosto ridotto, gli affari
assicurati, e la concorrenza tra commercianti molto alta: per questi motivi,
ogni tanto, la polizia fa delle retate, sgomberando il luogo dagli abusivi (solitamente
argentini o di altri paesi latinoamericani). Oltre alla piazza del mercato,
l’artigianato è reperibile anche nei numerosi negozi delle vie circostanti,
cresciuti come funghi dopo l’arrivo del turismo. Bisogna sottolineare, però,
come non tutti i manufatti siano tali: la produzione su larga scala, motivata
anche dalle esportazioni, ha fatto sì che oggi si usino anche tecniche
industriali e materiali artificiali (fibre in anilina o acrilico), soprattutto
per i maglioni. Tra le grandi bancarelle, qua e là, si trovano anche banchetti
più piccoli, dove sono esposti gli articoli solitamente acquistati dagli stessi
indios, in quanto facenti parte dell’abito tradizionale: scarpe simili a espadrillas,
collane dorate dai molti giri (ma in materiale plastico: sono le hualcas),
grandi cappelli (simili al Panama), camicie in pizzo ricamato per le
donne e le bambine. Gli otavaleños, in effetti, sono molto
tradizionalisti in materia di abbigliamento, e tutti, fin da piccoli, indossano
una specie di ‘uniforme’ che li contraddistingue. Le donne, oltre alle collane
e alle camicie ricamate, spesso decorate con elementi floreali, portano lunghe
gonne di colore blu scuro e, a volte, usano uno dei tre scialli (fachalinas)
come cappello, dopo averlo annodato all’uopo. Di solito, però, sia le donne sia
gli uomini indossano un cappello di feltro scuro, così come i bambini. Tutti i
maschi, poi, fin dalla più tenera età, raccolgono i capelli lisci in una lunga
treccia, assai curata.
Non
solo artigianato
Gli otavaleños non sono noti solo come abili
artigiani e commercianti. Un altro aspetto fondamentale della loro cultura è
quello della musica
tradizionale, anch’essa esportata (è facile vedere qualche gruppo otavaleño
anche nelle zone pedonali delle nostre città come, per esempio, a Ferrara,
durante l’annuale Festival dei Buskers). La musica tradizionale otavaleña
si basa soprattutto sui fiati e sugli strumenti a corda (come il chitarrino), e
un’ottima occasione per assistere a spettacoli dal vivo è il Festival di Yamor,
che si tiene ogni anno all’inizio di settembre.
Durante le esibizioni le donne occupano un ruolo centrale: sono loro che
eseguono in coro i canti, accompagnati da un sibilo ammaliante e unico nel
genere. Tra i tanti gruppi del luogo, tutti con nomi indigeni (quechua,
la lingua degli otavaleños), troviamo i Tsahuarhah e gli Handa-Manachi
(di questi ultimi è da non perdere, per chi riuscisse a reperirlo, il disco Runa
Llacta). Durante la festa, oltre agli spettacoli musicali, si tiene una
gara podistica (è curioso vedere gli indios che vi partecipano, con tanto di
treccia e numero pettorale), e i venditori ambulanti giungono da tutta la
regione. Un’altra festa interessante è quella dedicata a San Juan, che si tiene
dal 24 al 29 di giugno: allora si svolgono regate sul vicino lago San Pablo e
alcune corride.
Anche la cucina
occupa un posto importante nella cultura otavaleña. Tra i piatti locali,
oltre al già citato yamor (una variante della chicha, la birra di
mais che solitamente accompagna i piatti di carne durante le feste), troviamo
lo llapingacho (frittata con le patate) e lo yahuarlocro (zuppa
al sangue). Sempre in città, infine, non mancate il Parco Rumiñahui, nella
piazza omonima, vero cuore della città, a breve distanza dal fiume El Tejar.
Qui spicca il grande busto in pietra dedicato a Rumiñahui, il valoroso
condottiero del re inca Atahualpa. A Otavalo, nel 1533, questo capo guerriero
subì la sconfitta definitiva per mano degli spagnoli, guidati dal capitano
Sebastiàn de Benalcàzar (al seguito di Pizarro), forte di undicimila indios canaris. Nonostante la sconfitta, venne
mitizzato dalle etnie successive come simbolo del valore e della cultura
indigena.
I dintorni di Otavalo
Al mercato del sabato giungono indios provenienti dai
tanti villaggi limitrofi, come Peguche, Agato, Lluman ed El Chota. Tutta la
regione che circonda la cittadina è estremamente interessante, e molti sono gli
stranieri che, desiderosi di una conoscenza più approfondita e autentica della
comunità indigena (Otavalo è, a volte, zeppa di turisti), preferiscono
soggiornare nei villaggi della bella regione lagunare limitrofa. A breve
distanza, infatti, si trovano numerosi laghi e due vulcani. Il lago di San
Pablo è quello più prossimo alla città (lo si raggiunge rapidamente in
autobus), situato alla base dell’imponente vulcano Imbabura, lo stesso che dà
nome alla provincia. Il lago, originariamente, si chiamava Imbacocha (o Chicapán),
ma la colonizzazione spagnola - con il cattolicesimo di importazione, assorbito
dagli otavaleños - ne cambiò definitivamente il nome. È il più ampio
della provincia, e ogni mattina all’alba gli indios del luogo vi pescano a
bordo di canoe fatte con la paglia intrecciata. L’altro vulcano della zona è il
Cotacachi (4939 m.), estinto e in gran parte eroso. Alla sua base si trova il
lago Cuicocha (‘lago dei porcellini d’india’, in quechua), il più bello della
regione, formatosi dopo che le nevi del vulcano si sciolsero. L’ultima eruzione
del Cotacachi formò il cratere laterale Cuicocha (3100 m.), mentre su un lato
del vulcano si trova il monte Yanaurcu (‘monte nero’) che, secondo una
leggenda, sarebbe il frutto dell’amore - una specie di figlio - tra l’Imbabura
e il Cotacachi. Quest’ultimo vulcano è prossimo alla cittadina omonima, nota
per l’artigianato in pelle. Entro la superficie del lago Cuicocha, inoltre, si
possono notare due isole, vulcani secondari gemmati da quello principale. Un’ultima
attrazione della zona - raggiungibile solo in fuoristrada - sono le lagune di
Mojanda, circa 16 km a sud di Otavalo. Formate dall’antico ed estinto vulcano
omonimo, hanno tutte nomi differenti: la più alta (a 3700 m.) si chiama
Yanacocha (‘nera’), e sulla sua superficie si riflette il monte Yanaurcu. A
breve distanza si trova la Huarmicocha (o Chica, ‘della donna’) mentre, più a
nord, la Grande (o Caricocha, ‘dell’uomo’), profonda 120 m., occupa la caldera
(conca) del vecchio vulcano.
La banana è la seconda voce (14%) delle esportazioni
ecuadoriane, dopo il petrolio, l’oro nero che provoca continue
scaramucce armate con il vicino e odiato Perù. Nella selva amazzonica
che si trova al confine tra i due paesi, nella zona del Rio Napo, infatti,
esiste uno dei giacimenti più ricchi del Sud America, sfruttato fin dal 1972. La banana è coltivata quasi ovunque lungo la
costa sul Pacifico, fino alle prime propaggini della sierra andina,
soprattutto nel Sud - dove il maggior centro di produzione è la città di
Machala - e nel Nord - nella regione di Esmeraldas, subito sotto la Colombia. A
livello mondiale l’Ecuador occupa il quarto posto nella produzione delle
banane. Il ciclo produttivo dura tutto l’anno, senza interruzioni, ma il
periodo più fertile corrisponde al mese di ottobre.
Machala, città situata 670 km a sud di Quito e 207
da Guayaquil - principale centro di produzione delle banane, esportate in tutto
il mondo (Italia compresa) dal vicino porto di Puerto Bolívar - è circondata da
bananeti che si stendono a perdita d’occhio, e i proprietari terrieri della
zona hanno accumulato grandi capitali con questa coltura. Machala, di
conseguenza, è una città relativamente ricca - rispetto a molte altre del paese
-, e tutta la provincia di El Oro, di cui è la capitale, denota un certo
benessere. Grandi banche sono sorte in questa regione grazie ai capitali
accumulati con la banana (alcune di loro usano il casco di banane come logo), e
Puerto Bolívar, la cittadina portuale dalla quale viene esportato il frutto,
situata ad appena 5 km da Machala, si è rapidamente sviluppata in questi ultimi
anni. La banana, vista la sua esuberante presenza in ogni
dove, e data la sua economicità, è divenuta uno degli alimenti principali
dell’Ecuador, non solo come frutto da consumarsi a fine pasto. Il platano,
per esempio, è un tipo di banana commestibile solo dopo essere stato cucinato
(lo ritroviamo anche nella cucina di Santo Domingo e di altri paesi
latinoamericani). Usato perlopiù come contorno, il platano - che nulla
ha a che vedere con l’albero omonimo - viene spesso accostato ad altri
alimenti, sostituendo frequentemente la patata (comunque presente nella cucina
ecuadoriana). Si possono consumare, dunque, brodo di banana, banana alla
griglia, banana fritta (in tranci o a fettine, come le patatine), e il
diffusissimo patacón, una specie di polpetta fatta di carne macinata e
banana schiacciate e mescolate con le mani, quindi fritta.
Ma la banana, in Ecuador, oltre che un’importante voce
dell’economia e dell’alimentazione, rappresenta anche un elemento della cultura
popolare. Ogni anno, infatti, tra il 21 e il 25 settembre, a Machala si tiene la Festa Mondiale del Banano, in
concomitanza alla fiera omonima. È questa una vivace occasione per far festa -
l’alcol scorre a fiumi e si balla Salsa fino alle ore piccole -, ma
anche una buona opportunità per sostenere e promuovere la già florida industria
bananiera. Il nazionalismo si mescola all’economia, la musica al folclore, e la
kermesse procede per diversi giorni tra parate militari ed esposizioni di
‘campioni’ di produzione. Per le strade della città sfilano i gruppi più
disparati, tutti - rigorosamente - a suon di Salsa: raccoglitori di banane,
scolaresche, bambini in costume, majorette, militari, ballerine e persino i
pompieri, in tuta d’amianto, in un periodo dell’anno in cui la temperatura si
aggira sui trenta gradi. Per giorni e giorni, al ritmo delle bande locali o
della musica da discoteca - propagata attraverso gigantesche casse acustiche
sparse un po’ dovunque: appese sugli alberi o sul retro dei pickup -, sempre al
massimo del volume, le rappresentanze di tutto ciò che può essere rappresentato
(collegi, associazioni, club, organizzazioni militari) sfilano
ininterrottamente su e giù per la piazza principale, tra le grida di gioia
degli spettatori, soprattutto dei bambini. La polizia, formando una catena
umana che fa da transenna, impedisce agli spettatori di tuffarsi nei cortei e
seguire le sfilate. Un oratore, in posa plastica dal balcone del municipio,
circondato da ‘personalità’ assortite, desiderose di palcoscenico, esalta tutto
e tutti attraverso un microfono collegato ad altoparlanti: la banana, Machala,
la Patria e i suoi gloriosi bombeiros, i pompieri. La folla, eccitata,
applaude a ogni punto esclamativo, cioè sempre. In tale occasione non può mancare l’annuale concorso
per la carica di Regina Mondiale del Banano, un premio molto ambito in questa
regione. Le candidate arrivano da quasi tutta l’America Latina e, nonostante
siano quasi sempre più attraenti della concorrente ecuadoriana, quest’ultima
vince il concorso dieci volte su dieci. Le selezioni (una pura formalità) si
tengono nell’Hotel Rizzo, il più prestigioso della città, e nei giorni che
precedono l’incoronazione la stampa locale e nazionale ha un’attività
frenetica: finge di fare pronostici e di cercare di capire quale tra le
concorrenti - in base al curriculum - sarà eletta. Il giorno della premiazione
l’intera prima pagina dei quotidiani - come El Universo, stampato a
Guyaquil - è dedicata a lei, con titoli cubitali del tipo Ecuatoriana ganó
Reinado del Banano.
La fiera che si tiene contemporaneamente è ospitata
in un parco apposito, diviso in stand espositivi e luoghi di svago
(palcoscenico per i gruppi musicali, pista da ballo). La fiera ospita tutti i
principali produttori di banane - tra cui diverse cooperative gestite dai
militari -, e il prodotto viene da questi definito, molto umilmente, come ‘il
migliore del mondo’. Interessanti esposizioni, oltre a quelle dei ‘campioni’ di
produzione, sono quelle sulle malattie e i rimedi per combatterle che
colpiscono i frutti e sulle diverse tecniche di raccolta e lavorazione. La
banana, d’altronde, è un elemento essenziale dell’economia locale, tant’è che
viene giornalmente quotata in borsa e sui giornali. Alla fiera, dunque, si
stipulano affari e accordi tra produttori, oltre ad una corposa opera
pubblicitaria.
Ma la Festa del Banano è anche una grande occasione
per divertirsi. Fuori del parco della fiera abbondano i venditori ambulanti che
attirano i bambini e gli adulti con giochi come il ‘tiro al chewing-gum’: chi,
con un fucilino ad aria compressa colpisce il pacchetto di gomme da masticare
disposto su un tabellone, lo vince (anche se ormai bucato). Anche i venditori
di zucchero filato e di palloncini, i parrucchieri da marciapiedi, i truffatori
delle lotterie truccate (tipo gioco delle tre carte), i giostrai itineranti e i
ristorantini ambulanti fanno buoni affari. All’interno della fiera il clou del
divertimento scatta al tramonto, quando le orchestre iniziano a suonare
ininterrottamente, e i visitatori, zuppi di trago - l’economicissimo
alcol ricavato dalla canna da zucchero, vera droga nazionale -, si scatenano in
balli forsennati. Solo allora la fiesta, in onore alla banana, è davvero
degna di tale nome.
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