BAOBAB & ZEBÙ
Il Sud del Madagascar è la
parte più affascinante della grande ‘Ile Rouge’, almeno per molti turisti occidentali. Questa è la regione più ‘africana’ della grande isola
(la cui superficie è pari a due volte quella dell’Italia), grazie al clima
arido, alla vegetazione rarefatta (la foresta spinosa è endemica), alle cattive
condizioni delle strade (asfaltate solo per brevi tratti) e alla povertà
diffusa. Nella regione convivono tribù differenti, tutte accomunate dal forte
rispetto per il culto dei morti, che spinge i vivi a erigere tombe più belle e
resistenti delle abitazioni. I sepolcri riccamente decorati dei mahafaly da
soli possono costituire un motivo di interesse per viaggiare in questa area impervia.
Nel Sud, inoltre, si trovano alcune tra le più ricche riserve naturali del
Madagascar, di proprietà privata, ove flora e fauna possono trovare un habitat
protetto, altrove in forte pericolo. Punteggiato da spiagge di grande bellezza,
il Sud è abitato da una popolazione che vive in piccoli villaggi nelle quali il
carretto trainato dagli zebù è ancora il mezzo di trasporto più usato, e le
scarpe uno status-symbol. Capoluogo provinciale del Sud, Tulear è una
tranquilla cittadina balneare situata a cavallo del Tropico del Capricorno,
lungo una costa ricca di spiagge. Prospiciente la Baia di Saint-Augustin (poco
più a sud), Tulear e i suoi dintorni divennero un approdo di grande importanza
commerciale durante il Cinquecento e il Seicento, soprattutto per i trasporti
delle spezie. I primi colonizzatori - inglesi e olandesi - dovettero lasciare
questa baia verso la metà del Seicento, decimati dalle malattie e respinti
dalle tribù locali. Anche i francesi popolarono la baia (stabilendosi
soprattutto nell’isoletta di Nosy Ve), verso la quale facevano capo i velieri
della Compagnia delle Indie. Verso il 1660 Saint-Augustin divenne la nuova
Tortuga, ospitando un gran numero di pirati, che fecero della zona una delle
basi corsare più inespugnabili del Madagascar. Alla fine dell’Ottocento il
generale francese Gallieni ordinò alla comunità francese residente a Nosy Ve,
perlopiù costituita da commercianti, di trasferirsi a Tulear. La città di
Tulear vera e propria, quindi, fu fondata solo nel 1895, quando Saint-Augustin
aveva ormai perduto gran parte della sua importanza. La sua architettura,
ideata da un francese e caratterizzata da basse casette dipinte di bianco,
unita alla forte luminosità della zona, ha contribuito ad attribuirle il
soprannome di ‘città bianca’. Tulear ha una folta comunità indo-pakistana, che
detiene buona parte della ricchezza locale. A causa di questa ricchezza, la
comunità ‘karana’ in
passato è stata oggetto di rivolte popolari, come quella cruenta del 1987, che
mise a sacco la città e distrusse buona parte delle attività commerciali
(drogherie, gioiellerie, ristoranti) gestite dagli indiani (alcuni di essi
furono addirittura linciati). Situata poco a nord della foce del fiume
Fiherenana, sul Canale del Mozambico, Tulear ha un’economia basata sui prodotti
del sottosuolo (carbone, petrolio, uranio, mica, pietre preziose),
dell’industria (tessile e alimentare), e sui traffici del suo porto (qui fanno
scalo molte navi sudafricane). Ospita una stazione di ricerche oceanografiche,
e le strade che la circondano sono in cattive condizioni. Lungo l’unica strada ‘asfaltata’
- quella per Fianarantsoa - gli abitanti di interi villaggi, disseminati nel
cuore del deserto spinoso, sopravvivono tappando le buche dell’asfalto ed
elemosinando qualche moneta ‘al volo’, dagli automobilisti di passaggio. Chi
non ripara le buche sopravvive vendendo carbonella di legna, ricavata dagli
ultimissimi arbusti della zona.
La
cittadina è divisa in una zona centrale e in quella sul lungomare. In centro si
può visitare un piccolo mercato, ove vengono vendute frutta e verdura, e i
negozietti circostanti, soprattutto lungo l’arteria principale, il Boulevard
Tsiranana. Dirigendosi verso il lungomare si può visitare il minuscolo Museo
mahafaly-sakalava, dedicato all’arte funeraria di queste etnie. Raggiunto il
lungomare, poco oltre l’Hotel La Pirogue, inizia la grande spiaggia urbana,
melmosa e, per gran parte del giorno, priva d’acqua (la marea cala alla sera e
aumenta al mattino). Qui giacciono arenate numerose imbarcazioni arrugginite.
La spiaggia e il villaggio di Anakao,
dove si trova il villaggio turistico Safari Vezo, un tempo era un semplice
villaggio di pescatori della tribù omonima. Anakao non è raggiungibile via
terra, ma solo in lancia a motore da Tulear, a circa due-tre ore di navigazione
dalla città (si parte alla mattina presto). Il trasporto viene organizzato dal
personale del Safari Vezo di Tulear. Oltre il recinto del Safari Vezo si entra
nel villaggio dei pescatori, caratterizzato da belle piroghe a bilanciere (lakas,
simili a quelle indonesiane). Le donne locali usano spalmarsi il volto e la
pelle scura con una poltiglia di legno di sandalo, considerata ‘di bellezza’
(la ritroviamo anche nelle isole Comore e, come lontana ‘parente’, nel Myanmar).
Nel villaggio viene occasionalmente pescato qualche squalo, immediatamente
sezionato e spartito tra gli uomini che lo hanno catturato. Le sue carni sono
vendute soprattutto ai ricchi commercianti cinesi e comoriani della città,
particolari cultori di questo pesce. Il personale del Safari Vezo organizza
anche escursioni di mezza giornata all’isoletta dirimpettaia di Nosy Ve.
Lì non c’è anima viva, a eccezione di bellissimi uccelli bianchi (Phaethon
rubricauda, fetonti dalla coda rossa) che nidificano sotto i cespugli, e
che possono essere reperiti solo qui. ‘Scoperta’ dagli olandesi alla fine del
Cinquecento, Nosy Ve fu occupata dai francesi nel 1888, prima della conquista
dell’intero Madagascar. L’isoletta è sacra per i vezo, in quanto tale era
ritenuta da Vorombé, il mitico antenato di questa tribù. Nosy Ve è ‘circumnavigabile’
a piedi, in quanto è piuttosto piccola, e le sue spiagge, di sabbia
bianchissima, sono cosparse da migliaia di piccole conchiglie. I fondali sono
ancora intatti, e l’acqua è cristallina.
Verso Fort Dauphin
Una fermata interessante lungo la strada che
attraversa il Sud può essere fatta ad Ampanihy, tranquilla cittadina
rurale situata approssimativamente a metà strada tra Tulear e Fort Dauphin, in
piena zona mahafaly: un’ottima occasione per visitare le tombe (http://pietrotimes.blogspot.it/2011/07/le-tombe-dei-mahafaly.html) e vedere
l’animato mercato del sabato. Centro famoso in passato per la produzione della
lana di pecora mohair, Ampanihy (‘luogo dei pipistrelli’) si trova in una zona
ricca di minerali, soprattutto granate, quarzi e calciti. Ripartire da Ampanihy
può essere un’impresa ardua: i pochi mezzi che coprono l’intero percorso sono
generalmente già pieni, oppure carri merci. Le strade sono in condizioni
disastrose e, durante la stagione delle piogge, si trasformano in letti di
fiumi fangosi.
Il tratto di strada oltre Ambovombe migliora decisamente, fino a giungere al capoluogo della regione sudorientale, Fort Dauphin. Principale centro del Sud-est, Fort Dauphin ha una gradevole atmosfera coloniale di città di mare. La prima impressione, per chi la visita, può essere quella di ritrovarsi in una delle tante isole francesi dei Caraibi o del Pacifico. La storia di Fort Dauphin è ricca di eventi. I primi occidentali a giungervi furono i portoghesi, nel 1504. Naufragati lungo questa costa, i circa ottanta colonizzatori lusitani costruirono un forte nei pressi del fiume Vinanibe (1528), e resistettero all’ostilità delle tribù locali (antanosy) per circa quindici anni. I portoghesi furono seguiti dai francesi nel 1642, spinti alla colonizzazione del luogo dal governatore Monsieur De Pronis, e stanziati originariamente nella vicina baia di Sainte Luce. Venne così fondata, nell’anno successivo, la città di Fort Dauphin, dedicata al principe francese di sei anni (il ‘Delfino’ di Francia) che, in seguito, sarebbe stato incoronato come re Luigi XIV. Anche i francesi costruirono un forte (da cui il nome della città), ma dovettero soccombere, dopo trent’anni di colonizzazione, alle malattie e agli attacchi delle tribù locali. In fuga dalla città nel 1674, alcuni coloni si trasferirono all’allora disabitata Reunion, ed Etienne de Flancourt, capo dei superstiti, lasciò una stele a Fort Dauphin arrecante un avvertimento: Cave ab incolis, «Guardatevi dagli indigeni!». In seguito i francesi vi fecero ritorno (nel 1768 con la spedizione del Conte de Modave, fallita dopo soli due anni), trafficando perlopiù col commercio degli schiavi, che venivano imbarcati nel porto precedentemente abbandonato. Colonizzato l’intero Madagascar e concessa l’indipendenza nel 1960, i francesi hanno lasciato una forte impronta - soprattutto per quanto riguarda l’architettura - nella città. Le chiese e le abitazioni, molte in legno, conservano un gusto passato, un po’ decadente, ma assolutamente gradevole. Fort Dauphin gode di un isolamento geografico dovuto alla sua peculiare posizione, su una penisola spalleggiata da una catena montuosa, oltre la quale si estende il deserto spinoso endemico del Sud. La città in sé non ha grandi attrattive, se non una piacevolissima atmosfera di rilassata cittadina balneare. Le sue belle spiagge, però, assieme alla possibilità di effettuare numerose escursioni nei dintorni, la rendono una delle mete più gradevoli del Madagascar. La città, con il suo animato mercato nei pressi dell’autostazione (qualche ambulante vende sandali di zebù), è costeggiata dalla bella spiaggia di Libanona, facilmente raggiungibile a piedi. Qui è possibile fare il bagno (non c’è il pericolo degli squali), e la spiaggia, se si eccettua qualche raro venditore ambulante, è semideserta. Per raggiungerla basta prendere la strada dell’Hotel Mahavoky e percorrerla fino in fondo, imboccando poi una scorciatoia che passa davanti a un’ottima pasticceria. Oltre Libanona, passata la collina dominata dall’Hotel Miramar, ha inizio un’altra enorme spiaggia, prospiciente la Baia dei Galeoni, frequentata dai pescatori. Dalla parte opposta di Libanona, proseguendo oltre l’hotel-ristorante Panorama, si può raggiungere il Pic Saint Louis (529 m), la cima che domina la città. Dalla cima, in cui si trova una grande roccia, è possibile godere un’ottima vista di Fort Dauphin e delle sue spiagge.
Il tratto di strada oltre Ambovombe migliora decisamente, fino a giungere al capoluogo della regione sudorientale, Fort Dauphin. Principale centro del Sud-est, Fort Dauphin ha una gradevole atmosfera coloniale di città di mare. La prima impressione, per chi la visita, può essere quella di ritrovarsi in una delle tante isole francesi dei Caraibi o del Pacifico. La storia di Fort Dauphin è ricca di eventi. I primi occidentali a giungervi furono i portoghesi, nel 1504. Naufragati lungo questa costa, i circa ottanta colonizzatori lusitani costruirono un forte nei pressi del fiume Vinanibe (1528), e resistettero all’ostilità delle tribù locali (antanosy) per circa quindici anni. I portoghesi furono seguiti dai francesi nel 1642, spinti alla colonizzazione del luogo dal governatore Monsieur De Pronis, e stanziati originariamente nella vicina baia di Sainte Luce. Venne così fondata, nell’anno successivo, la città di Fort Dauphin, dedicata al principe francese di sei anni (il ‘Delfino’ di Francia) che, in seguito, sarebbe stato incoronato come re Luigi XIV. Anche i francesi costruirono un forte (da cui il nome della città), ma dovettero soccombere, dopo trent’anni di colonizzazione, alle malattie e agli attacchi delle tribù locali. In fuga dalla città nel 1674, alcuni coloni si trasferirono all’allora disabitata Reunion, ed Etienne de Flancourt, capo dei superstiti, lasciò una stele a Fort Dauphin arrecante un avvertimento: Cave ab incolis, «Guardatevi dagli indigeni!». In seguito i francesi vi fecero ritorno (nel 1768 con la spedizione del Conte de Modave, fallita dopo soli due anni), trafficando perlopiù col commercio degli schiavi, che venivano imbarcati nel porto precedentemente abbandonato. Colonizzato l’intero Madagascar e concessa l’indipendenza nel 1960, i francesi hanno lasciato una forte impronta - soprattutto per quanto riguarda l’architettura - nella città. Le chiese e le abitazioni, molte in legno, conservano un gusto passato, un po’ decadente, ma assolutamente gradevole. Fort Dauphin gode di un isolamento geografico dovuto alla sua peculiare posizione, su una penisola spalleggiata da una catena montuosa, oltre la quale si estende il deserto spinoso endemico del Sud. La città in sé non ha grandi attrattive, se non una piacevolissima atmosfera di rilassata cittadina balneare. Le sue belle spiagge, però, assieme alla possibilità di effettuare numerose escursioni nei dintorni, la rendono una delle mete più gradevoli del Madagascar. La città, con il suo animato mercato nei pressi dell’autostazione (qualche ambulante vende sandali di zebù), è costeggiata dalla bella spiaggia di Libanona, facilmente raggiungibile a piedi. Qui è possibile fare il bagno (non c’è il pericolo degli squali), e la spiaggia, se si eccettua qualche raro venditore ambulante, è semideserta. Per raggiungerla basta prendere la strada dell’Hotel Mahavoky e percorrerla fino in fondo, imboccando poi una scorciatoia che passa davanti a un’ottima pasticceria. Oltre Libanona, passata la collina dominata dall’Hotel Miramar, ha inizio un’altra enorme spiaggia, prospiciente la Baia dei Galeoni, frequentata dai pescatori. Dalla parte opposta di Libanona, proseguendo oltre l’hotel-ristorante Panorama, si può raggiungere il Pic Saint Louis (529 m), la cima che domina la città. Dalla cima, in cui si trova una grande roccia, è possibile godere un’ottima vista di Fort Dauphin e delle sue spiagge.
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