venerdì 3 agosto 2012

GRECIA - TINOS E LA PANAGHIA EVANGHELISTRIA


La Grecia del mare e della fede

Arrivare in estate a Tinos, isola delle Cicladi a breve distanza dall’iperturistica Mykonos - e dalla meno nota Andros, da cui è separata tramite uno stretto canale -, può offrire una gradevole sorpresa. Il grosso del turismo è altrove: qui si sente solo parlare greco o la lingua dei rom, con le sue mille sfaccettature e dialetti. Statisticamente Tinos è la più frequentata delle isole greche, ma il suo turismo è di carattere nazionale - si calcola che più del 90% sia greco - e di ispirazione religiosa. Tinos, nota anche come ‘isola della Vergine Maria’ o la ‘Lourdes dell’Egeo’ è, infatti, meta di imponenti pellegrinaggi, due volte all’anno, da parte dei fedeli ortodossi, che giungono sin qui per visitare l’icona sacra del Santuario dell’Evangelistra. Il 25 marzo (Festa dell’Annunciazione) e il giorno di ferragosto (Festa dell’Assunzione), migliaia di pellegrini arrivano a frotte, affollando l’isola in maniera incredibile, per chiedere protezione all’icona della Panaghia, considerata miracolosa. Molti sono i malati, i disabili e gli ortodossi in genere che credono nel potere taumaturgico di questa effigie. In quei giorni la popolazione locale - circa ottomila anime - decuplica.
La storia dell’icona è piuttosto avventurosa. Nel 1822, Pelagia, una suora del monastero di Kechrovouniou, situato sulle alture dell’isola, sognò un’icona seppellita in una fattoria vicina. Pelagia si fece aiutare da alcuni vicini per scavare nei dintorni e in breve scoprirono le fondamenta di una chiesa bizantina. Qui, il 30 gennaio del 1823, un operaio trovò un’immagine d’oro della Madonna, un’icona che fu considerata inviata dalla Vergine Maria per curare i fedeli di Tinos e dipinta dall’evangelista Luca. Sul luogo, tra il 1823 e il 1830, fu costruito il Santuario della Panaghia Evanghelistría (o Cattedrale della Madonna), eretto su due livelli in cima al colle che domina il capoluogo. Costituito di marmo pregiato - di cui l’isola è una delle principali produttrici greche - e di materiale antico di reimpiego, il santuario è oggi uno dei luoghi di preghiera più importanti della Chiesa ortodossa.



La strada che parte dal porto e conduce alla cattedrale è lastricata con marmo bianco di Paros e di Tinos: l’isola è nota per la sua scuola di scultura, i cui artigiani sono specializzati nei restauri di opere antiche. Il bianco è il colore dominante di tutta l’isola, soprattutto nel dedalo di viuzze e vicoli che si snoda alle spalle del porto, volutamente tortuoso per contrastare il meltémi, il forte e costante vento che viene da nord.
Alla base della grande chiesa si trovano alcune piccole cappelle - è in una di queste che fu ritrovata l’icona - e un paio di fonti battesimali, mentre il piano superiore, all’interno della cappella principale, si trova l’icona ingioiellata: nel tempo è stata ricoperta da lussuose offerte dei fedeli, tanto abbondanti da mascherarne il profilo. Il soffitto è decorato da dipinti, affumicati nel tempo dalle esalazioni dei molti ceri, e numerosi lampadari pendono con gli immancabili ex voto dalle forme più disparate: navi scampate a naufragi, neonati in fasce, soldati armati di fucile, ecc. All’interno del santuario si possono visitare anche due interessanti musei: quello d’arte sacra (in estate è aperto dalle 8,30 alle 20, in inverno dalle 8,30 alle 15) e la Pinacoteca-Gipsoteca, dove è conservata una collezione di opere di artisti ottocenteschi originari di Tinos.
Lungo la salita che collega il santuario al porto è disteso un tappeto, indispensabile per aiutare i molti fedeli che fanno penitenza e percorrono il tragitto inginocchiati, spesso ‘appesantendo’ la loro punizione, caricando la prole sulle spalle. C’è anche chi vi issa grandi e pesanti icone, chi offerte in denaro applicate agli abiti con aghi da balia, chi si protegge le ginocchia con ginocchiere fatte di carta di giornale. Alcuni, addirittura, caricano pesantissime latte di olio d’oliva sulle spalle e percorrono così, a quattro zampe, la scalinata monumentale che precede il santuario.






Lungo questa salita si può visitare l’Arheologikó Moussío, il museo archeologico, ospitato in un edificio moderno ispirato alle tradizionali colombaie disseminate un po’ dovunque nell’isola. Aperto dalle 8,30 alle 15 (chiuso il lunedì), conserva i ritrovamenti degli scavi del santuario di Poseidone e di Anfitríte (V-III sec. a.C.), ceramiche della necropoli di Xòburgo (VIII-VII sec. a.C.), iscrizioni, rilievi e frammenti di sculture ellenistiche.
I pellegrini sono una costante durante tutto l’anno, ma aumentano vorticosamente in occasione delle due feste principali. Quella di ferragosto, in particolare, vede l’afflusso massiccio a Tinos di rom provenienti da tutta la Grecia, che arrivano nell’isola giorni prima, affollando i traghetti e accampandosi come possono attorno al santuario. Il piccolo parco che circonda la cattedrale sembra un campo nomadi delle nostre città, con coperte e tende sparse in ogni dove, focolai per le vivande e qualche pecora sgozzata per l’occasione a sgocciolare, in attesa di venire consumata il giorno dell’Assunzione - dopo aver anch’essa preso parte al percorso in direzione del santuario, assieme al proprietario ‘inginocchiato’. In quel periodo sono numerose le famiglie di gitani che percorrono la salita in ginocchio, secondo un ordine prestabilito: l’uomo, capofamiglia, accompagna (in piedi) la moglie (inginocchiata), appoggiandole ogni tanto i figli sulle spalle, tenendo in una mano un grande cero che verrà acceso in onore alla Madonna e, nell’altra, una pecorella, destinata a una fine impietosa. Sulla cima del pendio, a simbolo di queste pie fatiche, spicca una grande statua di metallo, raffigurante una donna inginocchiata che percorre il difficile cammino di penitenza.





Il mattino di ferragosto tutti si accalcano lungo la via che vede scorrere la processione, e l’icona viene portata in spalla su una lettiga dai soldati della marina, preceduti dai maggiori esponenti della Chiesa ortodossa. I fedeli, in fila lungo una coda che percorre tutta la strada, si inginocchiano man mano che l’effigie passa sulle loro teste, baciandola e toccandola non appena li raggiunge. Giunta al porto, la Panaghia viene benedetta e quindi riportata, in senso contrario, al santuario.
Attorno a questa credenza si è sviluppato un gigantesco giro d’affari di articoli religiosi, ninnoli ‘benedetti’ prodotti in serie e venduti in grandi quantità dai negozi situati nei pressi del santuario. Ex voto, tazze da caffelatte con l’immagine della Madonna, altarini luminosi con diverse effigi, ciondoli da collo, contenitori di plastica per l’acqua benedetta della cripta del santuario, spille e cartoline con l’icona venerata sono solo alcuni dei molteplici gadget di ispirazione religiosa che testimoniano la fede e che danno da vivere a decine di famiglie di commercianti.











Un po’ di storia

Non ci sono molte informazioni su Tinos durante l’era preistorica: si sa solo che nel 1000 a.C. fu conquistata dagli ioni, popolazione che diede il via allo sviluppo dell’isola. Nell’VIII e nel VII sec. a.C. fu sotto il potere di Eretria e venne conquistata dai persiani, per essere liberata dopo la sconfitta di Maratona. Nell’antichità Tinos era nota con il nome di Ofiossa - da ofis, serpente -: allora l’isola era infestata dai rettili. Durante l’età del Bronzo e durante l’epoca della civiltà Cicladica era già abitata, come dimostrano gli scavi di Vryokastro. Alleata di Atene, prese parte alla battaglia di Salamina. Nell’isola, allora, si venerava il dio Poseidone (Nettuno). Durante il III sec. a.C. Tinos conobbe un certo splendore e, in quello successivo, fu occupata dai rodi, che vi insediarono una base navale. Questi furono espulsi dai romani, ma nell’88 a.C. l’isola fu saccheggiata dal persiano Mitridate. Il fasto di Tinos decadde in epoca bizantina e, dopo la caduta di Costantinopoli, l’isola fu conquistata per un breve periodo dai franchi. Seguirono i veneziani, che la tennero per circa cinque secoli, impiantandovi una duratura comunità cattolica. Al periodo della Serenissima risalgono le costruzioni per le fortificazioni e le colombaie. All’interno delle mura si sviluppò la cittadella veneziana mentre fuori, a Xòburgo, vivevano i contadini. Nel 1538 Tinos fu saccheggiata dal Barbarossa. I veneziani se ne dovettero andare nel 1715, quando l’isola fu conquistata dai turchi. È a quell’anno che si deve lo sviluppo del capoluogo. Dal 1770 al 1774 Tinos passò sotto il dominio russo degli Orloff, quindi venne liberata dalle mani dei turchi nel 1821, durante la Rivoluzione Greca. Nell’isola trovarono rifugio numerosi greci di Chios e di Psarà, luoghi devastati dai turchi per reprimere i moti del 1880.














Spiagge e colombe
Tinos, però, ha anche molti altri motivi di interesse, oltre a quelli storici e religiosi. Basta uscire dall’abitato principale - Chora, popolarmente detta Tinos - e recarsi in uno dei tanti villaggi di calce bianca dell’arida isola per rendersi conto della sua bellezza e della sua originalità. Innanzitutto balzano all’occhio le numerose colombaie a torre (peristeriones), vere e proprie opere d’arte disseminate in ogni angolo dell’isola, in particolare tra i fertili campi terrazzati nei quali viene coltivata la vite. Sono circa un migliaio e alcune risalgono al XIII secolo, quando gli orgogliosi veneziani che occuparono l’isola - allora Tinos era un feudo della famiglia dei Ghisi - per oltre cinquecento anni costruirono torri adornate per ospitare i loro volatili. Le ultime risalgono alla metà dell’Ottocento e continuano a essere frequentate dagli uccelli. Quelle più interessanti, ricche di decorazioni geometriche, si trovano nei pressi del villaggio di Tarampados (o Tarambádos: l’autobus che organizza il giro turistico dell’isola vi fa una fermata), ma altre possono essere visitate anche alla periferia di Chora stessa, così come nei dintorni di Komi-Kalloni e di Steni-Falatados, villaggi situati a pochi chilometri dal capoluogo.
Sebbene non sia nota per le sue calette, Tinos ha numerose spiagge, sia nei dintorni dell’abitato, sia nella zona settentrionale (Ormos Panormou), sia - soprattutto - lungo la costa sudoccidentale (Porto e Kardiani, intervallate da diverse calette poco frequentate). Quella di Kolybithra, una delle più belle dell’isola, si trova nei pressi di Komi. Noleggiare una moto - molte le Vespa disponibili a tariffe accessibili - può essere una soluzione pratica per raggiungerle, soprattutto quelle più distanti dalle fermate dell’autobus pubblico: Tinos è un’isola montuosa di 194 chilometri quadrati e solo i fanatici del trekking possono sognare di visitarla a piedi. Un’ottima spiaggia, pulita, riservata e poco distante dall’abitato è quella di Kyiaki, a circa sei chilometri da Tinos. Più vicina e altrettanto gradevole è quella di Stavros, seppur assai frequentata, battuta dall’indomabile vento cicladico e meno curata in quanto a pulizia.




Circa una cinquantina, poi, sono i villaggi, bianchissimi e disseminati un po’ dovunque, tutti degni di visita: da Steni a Mesi, da Falatados a Triantaros, da Exómvourgo (o Xòburgo, ex cittadella fortificata veneziana, sede del Rettore della Serenissima e più volte attaccata dai turchi, a 3 km da Steni e a 8 dal capoluogo) a Pánormos (noto per la lavorazione del marmo, ha una bella spiaggia con porticciolo a 4 km, in passato l’unico approdo di Tinos), da Koumaros a Komi (uno dei maggiori dell’isola), da Kardiani a Istérnia (o Ysternia: il villaggio, noto per la sua comunità di artisti, per la chiesa di Aghios Athanasios del 1453 e per il Monastero della Panaghia Katapolanì, del 1786, forse il più bello dell’isola). Tutti nomi facili da confondere, ma indimenticabili una volta visitati, conosciuti ed esplorati attraverso le tortuose stradine, i bassi archi e le case intonacate con una tinta bianca luminosa, applicata non appena le prime tracce di logorio ne intaccano le pareti. In particolare, è degno di nota il villaggio di Volax, situato al centro di una vallata protetta da alte montagne e noto per la lavorazione della paglia. Gli abitanti ufficiali sono solo ventidue - metà della popolazione locale è emigrata in cerca di lavoro - e qui tutti sembrano dediti a questa paziente e poco lucrativa attività artigianale.








Altro gioiello è il villaggio di Pyrgos, non lontano da Kardiani: tra i più affascinanti delle Cicladi, è il maggiore dell’isola e ha una ricca tradizione di pittura e scultura. Qui nacquero il pittore Nikiforo Lytras, gli scultori Dimitris Filippotis e Iannoulis Halèpas, il compositore Nikos Skaklotas. Nella casa di Halèpas oggi ha sede una nota scuola di scultura. Il cuore dell’abitato è la piazza con le arcate di marmo, le fontane e le chiese di Aghia Triada (del 1610; il monastero conserva una collezione di arte popolare) e di Metamorfosis (XVII sec.). Da Pyrgos una strada porta a Ormos Panormou, un bel porticciolo con case costruite ad anfiteatro sulla spiaggia.
Un’ultima, immancabile visita è quella all’antico monastero femminile di Kechrovouníou, detto di ‘Nostra Signora degli Angeli’. Dedicato alla Kimisis della Panaghia (Dormizione della Madonna), si trova a 5 km dal capoluogo, vicino ai villaggi di Triantaros e Dyo Chorià. Si ritiene che il monastero risalga all’842 ed è qui che Pelagia, la famosa suora, ebbe il suo sogno premonitore. Dotato di numerose celle, tra cui quella di Pelagia, è ricco di icone intarsiate nel legno, ha numerose cappelle e un negozietto che vende artigianato prodotto anche dalle suore del monastero. Il complesso ha la struttura di un piccolo villaggio cicladico, con piccole abitazioni bianchissime, scalinate, vicoli, basse arcate e terrazze. Nella biblioteca sono custoditi alcuni manoscritti di valore inestimabile. Il monastero è aperto a fedeli, turisti e curiosi, ma chiude le porte ai visitatori durante l’ora di pranzo e accetta solo chi è vestito adeguatamente: niente gambe né spalle scoperte. Per chi arriva in pantaloncini, all’entrata viene prestato una specie di pudico gonnellino unisex.




Pubblicato su Qui Touring, Isole & Isole (MAI PAGATO, da quest'ultima)

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