venerdì 3 agosto 2012

INDIA - VARANASI


‘V’ come vera India. ‘A’ come Aurangzeb, il terribile imperatore musulmano che ne distrusse i templi indù, trasformandoli in moschee. ‘R’ come rickshaw, il più comune mezzo di trasporto, il cui brusio dei campanelli fa da costante sottofondo sonoro. ‘A’, di nuovo, come abluzioni, di rito, cinque ogni giorno, in punti diversi del sacro Gange. ‘N’ come Namaste, ‘buongiorno’, parola-chiave utile per un primo passo verso la mentalità indiana. ‘A’, per la terza volta, come allucinante: come il traffico nelle ore di punta, congestionato dalle miriadi di risciò, a pedali e a motore, impazziti, incastrati fra loro, nel continuo tentativo di non scontrarsi con una mucca sacra. ‘S’, come seta, di cui Varanasi è il primo produttore in India. E, infine, ‘I’, come induismo, di cui la città è, da sempre, la culla. Questo potrebbe essere l’ipotetico alfabeto per comporre il nome del luogo forse più rappresentativo di tutta l’India, con il suo caos anarchico, con la sua religiosità che pervade ogni aspetto della vita quotidiana. Il termine Varanasi significa ‘città tra due fiumi’: il Varauana e l’Asi, che qui confluiscono. Benares, termine di origine musulmana, ripreso poi dai colonizzatori britannici, è il secondo nome con il quale Varanasi viene generalmente chiamata, soprattutto dai turisti occidentali. In origine, tuttavia, la più antica città dell’Induismo si chiamava Kashi, ‘Luce’.



Un primo approccio alla metropoli e alla sua folle confusione può essere traumatico. I conduttori di risciò a pedali - tutti, a Varanasi, sembrano esercitare questo lavoro, tanti sono - parlano esclusivamente hindi (a eccezione di qualche caso raro), e garantiscono che sono in grado di condurvi ove gli avete chiesto, sia un albergo, una strada o una stazione degli autobus. In realtà, non hanno capito nulla di ciò che gli è stato detto in inglese, lingua di una colonizzazione ormai remota, che qui poco ha attecchito. Possono vagare per ore e ore nel traffico allucinante, sotto un caldo cocente - Varanasi è una delle città più calde dell’India - e per un lavoro da poche rupie, senza mai arrivare a destinazione. Si sono persi. Oppure vi hanno portato in un posto che non c’entra niente. Il trucco per proteggersi da questo vagare senza senso sta nel prendere un risciò a motore (il cosiddetto autorichshaw, una specie di Ape-car nero), un po’ più caro, ma i cui autisti farfugliano qualche parola d’inglese e conoscono come le loro tasche la grande città (vi abita oltre un milione di persone). Oppure trovare un interprete, magari un impiegato di banca o il commesso di un negozio di souvenir, qualcuno che abbia quotidianamente a che fare con gli stranieri e che sappia dire esattamente al conduttore dove volete andare. Si eviterà così di vagare inutilmente per ore, attraverso le contorte vie di Godaulia - la zona centrale, nei pressi delle gradinate sul Gange - e della città vecchia, risparmiando tempo ed energia.
Il Dasaswamedh Ghat (il cui nome significa ‘sacrificio di dieci cavalli’) può senz’altro essere un punto di partenza per conoscere Varanasi. Lì si trova una grande quantità di hotel relativamente confortevoli e dal basso costo, la zona commerciale, il Gange, una banca, il bazaar, e decine di venditori di chai, il delizioso tè al latte, bevuto ovunque in India. Tutto ciò in uno spazio di duecento metri quadrati. In questo tratto del fiume, narra una leggenda, sarebbe stato lo stesso dio Brahma a dare inizio ai riti delle abluzioni.
Un’alternativa - dove alloggiare - può essere la zona nuova di Cantonment, dalle grandi strade disposte più razionalmente, situata a nord-ovest, ove si trovano numerose banche e compagnie aeree. Ma, se da un lato, questa area è più confortevole (qui si incontrano i migliori hotel), è senz’altro anche priva d’anima, se paragonata alla riva del sacro Ganga, come viene chiamato il fiume in hindi.



Riti senza sosta
Il momento migliore per vedere le folle di pellegrini mentre fanno le abluzioni è il mattino presto, quando la riva occidentale del fiume assume toni sfumati e l’atmosfera è carica di religiosità. È a quest’ora, infatti, che i pellegrini recitano il mantra, le formule sacre di preghiera, raccogliendo l’acqua del fiume sacro nella mano destra. Si immergono quindi nell’acqua, per tre volte, tante quante sono le fonti di angoscia da combattere: quella che viene dalle persone stesse, quella proveniente dal mondo esterno, e quella provocata dagli dèi. L’acqua, elemento puro e primordiale, rigenera e purifica. Per questo motivo quasi tutti i pellegrini portano con sé un piccolo recipiente di metallo, ove raccolgono un po’ di acqua ‘sacra’, da portare a casa: servirà come offerta agli dèi del focolare domestico e sarà abbondantemente usata durante le celebrazioni di rito: matrimoni, battesimi, funerali.
Come il sole spunterà e inizieranno ad arrivare le prime coppie di sposi, lì per terminare la cerimonia che li ha uniti in matrimonio con una traghettata simbolica verso l’altra sponda del fiume (considerata impura per ogni altro tipo di rito), anche miriadi di barcaioli, massaggiatori, venditori ambulanti di souvenir e spacciatori si risveglieranno, a decine, molestando come instancabili mosche i turisti. ‘Boat, Sir?’. ‘Head massage??’. Barche, massaggi alle tempie e ogni genere di servizio ipotizzabile sono le proposte che perseguiteranno, quasi gridate, ogni passo del visitatore straniero lungo i ghats, le gradinate, sacre anch’esse, che collegano la città al fiume (se ne contano più di cento). Senz’altro, fare un giro in barca per poche rupie lungo il corso del Gange, potendo vedere la città da un’angolazione diversa, è un’opportunità da non perdere. Così come farsi massaggiare la testa, secondo un’arte millenaria, è fortemente rilassante. Ma è impensabile che un turista possa prendere la barca un centinaio di volte al giorno, e si faccia massaggiare le tempie una trentina, almeno tante quante sono le persone che glielo propongono, apparentemente instancabili.
Interessante è notare come, nonostante l’abbondante sporcizia che impera nelle acque del fiume sacro - dovuta a quintali di saponi da bucato e per l’igiene personale, alle ceneri delle cremazioni e agli escrementi di bufalo, liberi in ogni dove -, gli abitanti di Varanasi e i pellegrini venuti da tutta l’India vi si immergano con assoluta disinvoltura. I grandi depuratori di color rosa che Rajiv Ghandi vi fece costruire non sembrano mai funzionare abbastanza, tale è il movimento di corpi estranei nelle acque. Eppure tutti fanno lente abluzioni, con i dovuti risciacqui, anche in bocca.



No Ganga water, washing machine!’, ‘Non ho usato l’acqua del fiume, ma quella della lavatrice!’, assicurano i tanti lavandai - i dhobi, uomini e donne - che servono gli alberghi frequentati dai turisti, preoccupati per le loro magliette e jeans, pregne di un aroma affumicato, sicuramente lavate - nonostante le promesse contrarie - nelle acque del Gange, sacre quanto piene di batteri.
Varanasi, a detta di molti conoscitori dell’India, oltre a esserne la città più affascinante e rappresentativa, ne è anche la più sporca (in forte concorrenza con Calcutta). Centinaia di vacche sacre, totalmente libere e gigantesche, con la loro paurosa mole si trascinano indisturbate per le viuzze del bazar, lasciando enormi escrementi ovunque. Anche il forte calore - la temperatura media in estate oscilla tra i 32°C e i 46°C - fa la sua parte, provocando, a volte, miasmi incredibili. Qualche ragazzino irriverente si diverte a dare sonore pacche sul sedere dei bovini, per smuoverli da viuzze larghe quanto i loro fianchi, che impediscono il passaggio al fiume di persone, in continuo movimento. Il bazar è un formicaio di attività, ove numerose donne vengono intrattenute per l’acquisto di colorati sari di seta, braccialetti di plastica, oppure cavigliere e trucchi per i piedi, l’unica parte inferiore del corpo che può essere osservata dall’uomo e, dunque, vistosamente adornata. Piccole statuine di legno dipinte a mano raffigurano le mille divinità indù, largamente rappresentate anche su coloratissime stampe disegnate, provenienti dai laboratori grafici di Bombay. Grande è il commercio di articoli religiosi, specie nella parte del bazar attigua al Golden Temple (o Viswanath), frequentatissimo dai fedeli indù. Qui, nel tempio più sacro della città, l’entrata è proibita agli stranieri e ai profani, secondo una strana forma di razzismo religioso, ferreo e cieco, che vige in molti luoghi del subcontinente indiano. Un negozietto al secondo piano, di fronte all’entrata, offre comunque una vista accettabile del tempio dal tetto interamente ricoperto con oro zecchino (tre quarti di tonnellata!), in cambio di uno sguardo - senza impegno - anche al campionario di sari e di stoffe di seta in vendita. Il tempio, dedicato a Shiva, Signore dell’Universo, è una ricostruzione del 1776, sorta sulle ceneri di una moschea fatta costruire da Aurangzeb, l’imperatore islamico che scatenò una guerra religiosa e architettonica. Deliziosi dolcetti al latte sono venduti a ogni angolo del bazar, alcuni dei quali addirittura ricoperti da un finissimo strato di argento puro, commestibile. Il forte calore, tuttavia, unito a tali delizie del palato, può costituire una vera bomba per lo stomaco, soprattutto per gli stranieri poco abituati alla cucina locale.


Cremazioni, ma non siamo allo zoo
Le cremazioni, solitamente altro grande motivo di interesse per i visitatori non indù, hanno luogo perlopiù al Manikarnika Ghat, detto anche ‘Burning Ghat’. Questa è la gradinata più sacra, in quanto qui Parvati, la sposa di Shiva, vi perse un orecchino a forma di anello. Il marito, nel tentativo di recuperarlo, dovette svuotare un’intera piscina, la quale riempì poi con il sudore versato per la fatica. Altre cremazioni si tengono anche nell’attiguo Jalsain Ghat. Fotografare la cremazione è vietatissimo, ed è meglio non andare a indagare troppo da vicino, sulla sponda del fiume: essere indiscreti, soprattutto se stranieri, non è mai gradito. Il rito è comunque visibile dagli edifici sovrastanti, dove l’odore acre dei corpi bruciati, mescolato al denso fumo biancastro, può sconvolgere anche gli stomaci meno delicati. Per gli indù è considerato propizio morire a Varanasi - molti anziani raggiungono la città dalle altre zone dell’India appositamente -, in quanto questa è la città di Shiva, il dio in grado di pronunciare - alle orecchie del morente - il mantra (la formula sacra) del trapasso: una via più breve, dunque, verso la salvezza dell’anima e la pace eterna (moksha), accorciando il doloroso e faticoso ciclo delle rinascite (samsara). Ma non tutti gli indù, una volta morti, si fanno ardere sulle pire. I sadhu, gli asceti, ‘uomini santi’, già purificatisi sufficientemente nel corso della pia esistenza, non hanno bisogno del fuoco per liberare l’anima.
Più a sud, all’Harishchandra Ghat, si trova anche un moderno crematorio elettrico, dalle alte ciminiere, simbolo di uno strano modernismo unito a riti secolari. Il compito di provvedere agli aspetti pratici delle cremazioni - accatastare il legno, posarvi i cadaveri, accendere il fuoco sacro e ruotarvi i corpi, affinché brucino del tutto - spetta ai dhom, gli addetti che, in quanto aventi a che fare con la morte, sono considerati impuri. I dhom appartengono alla casta degli ‘intoccabili’ - nonostante in India le caste siano state abolite, per legge, nel 1948 -, e potranno venire bruciati, alla loro morte, solo su pire separate e apposite, fuori città.


Templi e monumenti
Un’altra tappa usuale fra i turisti è quella al Durga Temple, all’altezza dell’Asi Ghat, noto anche come il ‘Monkey Temple’, a causa della folta comunità di scimmie che vi abita. Il tempio risale al XVII secolo, epoca dell’impero Maratha - che aveva preso il posto di quello Moghul -, ed è aperto (non ufficialmente) anche agli stranieri, purché lascino scarpe e calzini all’entrata. Tutto l’edificio è caratterizzato da pareti color ocra, ed è dedicato alla dea Durga, la terribile metà negativa di Parvati, alla quale vanno resi sacrifici - solitamente pollame - durante le feste sacre riservatele. Nei pressi di questo tempio si trovano anche una piscina rituale - spesso affollata di pellegrini, lavandai e gente venuta a fare il bagno, sapone alla mano - e il tempio Tulsi Manas, moderno (è del 1964), dotato di un piccolo giardino interno, e aperto ai non indù. Un ultimo tempio degno di nota è quello dedicato alla ‘Madre India’, Bharat Mata, al cui interno è conservata una grande mappa dell’India, scolpita in rilievo sul marmo. Inaugurato dal Mahatma Gandhi, anche questo tempio è aperto ai visitatori non indù, e si trova a circa un chilometro e mezzo dalla stazione di Junction.
Tra le moschee - Varanasi vanta anche una folta comunità musulmana - spiccano quella di Aurangzeb - situata nel cuore della città indù, con minareti alti 71 metri sul Gange, costruita con le colonne depredate nei templi indù; alcune guardie armate la proteggono da eventuali attacchi dei fedeli indù - e quella di Alamgir - nella zona settentrionale, era un tempio indù dedicato a Vishnu, del quale conserva ancora la parte inferiore, secondo una strana mescolanza religiosa e architettonica. Le invasioni musulmane, iniziate nell’XI secolo, hanno lasciato una forte traccia nella città sacra dell’Induismo.
Da non perdere è anche il Forte Ram Nagar, situato sulla riva opposta del Gange, raggiungibile con un traghetto che parte dagli ultimi ghat. Costruito nel XVII secolo, il forte è la sede ufficiale dei Maharaja di Varanasi, e ospita un museo - aperto ai visitatori - dove sono conservati ornamenti e gioielleria appartenenti alle cortigiane, antichi broccati, collezioni di armi e un’imitazione del letto reale. A Varanasi, inoltre, importante centro di studi indù, si trova la Benares Hindu University, una delle migliori dell’India, alla quale convergono studenti da tutto il paese. Costruita agli inizi del Novecento, conserva un’importante collezione di dipinti in miniatura e di sculture, ed è aperta ai visitatori.
Ad appena dieci chilometri, infine, si trova la cittadina di Sarnath, dove il Buddha, per la prima volta, insegnò il suo cammino verso l’Illuminazione, venticinque secoli fa. Ma, al di là dei monumenti più o meno notevoli, una passeggiata a piedi o in risciò fra le viuzze che costeggiano i ghat, fra la zona musulmana e i mercati indù, da sola giustifica una visita a Varanasi, città millenaria, e permette di assaporarne l’anima più intima.


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