venerdì 3 agosto 2012

ECUADOR - SAN LORENZO


Un pezzetto d'Africa al capolinea del treno più sgangherato che c'è

Situato a brevissima distanza dal Rio Mataie, che funge da confine naturale con la Colombia, il villaggio di San Lorenzo è forse il luogo più interessante - ma, allo stesso tempo, meno caratteristico - dell'Ecuador. La popolazione di questo piccolo centro costiero abitato da circa diecimila persone, infatti, è praticamente tutta di discendenza africana (in contrasto con la media generale del paese: 50% indios, 50% meticci - incrocio tra razze indigene e coloni europei), ultimi discendenti di una nave di schiavi diretta a Cartagena, in Colombia, e naufragata lungo questo litorale secoli fa. Facente parte della provincia nord-occidentale di Esmeraldas - il capoluogo omonimo si trova circa 140 km a sudovest -, San Lorenzo rappresenta una forte sorpresa per chi ha già attraversato il resto del paese. Qui, tra una vegetazione tropicale lussureggiante, un forte calore misto ad alta umidità, e volti scuri, sarebbe facile pensare di trovarsi in un villaggio di pescatori dell’Africa o della Bahia, in Brasile, se non fosse per lo spagnolo onnipresente. D’altronde, a San Lorenzo mancano gli indios otavaleños - il ceto commerciante dell’Ecuador, presente ovunque nel resto del paese -, così come le tortuose stradine della Sierra o i volti dai lineamenti inca di Quito: si è in Ecuador solo perché la cartina geografica ce lo conferma, ma tutto farebbe supporre il contrario. Per chi è gringo, poi, la sensazione di estraneità qui raddoppia. Le persone, però, sono estremamente ospitali: soprattutto i bambini, incuriositi dagli stranieri che la lancia o il trenito hanno scaricato in città. Sono questi, in effetti, gli unici mezzi sempre praticabili: quando piove le strade, tutte sterrate, si trasformano in fiumi di fango.
Per chi arriva da Esmeraldas non c’è che la combinazione busseta (il rapido minibus, sempre guidato a tavoletta) più lancia, partendo da La Tola e passando per Valdéz (Limones) e Tambillo. Lungo questo tragitto dapprima si attraversa il Rio Esmeraldas, quindi si costeggia forse il più bel tratto di litorale ecuadoriano, quello situato attorno a Punta Verde, con alte palme e alcuni villaggi di pescatori. Allo sbarco, nei pressi del mercato, i ragazzini attendono i turisti per condurli in qualche pensioncina, tutte decisamente modeste: da queste parti, per fortuna, di grandi alberghi non se ne sono ancora visti. Le zanzare, grazie all’abbondanza di fiumi e anfratti lungo la costa, dove regna la mangrovia, abbondano, e le zanzariere degli alberghi sono un bene prezioso. Il clima torrido della zona è dovuto anche alla corrente oceanica fredda di Humboldt, la quale devia proprio poco prima di Esmeraldas, senza dunque intaccare il calore delle correnti più settentrionali. Questa, non a caso, è detta ‘La Provincia Verde’, a causa della vegetazione esuberante, la stessa che diede il nome al capoluogo (nonostante oggi, nel centro della città, piuttosto desolato, il verde smeraldo non sia poi così abbondante).
Delle radici africane gli abitanti di San Lorenzo hanno mantenuto la marimba, un ballo di antica data suonato con lo strumento omonimo, fatto con il chonta - un legno durissimo - e il bambù. I nativi ballano la marimba in qualche locale di sera o durante le feste, quando i payadores, poeti improvvisatori, inventano i testi, tutti solitamente incentrati su temi come i tesori ritrovati nel mare, i pericoli della selva, o i contrasti razziali (piuttosto sentiti nella regione). Ma può anche capitare che, gironzolando per le vie del paese, un gruppo di ragazzi improvvisi qualche passo di danza, quasi sempre per corteggiare una chica particolarmente attraente di passaggio.



A spasso tra le vie
San Lorenzo, però, non è esattamente un’oasi tropicale di pace e conforto. Grazie alla sua vicinanza con la Colombia e ai tanti accessi fluviali, è uno dei principali poli del contrabbando, e l’esercito vi effettua frequenti perquisizioni. Il tenore di vita, nonostante le attività in nero, non è tra i più elevati (pesca e caffè costituiscono le attività ‘pulite’ principali), e la povertà è percepibile - seppure vissuta con dignità - dall’aspetto delle abitazioni, in gran parte inventate con ciò che si dispone, solitamente assi di legno inchiodate: il mattone è un lusso non accessibile a tutti, perlopiù riservato ai pochi benestanti o agli edifici pubblici, tutti regolarmente decorati con enormi murales di propaganda politica.
Entrando in un ristorantino molto modesto, noto - non posso farne a meno - un poster con una Ferrari Testarossa nuova fiammante, così in contrasto con l’arredamento che mi circonda.
Visto il mio sguardo, «Bonita, eh?», mi fa la gerente, uguagliando in una frazione di secondo il mio essere gringo con i lussi del Primero Mundo.
Come le rispondo istintivamente, solo per continuare la conversazione, che abito a pochi chilometri dalla fabbrica in cui l’auto viene prodotta (senz’alcuna forma di autocompiacimento: peraltro odio la Formula 1) il suo sguardo si fa perso, manco le avessi detto che vivo sulla luna...
Lasciato il comedor - dove, mio malgrado, mi sono ormai affibbiato la targa di riccone -, ritorno tra i mortali, riscoprendo la vera anima di questo luogo, oltre che la mia.
«Patacòn, mi amor?».
Nonostante non abbia fidanzate da queste parti, e a casa mia patacòn potrebbe risultare un’offesa, la venditrice ambulante di polpette fritte a base di carne e patate (patacòn, appunto) mi attira come una calamita, e riesce a rifilarmene qualcuna, sebbene abbia già mangiato e un tale accostamento non sia tra i più ortodossi, almeno nella mia dieta (in Ecuador la banana, sempre presente, ha quasi sostituito la patata nell’alimentazione). Sarà per il mi amor, o forse per il suo sorriso, ma me la mangio pure, ed è buona. Al secondo passante, anche lui ammaliato a suon di mi amor, però, mi rendo presto conto di non aver fatto delle conquiste, ma di essere solo molto sensibile alle tecniche di marketing più primordiali. Un taglio di capelli alla Peluquerìa Los Rios, che sta in piedi per miracolo (le assi inchiodate decisamente non sono in bolla) e arrotonda rivendendo fumetti usati, conclude la mia esplorazione, da alieno, in questo ombelico africano e tropicale dell’Ecuador.




Il trenito: o lo ami o lo odi
San Lorenzo dal 1957 è collegato alla Sierra, fino alla cittadina di Ibarra, per mezzo di uno sgangheratissimo ‘trenito’ (ufficialmente autoferro), un autobus (ex scuola-bus) a rotaie che attraversa tutta la foresta, sempre affollatissimo: ha due sole carrozze. Per conquistare un raro posto a sedere bisognerebbe acquistare il biglietto il giorno prima, ma anche questa tecnica non assicura i risultati. Il fatto è che all’alba tutti gli abitanti di San Lorenzo (diecimila) sembrano volerlo prendere e, come già detto, le carrozze sono solo due (omologate per sessanta passeggeri in tutto). Chi arriva in stazione a quell’ora, dunque, sale direttamente in carrozza e si siede nel primo posto che trova libero. Lo seguono centinaia di persone, che si comprimono come aringhe tra scatoloni, galline, taniche, fascine di canna da zucchero, cespi di banane, neonati urlanti, e tanti, tanti simili. Il tetto è già tutto prenotato. Il gringo che, puntuale come uno svizzero, arriva poco prima delle 7 - l’ora di partenza prestabilita -, forte del suo biglietto numerato, non può che rimanere esterrefatto. Nel suo posto c’è già qualcuno. Come farlo alzare?
Conquistato in qualche modo il posto - dolci parole, pianto, intransigenza svizzera, improperi ed escandescenze -, comincia il secondo tempo dell’avventura. Il trenito inizialmente attraversa una specie di esofago tra le capanne costruite a ridosso dei binari e le foglie della selva (quelli sul tetto, molto probabilmente, arriveranno a Ibarra verdi e senza bisogno di barbiere per almeno due mesi), quindi scende ansimando tra gli aridi tornanti della Sierra. Più che su un treno, in realtà, sembra di essere su un mezzo ibrido, a metà strada fra l’autobus e la barca: sbuffante e puzzolente come il primo (lo scarico sembra arrivare direttamente dentro la vettura) e ondeggiante come la seconda. Il continuo maremoto, in effetti, ogni tanto fa deragliare di qualche centimetro il mezzo, ma il macchinista, abile manovratore, con un colpo di coda e forse di reni lo rimette prontamente in riga, sui binari. Durante la stagione delle piogge (tra novembre e aprile), poi, se ciò non bastasse, il trenito sembra impazzire sulle rotaie bagnate, e il conducente deve fermarlo spesso per controllare che tutto sia a posto. La velocità media non supera mai i 50 km orari, e durante il tragitto le stazioncine di sosta non si contano (attenzione ai lupini venduti dagli ambulanti in sacchetti con acqua nerastra: sono più pestilenziali delle cozze avariate). Almeno una volta lungo il percorso (presso il villaggio di Lita), poi, l’autoferro, visto l’unico binario, deve fermarsi per far passare quello proveniente in direzione opposta. Nonostante la forte impressione contraria, dunque, di solito si arriva a Ibarra incolumi, in circa nove, lunghe ma indimenticabili ore di viaggio.



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