Un pezzetto d'Africa al capolinea del treno più sgangherato che c'è
Situato a brevissima distanza dal Rio Mataie, che
funge da confine naturale con la Colombia, il villaggio di San Lorenzo è forse
il luogo più interessante - ma, allo stesso tempo, meno caratteristico -
dell'Ecuador. La popolazione di questo piccolo centro costiero abitato da circa
diecimila persone, infatti, è praticamente tutta di discendenza africana (in
contrasto con la media generale del paese: 50% indios, 50% meticci - incrocio
tra razze indigene e coloni europei), ultimi discendenti di una nave di schiavi
diretta a Cartagena, in Colombia, e naufragata lungo questo litorale secoli fa.
Facente parte della provincia nord-occidentale di Esmeraldas - il capoluogo
omonimo si trova circa 140 km a sudovest -, San Lorenzo rappresenta una forte
sorpresa per chi ha già attraversato il resto del paese. Qui, tra una
vegetazione tropicale lussureggiante, un forte calore misto ad alta umidità, e
volti scuri, sarebbe facile pensare di trovarsi in un villaggio di pescatori
dell’Africa o della Bahia, in Brasile, se non fosse per lo spagnolo
onnipresente. D’altronde, a San Lorenzo mancano gli indios otavaleños -
il ceto commerciante dell’Ecuador, presente ovunque nel resto del paese -, così
come le tortuose stradine della Sierra o i volti dai lineamenti inca di
Quito: si è in Ecuador solo perché la cartina geografica ce lo conferma, ma
tutto farebbe supporre il contrario. Per chi è gringo, poi, la
sensazione di estraneità qui raddoppia. Le persone, però, sono estremamente
ospitali: soprattutto i bambini, incuriositi dagli stranieri che la lancia o il
trenito hanno scaricato in città. Sono questi, in effetti, gli unici
mezzi sempre praticabili: quando piove le strade, tutte sterrate, si
trasformano in fiumi di fango.
Per chi arriva da Esmeraldas non c’è che la
combinazione busseta (il rapido minibus, sempre guidato a tavoletta) più
lancia, partendo da La Tola e passando per Valdéz (Limones) e Tambillo. Lungo
questo tragitto dapprima si attraversa il Rio Esmeraldas, quindi si costeggia
forse il più bel tratto di litorale ecuadoriano, quello situato attorno a Punta
Verde, con alte palme e alcuni villaggi di pescatori. Allo sbarco, nei pressi
del mercato, i ragazzini attendono i turisti per condurli in qualche
pensioncina, tutte decisamente modeste: da queste parti, per fortuna, di grandi
alberghi non se ne sono ancora visti. Le zanzare, grazie all’abbondanza di
fiumi e anfratti lungo la costa, dove regna la mangrovia, abbondano, e le
zanzariere degli alberghi sono un bene prezioso. Il clima torrido della zona è
dovuto anche alla corrente oceanica fredda di Humboldt, la quale devia proprio
poco prima di Esmeraldas, senza dunque intaccare il calore delle correnti più
settentrionali. Questa, non a caso, è detta ‘La Provincia Verde’, a
causa della vegetazione esuberante, la stessa che diede il nome al capoluogo
(nonostante oggi, nel centro della città, piuttosto desolato, il verde smeraldo
non sia poi così abbondante).
Delle radici africane gli abitanti di San Lorenzo
hanno mantenuto la marimba, un ballo di antica data suonato con lo
strumento omonimo, fatto con il chonta - un legno durissimo - e il
bambù. I nativi ballano la marimba in qualche locale di sera o durante le
feste, quando i payadores,
poeti improvvisatori, inventano i testi, tutti solitamente incentrati su temi
come i tesori ritrovati nel mare, i pericoli della selva, o i contrasti
razziali (piuttosto sentiti nella regione). Ma può anche capitare che,
gironzolando per le vie del paese, un gruppo di ragazzi improvvisi qualche
passo di danza, quasi sempre per corteggiare una chica particolarmente
attraente di passaggio.
A spasso tra le vie
San Lorenzo, però, non è esattamente un’oasi tropicale
di pace e conforto. Grazie alla sua vicinanza con la Colombia e ai tanti
accessi fluviali, è uno dei principali poli del contrabbando, e l’esercito vi
effettua frequenti perquisizioni. Il tenore di vita, nonostante le attività in
nero, non è tra i più elevati (pesca e caffè costituiscono le attività ‘pulite’
principali), e la povertà è percepibile - seppure vissuta con dignità -
dall’aspetto delle abitazioni, in gran parte inventate con ciò che si dispone,
solitamente assi di legno inchiodate: il mattone è un lusso non accessibile a
tutti, perlopiù riservato ai pochi benestanti o agli edifici pubblici, tutti
regolarmente decorati con enormi murales di propaganda politica.
Entrando in un ristorantino molto modesto, noto - non
posso farne a meno - un poster con una Ferrari Testarossa nuova fiammante, così
in contrasto con l’arredamento che mi circonda.
Visto il mio sguardo, «Bonita, eh?», mi fa la
gerente, uguagliando in una frazione di secondo il mio essere gringo con
i lussi del Primero Mundo.
Come le rispondo istintivamente, solo per continuare
la conversazione, che abito a pochi chilometri dalla fabbrica in cui l’auto
viene prodotta (senz’alcuna forma di autocompiacimento: peraltro odio la
Formula 1) il suo sguardo si fa perso, manco le avessi detto che vivo sulla
luna...
Lasciato il comedor - dove, mio malgrado, mi
sono ormai affibbiato la targa di riccone -, ritorno tra i mortali, riscoprendo
la vera anima di questo luogo, oltre che la mia.
«Patacòn, mi amor?».
Nonostante non abbia fidanzate da queste parti, e a
casa mia patacòn potrebbe risultare un’offesa, la venditrice ambulante
di polpette fritte a base di carne e patate (patacòn, appunto) mi attira
come una calamita, e riesce a rifilarmene qualcuna, sebbene abbia già mangiato
e un tale accostamento non sia tra i più ortodossi, almeno nella mia dieta (in
Ecuador la banana, sempre presente, ha quasi sostituito la patata
nell’alimentazione). Sarà per il mi amor, o forse per il suo sorriso, ma
me la mangio pure, ed è buona. Al secondo passante, anche lui ammaliato a suon
di mi amor, però, mi rendo presto conto di non aver fatto delle
conquiste, ma di essere solo molto sensibile alle tecniche di marketing
più primordiali. Un taglio di capelli alla Peluquerìa Los Rios, che sta
in piedi per miracolo (le assi inchiodate decisamente non sono in bolla) e
arrotonda rivendendo fumetti usati, conclude la mia esplorazione, da alieno, in
questo ombelico africano e tropicale dell’Ecuador.
Il trenito: o lo ami o lo odi
San Lorenzo dal 1957 è collegato alla Sierra,
fino alla cittadina di Ibarra, per mezzo di uno sgangheratissimo ‘trenito’
(ufficialmente autoferro), un autobus (ex scuola-bus) a rotaie che
attraversa tutta la foresta, sempre affollatissimo: ha due sole carrozze. Per
conquistare un raro posto a sedere bisognerebbe acquistare il biglietto il
giorno prima, ma anche questa tecnica non assicura i risultati. Il fatto è che
all’alba tutti gli abitanti di San Lorenzo (diecimila) sembrano volerlo
prendere e, come già detto, le carrozze sono solo due (omologate per sessanta
passeggeri in tutto). Chi arriva in stazione a quell’ora, dunque, sale
direttamente in carrozza e si siede nel primo posto che trova libero. Lo
seguono centinaia di persone, che si comprimono come aringhe tra scatoloni,
galline, taniche, fascine di canna da zucchero, cespi di banane, neonati
urlanti, e tanti, tanti simili. Il tetto è già tutto prenotato. Il gringo
che, puntuale come uno svizzero, arriva poco prima delle 7 - l’ora di partenza
prestabilita -, forte del suo biglietto numerato, non può che rimanere
esterrefatto. Nel suo posto c’è già qualcuno. Come farlo alzare?
Conquistato in qualche modo il posto - dolci parole, pianto,
intransigenza svizzera, improperi ed escandescenze -, comincia il secondo tempo
dell’avventura. Il trenito inizialmente attraversa una specie di esofago
tra le capanne costruite a ridosso dei binari e le foglie della selva
(quelli sul tetto, molto probabilmente, arriveranno a Ibarra verdi e senza
bisogno di barbiere per almeno due mesi), quindi scende ansimando tra gli aridi
tornanti della Sierra. Più che su un treno, in realtà, sembra di essere
su un mezzo ibrido, a metà strada fra l’autobus e la barca: sbuffante e
puzzolente come il primo (lo scarico sembra arrivare direttamente dentro la
vettura) e ondeggiante come la seconda. Il continuo maremoto, in effetti, ogni
tanto fa deragliare di qualche centimetro il mezzo, ma il macchinista, abile
manovratore, con un colpo di coda e forse di reni lo rimette prontamente in
riga, sui binari. Durante la stagione delle piogge (tra novembre e aprile),
poi, se ciò non bastasse, il trenito sembra impazzire sulle rotaie
bagnate, e il conducente deve fermarlo spesso per controllare che tutto sia a
posto. La velocità media non supera mai i 50 km orari, e durante il tragitto le
stazioncine di sosta non si contano (attenzione ai lupini venduti dagli ambulanti
in sacchetti con acqua nerastra: sono più pestilenziali delle cozze avariate). Almeno
una volta lungo il percorso (presso il villaggio di Lita), poi, l’autoferro,
visto l’unico binario, deve fermarsi per far passare quello proveniente in
direzione opposta. Nonostante la forte impressione contraria, dunque, di solito
si arriva a Ibarra incolumi, in circa nove, lunghe ma indimenticabili ore di
viaggio.
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