‘V’ come vera
India. ‘A’ come Aurangzeb, il terribile imperatore musulmano che ne
distrusse i templi indù, trasformandoli in moschee. ‘R’ come rickshaw,
il più comune mezzo di trasporto, il cui brusio dei campanelli fa da costante
sottofondo sonoro. ‘A’, di nuovo, come abluzioni, di rito, cinque ogni
giorno, in punti diversi del sacro Gange. ‘N’ come Namaste,
‘buongiorno’, parola-chiave utile per un primo passo verso la mentalità
indiana. ‘A’, per la terza volta, come allucinante: come il traffico
nelle ore di punta, congestionato dalle miriadi di risciò, a pedali e a motore,
impazziti, incastrati fra loro, nel continuo tentativo di non scontrarsi con
una mucca sacra. ‘S’, come seta, di cui Varanasi è il primo produttore
in India. E, infine, ‘I’, come induismo, di cui la città è, da sempre,
la culla. Questo potrebbe essere l’ipotetico alfabeto per
comporre il nome del luogo forse più rappresentativo di tutta l’India, con il
suo caos anarchico, con la sua religiosità che pervade ogni aspetto della vita
quotidiana. Il termine Varanasi significa ‘città tra due fiumi’: il
Varauana e l’Asi, che qui confluiscono. Benares, termine di origine
musulmana, ripreso poi dai colonizzatori britannici, è il secondo nome con il
quale Varanasi viene generalmente chiamata, soprattutto dai turisti
occidentali. In origine, tuttavia, la più antica città dell’Induismo si
chiamava Kashi, ‘Luce’.
Un primo approccio alla metropoli e alla sua folle
confusione può essere traumatico. I conduttori di risciò a pedali - tutti, a
Varanasi, sembrano esercitare questo lavoro, tanti sono - parlano
esclusivamente hindi (a eccezione di qualche caso raro), e garantiscono che
sono in grado di condurvi ove gli avete chiesto, sia un albergo, una strada o
una stazione degli autobus. In realtà, non hanno capito nulla di ciò che gli è
stato detto in inglese, lingua di una colonizzazione ormai remota, che qui poco
ha attecchito. Possono vagare per ore e ore nel traffico allucinante, sotto un
caldo cocente - Varanasi è una delle città più calde dell’India - e per un
lavoro da poche rupie, senza mai arrivare a destinazione. Si sono persi. Oppure
vi hanno portato in un posto che non c’entra niente. Il trucco per proteggersi
da questo vagare senza senso sta nel prendere un risciò a motore (il cosiddetto
autorichshaw, una specie di Ape-car nero), un po’ più caro, ma i cui autisti
farfugliano qualche parola d’inglese e conoscono come le loro tasche la grande
città (vi abita oltre un milione di persone). Oppure trovare un interprete,
magari un impiegato di banca o il commesso di un negozio di souvenir, qualcuno
che abbia quotidianamente a che fare con gli stranieri e che sappia dire
esattamente al conduttore dove volete andare. Si eviterà così di vagare
inutilmente per ore, attraverso le contorte vie di Godaulia - la zona centrale,
nei pressi delle gradinate sul Gange - e della città vecchia, risparmiando
tempo ed energia.
Il Dasaswamedh Ghat (il cui nome significa ‘sacrificio
di dieci cavalli’) può senz’altro essere un punto di partenza per conoscere
Varanasi. Lì si trova una grande quantità di hotel relativamente confortevoli e
dal basso costo, la zona commerciale, il Gange, una banca, il bazaar, e decine
di venditori di chai, il delizioso tè al latte, bevuto ovunque in India.
Tutto ciò in uno spazio di duecento metri quadrati. In questo tratto del fiume,
narra una leggenda, sarebbe stato lo stesso dio Brahma a dare inizio ai riti
delle abluzioni.
Un’alternativa - dove alloggiare - può essere la zona
nuova di Cantonment, dalle grandi strade disposte più razionalmente, situata a
nord-ovest, ove si trovano numerose banche e compagnie aeree. Ma, se da un
lato, questa area è più confortevole (qui si incontrano i migliori hotel), è
senz’altro anche priva d’anima, se paragonata alla riva del sacro Ganga, come viene chiamato il fiume in
hindi.
Riti senza sosta
Il momento migliore per vedere le folle di pellegrini
mentre fanno le abluzioni è il mattino presto, quando la riva occidentale del
fiume assume toni sfumati e l’atmosfera è carica di religiosità. È a quest’ora,
infatti, che i pellegrini recitano il mantra, le formule sacre di
preghiera, raccogliendo l’acqua del fiume sacro nella mano destra. Si immergono
quindi nell’acqua, per tre volte, tante quante sono le fonti di angoscia da
combattere: quella che viene dalle persone stesse, quella proveniente dal mondo
esterno, e quella provocata dagli dèi. L’acqua, elemento puro e primordiale, rigenera
e purifica. Per questo motivo quasi tutti i pellegrini portano con sé un
piccolo recipiente di metallo, ove raccolgono un po’ di acqua ‘sacra’, da
portare a casa: servirà come offerta agli dèi del focolare domestico e sarà
abbondantemente usata durante le celebrazioni di rito: matrimoni, battesimi,
funerali.
Come il sole spunterà e inizieranno ad arrivare le prime coppie di
sposi, lì per terminare la cerimonia che li ha uniti in matrimonio con una
traghettata simbolica verso l’altra sponda del fiume (considerata impura per
ogni altro tipo di rito), anche miriadi di barcaioli, massaggiatori, venditori
ambulanti di souvenir e spacciatori si risveglieranno, a decine, molestando
come instancabili mosche i turisti. ‘Boat, Sir?’. ‘Head massage??’.
Barche, massaggi alle tempie e ogni genere di servizio ipotizzabile sono le
proposte che perseguiteranno, quasi gridate, ogni passo del visitatore
straniero lungo i ghats, le gradinate, sacre anch’esse, che collegano la
città al fiume (se ne contano più di cento). Senz’altro, fare un giro in barca
per poche rupie lungo il corso del Gange, potendo vedere la città da
un’angolazione diversa, è un’opportunità da non perdere. Così come farsi
massaggiare la testa, secondo un’arte millenaria, è fortemente rilassante. Ma è
impensabile che un turista possa prendere la barca un centinaio di volte al
giorno, e si faccia massaggiare le tempie una trentina, almeno tante quante
sono le persone che glielo propongono, apparentemente instancabili.
Interessante è notare come, nonostante l’abbondante sporcizia che
impera nelle acque del fiume sacro - dovuta a quintali di saponi da bucato e
per l’igiene personale, alle ceneri delle cremazioni e agli escrementi di
bufalo, liberi in ogni dove -, gli abitanti di Varanasi e i pellegrini venuti
da tutta l’India vi si immergano con assoluta disinvoltura. I grandi depuratori
di color rosa che Rajiv Ghandi vi fece costruire non sembrano mai funzionare
abbastanza, tale è il movimento di corpi estranei nelle acque. Eppure tutti fanno
lente abluzioni, con i dovuti risciacqui, anche in bocca.
‘No Ganga water, washing machine!’, ‘Non ho usato l’acqua del
fiume, ma quella della lavatrice!’, assicurano i tanti lavandai - i dhobi,
uomini e donne - che servono gli alberghi frequentati dai turisti, preoccupati
per le loro magliette e jeans, pregne di un aroma affumicato, sicuramente
lavate - nonostante le promesse contrarie - nelle acque del Gange, sacre quanto
piene di batteri.
Varanasi, a detta di molti conoscitori dell’India, oltre a esserne la
città più affascinante e rappresentativa, ne è anche la più sporca (in forte
concorrenza con Calcutta). Centinaia di vacche sacre, totalmente libere e
gigantesche, con la loro paurosa mole si trascinano indisturbate per le viuzze
del bazar, lasciando enormi escrementi ovunque. Anche il forte calore - la
temperatura media in estate oscilla tra i 32°C e i 46°C - fa la sua parte,
provocando, a volte, miasmi incredibili. Qualche ragazzino irriverente si
diverte a dare sonore pacche sul sedere dei bovini, per smuoverli da viuzze
larghe quanto i loro fianchi, che impediscono il passaggio al fiume di persone,
in continuo movimento. Il bazar è un formicaio di attività, ove numerose donne
vengono intrattenute per l’acquisto di colorati sari di seta,
braccialetti di plastica, oppure cavigliere e trucchi per i piedi, l’unica
parte inferiore del corpo che può essere osservata dall’uomo e, dunque,
vistosamente adornata. Piccole statuine di legno dipinte a mano raffigurano le
mille divinità indù, largamente rappresentate anche su coloratissime stampe
disegnate, provenienti dai laboratori grafici di Bombay. Grande è il commercio
di articoli religiosi, specie nella parte del bazar attigua al Golden Temple (o
Viswanath), frequentatissimo dai fedeli indù. Qui, nel tempio più sacro della
città, l’entrata è proibita agli stranieri e ai profani, secondo una strana
forma di razzismo religioso, ferreo e cieco, che vige in molti luoghi del
subcontinente indiano. Un negozietto al secondo piano, di fronte all’entrata,
offre comunque una vista accettabile del tempio dal tetto interamente ricoperto
con oro zecchino (tre quarti di tonnellata!), in cambio di uno sguardo - senza
impegno - anche al campionario di sari e di stoffe di seta in vendita. Il tempio,
dedicato a Shiva, Signore dell’Universo, è una ricostruzione del 1776, sorta
sulle ceneri di una moschea fatta costruire da Aurangzeb, l’imperatore islamico
che scatenò una guerra religiosa e architettonica. Deliziosi dolcetti al latte sono
venduti a ogni angolo del bazar, alcuni dei quali addirittura ricoperti da un
finissimo strato di argento puro, commestibile. Il forte calore, tuttavia,
unito a tali delizie del palato, può costituire una vera bomba per lo stomaco,
soprattutto per gli stranieri poco abituati alla cucina locale.
Cremazioni,
ma non siamo allo zoo
Le cremazioni,
solitamente altro grande motivo di interesse per i visitatori non indù, hanno
luogo perlopiù al Manikarnika Ghat, detto anche ‘Burning Ghat’. Questa è la
gradinata più sacra, in quanto qui Parvati, la sposa di Shiva, vi perse un
orecchino a forma di anello. Il marito, nel tentativo di recuperarlo, dovette
svuotare un’intera piscina, la quale riempì poi con il sudore versato per la
fatica. Altre cremazioni si tengono anche nell’attiguo Jalsain Ghat.
Fotografare la cremazione è vietatissimo, ed è meglio non andare a indagare
troppo da vicino, sulla sponda del fiume: essere indiscreti, soprattutto se
stranieri, non è mai gradito. Il rito è comunque visibile dagli edifici sovrastanti,
dove l’odore acre dei corpi bruciati, mescolato al denso fumo biancastro, può
sconvolgere anche gli stomaci meno delicati. Per gli indù è considerato
propizio morire a Varanasi - molti anziani raggiungono la città dalle altre
zone dell’India appositamente -, in quanto questa è la città di Shiva, il dio
in grado di pronunciare - alle orecchie del morente - il mantra (la
formula sacra) del trapasso: una via più breve, dunque, verso la salvezza
dell’anima e la pace eterna (moksha), accorciando il doloroso e faticoso
ciclo delle rinascite (samsara). Ma non tutti gli indù, una volta morti,
si fanno ardere sulle pire. I sadhu, gli asceti, ‘uomini santi’, già
purificatisi sufficientemente nel corso della pia esistenza, non hanno bisogno
del fuoco per liberare l’anima.
Più a
sud, all’Harishchandra Ghat, si trova anche un moderno crematorio elettrico,
dalle alte ciminiere, simbolo di uno strano modernismo unito a riti secolari.
Il compito di provvedere agli aspetti pratici delle cremazioni - accatastare il
legno, posarvi i cadaveri, accendere il fuoco sacro e ruotarvi i corpi,
affinché brucino del tutto - spetta ai dhom, gli addetti che, in quanto
aventi a che fare con la morte, sono considerati impuri. I dhom appartengono
alla casta degli ‘intoccabili’ - nonostante in India le caste siano state
abolite, per legge, nel 1948 -, e potranno venire bruciati, alla loro morte,
solo su pire separate e apposite, fuori città.
Templi
e monumenti
Un’altra
tappa usuale fra i turisti è quella al Durga Temple, all’altezza dell’Asi Ghat,
noto anche come il ‘Monkey Temple’, a causa della folta comunità di scimmie che
vi abita. Il tempio risale al XVII secolo, epoca dell’impero Maratha - che
aveva preso il posto di quello Moghul -, ed è aperto (non ufficialmente) anche agli
stranieri, purché lascino scarpe e calzini all’entrata. Tutto l’edificio è
caratterizzato da pareti color ocra, ed è dedicato alla dea Durga, la terribile
metà negativa di Parvati, alla quale vanno resi sacrifici - solitamente pollame
- durante le feste sacre riservatele. Nei pressi di questo tempio si trovano
anche una piscina rituale - spesso affollata di pellegrini, lavandai e gente
venuta a fare il bagno, sapone alla mano - e il tempio Tulsi Manas, moderno (è
del 1964), dotato di un piccolo giardino interno, e aperto ai non indù. Un
ultimo tempio degno di nota è quello dedicato alla ‘Madre India’, Bharat Mata,
al cui interno è conservata una grande mappa dell’India, scolpita in rilievo
sul marmo. Inaugurato dal Mahatma Gandhi, anche questo tempio è aperto ai
visitatori non indù, e si trova a circa un chilometro e mezzo dalla stazione di
Junction.
Tra le
moschee - Varanasi vanta anche una folta comunità musulmana - spiccano quella
di Aurangzeb - situata nel cuore della città indù, con minareti alti 71 metri
sul Gange, costruita con le colonne depredate nei templi indù; alcune guardie
armate la proteggono da eventuali attacchi dei fedeli indù - e quella di
Alamgir - nella zona settentrionale, era un tempio indù dedicato a Vishnu, del
quale conserva ancora la parte inferiore, secondo una strana mescolanza
religiosa e architettonica. Le invasioni musulmane, iniziate nell’XI secolo,
hanno lasciato una forte traccia nella città sacra dell’Induismo.
Da non perdere è anche il Forte Ram Nagar, situato sulla
riva opposta del Gange, raggiungibile con un traghetto che parte dagli ultimi ghat.
Costruito nel XVII secolo, il forte è la sede ufficiale dei Maharaja di
Varanasi, e ospita un museo - aperto ai visitatori - dove sono conservati
ornamenti e gioielleria appartenenti alle cortigiane, antichi broccati,
collezioni di armi e un’imitazione del letto reale. A Varanasi, inoltre,
importante centro di studi indù, si trova la Benares Hindu University, una
delle migliori dell’India, alla quale convergono studenti da tutto il paese.
Costruita agli inizi del Novecento, conserva un’importante collezione di
dipinti in miniatura e di sculture, ed è aperta ai visitatori.
Ad appena dieci chilometri, infine, si trova la
cittadina di Sarnath, dove il Buddha, per la prima volta, insegnò il suo
cammino verso l’Illuminazione, venticinque secoli fa. Ma, al di là dei
monumenti più o meno notevoli, una passeggiata a piedi o in risciò fra le
viuzze che costeggiano i ghat, fra la zona musulmana e i mercati indù,
da sola giustifica una visita a Varanasi, città millenaria, e permette di
assaporarne l’anima più intima.