La
particolare architettura funeraria di Okinawa
Okinawa, come in altri
campi, differisce rispetto al resto del Giappone. Anche il modo di rendere
omaggio ai propri morti è unico nel panorama nipponico, a partire
dall’architettura dei sepolcri. A grandissime linee, le tombe di Okinawa
possono essere suddivise in due categorie. Le prime (kikkobaka), più antiche, a forma di guscio di tartaruga. Ampie,
riprenderebbero le linee del ventre materno, da cui si è venuti e a cui si
ritorna. In pietra, scarne, spesso prive di nomi. Contengono le ossa dei
defunti, se non addirittura quelle di diverse generazioni della stessa
famiglia. Sulla parte davanti una piccola nicchia quadrata, con uno o più
vasetti per fiori e offerte (a volte un paio di bacchette per mangiare). Queste
tombe giunsero, come molto a Okinawa, dalla Cina, in particolare dal Fujian e
dal Fuzhou, in epoca Ming, tra la fine del Seicento e quella dell’Ottocento. La
tartaruga era un animale sacro, per i cinesi. Nel Regno di Ryukyu, come allora
era chiamato l’arcipelago, queste tombe erano riservate, almeno agli inizi, ai
VIP locali. Come testimonia, per esempio, la grande tomba dell’Udun di Ginowan, nel parco Sueyoshi di
Naha.
Questa è la più antica
e ampia del capoluogo di Okinawa, ma la sua forma è stata ripresa in numerosi
altri sepolcri, a volte accerchiati dallo sviluppo edilizio. Non è raro,
infatti, trovare cimiteri o singole tombe completamente attorniati da condomini
moderni, sia a Naha sia nei centri minori. Le tombe più grandi e antiche a
volte sono di un intero villaggio, oppure di gruppi di amici, slegati da
parentela di sangue ma uniti da un legame affettivo e di onore. La più grande
in assoluto, a Itoman, è chiamata kochibara
monchubaka. Stesa su un’area di oltre 5 km quadrati, si ritiene che
conservi i resti di circa 5000 persone. Tombe
minori, ma pur sempre ampie, sono quelle per la monchu, la famiglia ‘allargata’, di membri uniti da un’unica linea
paterna. Poi quelle minori, da famiglia in senso stretto.
Il secondo tipo di
tomba, moderno e di dimensioni più ristrette, è quello che ha seguito quelle ‘a
tartaruga’. Più pratiche – visto anche l’utilizzo di un appezzamento minore -
ed economiche, con colonnine e una piccola veranda, a volte sono
decorate/protette da un paio di shisa (http://unitalianoaokinawa.blogspot.jp/2013/02/uno-shisa-per-tutte-le-stagioni.html). Una specie di replica di piccole
case, con tanto di muretti di recinzione sui quali sedersi. Alcune – ben poche,
in realtà – hanno una croce cristiana. La croce è un simbolo della comunità
cristiana di Okinawa (la maggiore del Giappone: qui si concentra il 10%
dell’intero Paese), ma anche un segnale che fu tracciato sui sepolcri più
antichi per far capire agli stranieri che di tombe si trattava. In effetti, a
prima vista, molti sepolcri – soprattutto quelli a forma di ventre – potrebbero
far pensare ad altro. Subito dopo la Seconda guerra mondiale molte tombe furono
depredate, e alcune si ‘salvarono’ grazie alla croce.
Un luogo davvero
particolare per vedere questi sepolcri è lo sconfinato cimitero di Shikina, in
pratica una città nella città, nella periferia sud-orientale di Naha. Disposto
su una collina ‘sacra’, il cimitero è una babele di sepolcri, sia del vecchio
stile sia di quello più recente. È qui che, fotografando, un giorno incontro
Asato-san, gentiluomo di età avanzata. ‘Italiano? Fotografo? Vieni, ti faccio
vedere la mia tomba.’ Asato-san mi conduce attraverso un sentiero di sterpaglie.
Vedendomi in ciabattine infradito mi dice di fare attenzione agli habu, i serpenti velenosi che chi vive a
Okinawa teme come la morte. Mi porta a una tomba tirata a lucido, nuova
fiammante, con il simbolo di famiglia dorato. Accetta di posare davanti a
quella che un giorno sarà la sua casa eterna, come a lasciare un ricordo per i
posteri. ‘Le vecchie tombe, più antiche, sono state molto utili durante la
guerra, quando siamo stati invasi dagli americani e ci bombardavano. le
famiglie si rifugiavano all’interno, così da proteggersi dalla pioggia
d’acciaio dei mortai americani e giapponesi.’
Aprile,
è tempo di Shimi
In aprile, soprattutto
di domenica, le famiglie di Okinawa usano ritrovarsi in prossimità dei sepolcri
dei loro avi, per commemorarli a dovere. Anche questa è una tradizione che
affonda le proprie radici in Cina e che, con molteplici sfumature, si ritrova
in tutti i Paesi in cui vive una comunità cinese. Dopo una breve cerimonia in
cui ci si raduna davanti alla tomba e si prega, si brucia incenso e qualche
banconota finta, ‘impersonata’ da tovaglioli che si possono acquistare ad hoc
per questo rito, da inviare agli spiriti per il loro benessere nell’aldilà. In
qualche isola minore, ancora legata alle tradizioni, si può incappare in
qualche famiglia che danza davanti ai sepolcri seguendo le note dello sanshin, il ‘banjo’ di Okinawa, cantando
in Uchinaaguchi,
la lingua di Okinawa (沖縄口/ウチナーグチ),
diversissima dal giapponese. Il rito è seguito da un grande picnic a cui
partecipa tutta la famiglia, avi sepolti inclusi. Questa cerimonia, spesso, è
ripetuta all’interno delle abitazioni: viene reso omaggio agli avi presso il
loro altarino permanente, mentre le offerte vengono bruciate all’ingresso di
casa.
Quella dello Shimi è
un’occasione particolarmente importante nella cultura di Okinawa, perché in
questa circostanza vengono rinnovati i legami familiari. I bambini giocano e si
divertono, mentre gli adulti si dedicano al pranzo e a ripulire il sepolcro,
sia dalle sterpaglie circostanti sia dalla polvere all’interno del recinto che
delimita la tomba. Alcuni sepolcri, se visitati nel corso dell’anno, sembrano
spesso abbandonati, sporchi e dimenticati. Ma ad aprile, all’inizio del periodo
di Shimi, si procede a pulirli
meticolosamente. Gli abitanti di Okinawa credono che i loro avi li controllino,
per vedere se tengono puliti i sepolcri, dunque la fase di pulizia è
estremamente importante. Sul sepolcro vengono lasciate lattine di sakè, di awamori o di birra, un altro omaggio
agli avi. Qualche fiore di plastica le decora senza grosso bisogno di cure.
Lo Shimi, in realtà, si protrae nei mesi successivi, fino a diventare Obon, in agosto e settembre. La canna da
zucchero, di cui Okinawa abbonda, è il simbolo di questa ricorrenza, e viene
data in regalo a chi partecipa. Le case e i negozi dei familiari in vita
vengono ‘protetti’ lasciando offerte sul selciato: incensi (alcuni, neri,
sembrano strisce di liquerizia), fiori, riso, banconote false, sigarette. E,
più del solito, in questo periodo sulle tavole delle persone arrivano i mochi, i gommosi dolcetti tradizionali
giapponesi fatti di riso pestato. I laboratori che li producono aumentano la
produzione, soprattutto in settembre, quando con l’Eisa (http://unitalianoaokinawa.blogspot.jp/2013/02/eisa-matsuri.html) si celebra
la fine imminente dell’Obon.
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