I Pracinhas, la loro guerra italiana
Pochi sanno che, durante l’ultima guerra, oltre venticinquemila soldati brasiliani parteciparono al conflitto in Italia, a fianco degli Alleati. In quel periodo il Brasile era governato dal dittatore populista Getúlio Vargas che, per un lungo periodo a partire dall’inizio della guerra, aveva voluto mantenere una posizione di neutralità, allineandosi agli altri stati sudamericani. Se, in un primo momento, sembrava che Vargas avrebbe appoggiato Hitler e Mussolini a causa delle forti pressioni esercitate dalle popolose comunità tedesche e italiane del Sud (São Paulo, Santa Catarina, Paraná, Rio Grande do Sul), nel 1942 il Brasile prese una decisione radicale: rompere le relazioni diplomatiche con i paesi dell’Asse e, dopo aver subito da questi l’affondamento di alcune navi mercantili, dichiarare guerra all’Italia e alla Germania. Con questa mossa, il Brasile di Vargas aprì le braccia alle sovvenzioni statunitensi che, da tempo, attendevano l’appoggio bellico del Paese, in cambio dei finanziamenti per lo sviluppo dell’industria siderurgica nazionale e di patti di assistenza militare. In Brasile, però, i nazifascisti delle nostre comunità del Sud cercarono di minare l’alleanza con gli USA: a tal fine istituirono la Quinta Colonna, una struttura spionistica che raggiunse i massimi livelli del potere. Vargas si trovò costretto a spingere alle dimissioni Francisco Campos, ‘padre’ della Costituzione, e Filinto Müller, capo della polizia, entrambi simpatizzanti dell’Asse.
La partecipazione effettiva dei soldati brasiliani al conflitto, tuttavia, si ebbe solo due anni più tardi: le permanenti influenze delle comunità italiane e tedesche ritardarono l’azione bellica. Le truppe della FEB -Força Expedicionária Brasileira, oltre 25.000 uomini, di cui circa 15.000 effettivamente attivi nel conflitto - sbarcarono a Napoli con un primo scaglione di cinquemila uomini a partire dal luglio del 1944 e risalirono la penisola per concentrarsi nella zona dell’Appennino Tosco-Emiliano. Comandati dal generale Mascarenhas de Moraes, i soldati brasiliani portarono con sé, oltre a chitarre e derrate alimentari tropicali, anche qualche aereo, i P47 Thunderbolt, i primi aerei sudamericani a volare e combattere sui campi di battaglia europei.
Le truppe brasiliane, però, non erano preparate a un conflitto di tale portata. Di estrazione sociale piuttosto bassa e variegata - disoccupati, piccoli commercianti, contadini, alcuni ex galeotti -, i militari sudamericani non avevano alcuna tradizione bellica, non avendo mai partecipato a spedizioni d’oltremare: erano abituati perlopiù al controllo delle piccole scaramucce di frontiera con i Paesi confinanti. I loro ufficiali, addestrati alla scuola francese, non avevano la preparazione adeguata al conflitto e, ‘accettati’ come piccolo contingente di rinforzo dai colleghi statunitensi, dovettero azzerare tutta la loro preparazione militare e ricominciare daccapo, secondo la tradizione americana. Mal equipaggiati e totalmente impreparati all’impervio clima appenninico - molti non avevano mai visto la neve prima e si ammalarono di polmonite o di pleurite -, furono vestiti da capo a piedi dall’esercito statunitense. Quasi tutto - armi, abiti, accessori - era Made in USA e gran parte delle attrezzature date loro, in realtà, si rivelarono rimanenze di magazzino degli americani. Mascarenhas de Moraes litigò con i vertici militari statunitensi: secondo gli accordi, questi avrebbero dovuto fornire i nuovi fucili Garand M1 alle truppe di fanteria, ma nei magazzini trovarono solo vetusti M 1903. Oltre a queste difficoltà tecniche, si aggiunsero problemi di natura caratteriale. I brasiliani, popolo gioioso e poco portato alle guerre, erano arrivati all’altro capo del mondo per lottare, ma senza una vera motivazione ideologica - le idee aberranti del nazifascismo erano note a ben pochi soldati -, e molti si ritrovarono con un fucile in mano solo per rispettare gli ordini: i tedeschi erano, ufficialmente, i nemici, e come tali andavano combattuti. La loro avventura bellica, dunque, apparve improvvisata. Non per questo, però, gli uomini della FEB - soprannominati ‘pracinhas’ (da praça, arruolamento nell’esercito, truppa) - mancarono di combattere con grande dignità, perdendo anche numerosi soldati sul campo.
La prima battaglia che dovettero affrontare fu quella del piccolo Monte Castello (887 m), un’altura situata al confine tra il territorio bolognese e quello modenese: in pratica uno sbarramento naturale - dunque di importanza strategica - fra la valle del Reno e quella del Panaro. Già gli americani avevano tentato di conquistare il monte, dov’era dislocato un piccolo e agguerrito contingente tedesco, ma senza successo. I brasiliani riuscirono a espugnare l’altura solo dopo alcuni attacchi, durante i quali subirono gravi perdite - così come un contingente sudafricano alleato -, circa un terzo di quelle totali nel corso della partecipazione al conflitto. Solo dopo l’impiego degli aerei in dotazione riuscirono a conquistare le postazioni tedesche. Questa prima vittoria - considerata però di scarsa importanza dagli Alleati -, per gli uomini del generale Mascarenhas e per la stampa brasiliana divenne immediatamente ‘il più alto esempio dell’eroismo dei nostri soldati’ e il Monte Castello, ignoto ai più - è così piccolo da non essere nemmeno segnato sulle cartine -, divenne il monte più importante d’Italia per le forze armate brasiliane. Le poste brasiliane, addirittura, gli hanno dedicato una serie di francobolli.
Durante la permanenza in questo territorio, i soldati brasiliani ricevettero un aiuto fondamentale dai partigiani, esperti conoscitori della zona. Alcuni, anche se ammaliati dalla simpatia di questi esotici e strani sconosciuti venuti a morire per una causa estranea a migliaia di chilometri da casa, ebbero a ridire sulla loro scarsa preparazione bellica: poca attitudine alla lotta, improvvisazione eccessiva - in un’occasione andarono in perlustrazione di notte, a pochi metri dalle linee tedesche, con le lanterne accese -, scarsa disciplina.
Nei rapporti con l’esigua popolazione rimasta in loco - chi non combatteva con i partigiani o con l’RSI o era saltato sulle mine tedesche o era fuggito in zone più sicure -, i brasiliani stabilirono un ottimo rapporto, nonostante i non pochi problemi di lingua (con gli americani comunicavano in un italiano incerto). I ragazzini di allora, divenuti oggi pensionati, si ricordano ancora dell’abacaxi (ananas) in latta e delmingau - una specie di crema densa, fatta con la farina di grano e manioca -, dolci irreperibili in quel periodo se non dalle mani dei soldati brasiliani. Molti di questi, infatti, furono ospitati nelle abitazioni dei civili, soprattutto durante l’inverno.
Alla presa di Monte Castello seguì una seconda tappa, non meno importante: la conquista della città di Montese, situata a circa 8 km dall’altura. Base dei tedeschi, dopo lo sfollamento Montese si era trasformata in una città fantasma. L’attacco avvenne il 14 aprile - inizialmente era stato programmato per il giorno precedente, ma il numero tredici era considerato di cattivo auspicio - e la presa del paese non fu facile. Appoggiati dai carri armati statunitensi, i brasiliani fecero diversi assalti e incontrarono una forte resistenza. Anche in questo caso, tuttavia, i tedeschi non erano numerosi, ma ben appostati - alcuni in trincee naturali nei boschi che ancor oggi circondano la cittadina - e ottimamente equipaggiati. I brasiliani, dunque, soffrirono ulteriori perdite, nonostante l’intenso bombardamento sulla città: in pochi giorni di combattimento la FEB perse tanti uomini quanti quelli caduti sul Monte Castello. Furono catturati diversi tedeschi, mentre l’artiglieria nazista, ritiratasi dal luogo, continuò a bombardare ininterrottamente, per giorni, il paese. Anche la vecchia torre del castello, situata sulla cima più alta, in parte venne fatta a pezzi dai bombardamenti.
Quando i brasiliani entrarono a Montese la città, in pratica, era ridotta a un colabrodo. Qualsiasi edificio - tra i pochi rimasti anche parzialmente in piedi, appena il 40% di quelli originari - era traforato da una miriade di pallottole delle mitragliatici tedesche (le MG34) e alleate.
Il conflitto, per quanto riguarda il contingente brasiliano, proseguì su altre alture della zona e, successivamente, in direzione di Piacenza e Alessandria. Di lì, infine, alcuni gruppi raggiunsero le truppe francesi sul passo di Susa. Nel corso di questo itinerario, la FEB riuscì, non senza un colpo di fortuna, a bloccare la strada ad alcuni reparti tedeschi incalzati, sul versante opposto, dai partigiani. Tra Collecchio e Fornovo, i brasiliani riuscirono a catturare numerosi uomini delle truppe tedesche e dell’RSI, fra cui anche qualche generale.
Terminata la guerra, il Brasile poté fare il triste bilancio della propria partecipazione al conflitto: in 239 giorni di battaglia, dei suoi 25.334 uomini 457 erano caduti, 16 dispersi, oltre 2700 feriti e 35 erano stati fatti prigionieri; in compenso, però, erano riusciti a catturare oltre 20.000 tedeschi.
Tornati a casa, sebbene non accolti con grandi onori - in quel periodo il Brasile viveva un periodo di transizione che, di lì a poco, avrebbe portato al golpe -, i pracinhas non dimenticarono l’Italia e, in particolare, Montese e Monte Castello. Una cinquantina di questi uomini si sposarono, successivamente, con donne italiane conosciute durante la loro permanenza. I morti vennero seppelliti inizialmente nel cimitero del Monumento Votivo Militare Brasiliano di Pistoia (http://www.facebook.com/MonumentoVotivoMilitareBrasilianoPistoia?fref=ts), ma nel 1960 i resti furono traslati al memoriale militare (Monumento Nacional aos mortos da Segunda guerra mundial) della Praia do Flamenco, a Rio de Janeiro. A Pistoia oggi rimangono solo le spoglie di Fredolino Chimango, l’ultimo soldato brasiliano trovato sotto terra a Montese, nel 1967.
Fortaleza, capitale del Ceará dalla quale erano giunti numerosi soldati della FEB, volle intitolare due interi quartieri ai luoghi divenuti famosi, nell’immaginario brasiliano, durante la guerra: Montese e Monte Castelo (con una sola elle). Fortaleza e Montese, inoltre, sono legate da un ‘Patto di Amicizia’ ufficiale. Montese, a sua volta, non ha dimenticato i suoi simpatici amici brasiliani: al Brasile ha dedicato una piazza, un giardino e un largo - probabilmente è l’unica cittadina al mondo ad avere ben tre luoghi dedicati al Paese tropicale -, e in quest’ultimo spiazzo ha eretto il Monumento al Soldato Brasiliano dove, ogni 25 aprile, accorpando la Liberazione dell'Italia a quella di Montese, si commemorano i caduti e la presa della città con un corteo. Alla cerimonia partecipano le autorità locali, gli addetti militari all’ambasciata brasiliana e qualche anziano reduce. Ogni anno, inoltre, arriva qualche comitiva di reduci, venuti a visitare, dopo oltre cinquant’anni, i luoghi in cui, per uno strano caso della vita, in gioventù si trovarono a combattere. In paese tutti, per esempio, ricordano un ex soldato, oggi ingegnere, arrivato qualche anno fa. Non appena rivide la casa in cui si era rifugiato dopo essere stato ferito, si mise a piangere come un bambino. Lì aveva rincontrato la ‘Mama’ che, in quell’occasione, gli aveva regalato un uovo. Non si era mai dimenticato di quell’uovo.
Da qualche anno il comune di Montese ha dedicato parte del suo museo storico alle tristi vicende della Linea Gotica: all’interno, oltre alle testimonianze di altre epoche, è riservato un ampio spazio relativo al periodo della partecipazione bellica brasiliana. Ospitato in sei sale della Rocca, il museo espone foto, documenti e reperti. Anche il vicino comune di Gaggio Montano, che vide il passaggio dei soldati brasiliani, ha voluto ricordare i pracinhas con un cippo alle pendici del Monte Belvedere. Nel 1995, Walter Bellisi, un giornalista di Montese, ha pubblicato un interessantissimo libro sulla partecipazione dei soldati brasiliani (Arrivano i nostri, Golinelli Editore), arricchito da una folta documentazione fotografica dell’epoca.
da Tropico Banana
Pubblicato su Qui Touring, Diario
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