martedì 3 aprile 2012

MESSICO - ALLA RICERCA DEL PEYOTL


Estación Catorce (“stazione quattordici”) è uno sperduto paesino messicano dello Stato settentrionale di San Luís Potosí, sorto in pieno deserto attorno ai trecento metri di binari che lo attraversano. Il treno per Estación Catorce - lo stesso che va a Monterrey - parte ogni giorno dalla sgangherata stazione di San Luìs Potosí: è il mezzo più semplice, seppure molto scomodo, per raggiungere questo luogo dimenticato da dio. Sul treno, affollatissimo, si incontrano venditori ambulanti di formaggio di capra, campesiños diretti a uno spiraglio - più o meno legale - per gli States, indios, ubriachi, galline e cantanti ciechi. Nessun turista. Un posto a sedere è un’utopia, se si viaggia in seconda classe: sono già tutti accaparrati alla partenza dai passeggeri più disposti a scattare e lottare per l’asiento, e chi è dotato di troppa educazione occidentale si fa quasi sempre il viaggio parado, in piedi.
Ma perché sopportare tali fatiche per raggiungere la stazione quattordici (una delle decine lungo il percorso)?
Il motivo può essere solo uno. Chi scende qui, in piena notte, o vi abita (poche centinaia di persone) o è alla ricerca del peyote (peyotl), il cactus allucinogeno. Estación Catorce, infatti, è uno dei pochi luoghi noti in Messico per questa prerogativa. Attorno all’abitato si estende a perdita d’occhio il deserto, l’habitat naturale di questa pianta saprofita ritenuta sacra per alcune etnie indigene, e pertanto non riconosciuta come “droga” proibita - almeno per loro - dalla legge messicana. Di colore verde-grigio, il peyote è un cactus atipico, in quanto cresce per gran parte interrato - ne spunta solo la testa appiattita - alla base di altre piante più innocenti, ed è del tutto privo di spine. Appartiene alla famiglia delle Lophophore (Lophophora williamsii), e contiene - una volta maturo - oltre trenta alcaloidi differenti, tra i quali la mescalina, un potente allucinogeno.




I peyoteros, cercatori del cactus, devono faticare un po’ per trovarlo. Dai binari parte un sentiero sterrato e apparentemente infinito che divide in due il deserto. In questi terreni, in gran parte lottizzati e recintati, il cactus cresce senza sosta, durante tutto l’anno. La crescita del cactus, però, è estremamente lenta: per raggiungere le dimensioni “adulte” (più o meno quelle di un pugno), la pianta ci può impiegare vent’anni. Di conseguenza, questa pianta è considerata una rarità anche in Messico (è endemica solo di questa zona), tanto da essere protetta per legge.
Non appena raccolto, tuttavia, il peyote ricomincia a crescere, purché chi lo recide faccia ben attenzione ad estrarne solo la parte superiore (peraltro quella più ricca di elementi attivi), lasciando interrate le radici. Per trovarlo bisogna cercare qua e là, a volte per ore .- in molti campi è già stato raccolto -, senza chiedere passaggi alle poche auto in transito (onde evitare domande sui motivi della propria presenza): ma, una volta reperitone qualche esemplare, si può essere sicuri che tutto l’appezzamento circostante ne è pieno. I pochi contadini della zona non hanno nulla da ridire contro i peyoteros che, ogni tanto, camminano nelle proprietà, purché non danneggino le altre colture che lottano contro l’aridità.
Tra i locali, chi raccoglie il cactus lo fa per autoconsumo o per rivenderlo a qualche raro turista poco intraprendente. I peyote che si trovano in paese, tuttavia, sono piuttosto secchi e sgonfi, e chi li acquista perde il divertimento (ma anche la fatica sotto il sole cocente) di trovarli da sé.



Consumare il peyote, così come qualsiasi altro allucinogeno - naturale o artificiale -, è un’esperienza destinata esclusivamente a chi è dotato di forte elasticità mentale, non tende solitamente alla paranoia, ed è accompagnato da qualcuno che ha già provato questa esperienza e lo può guidare. Ingerire grosse quantità di questo cactus senza preparazione può essere estremamente rischioso, dal momento che le “porte della percezione” possono essere infinite, e dunque portare anche alle visioni più negative insite in ognuno di noi, con un conseguente danno fisico e mentale permanente. Quella del peyote, dunque, non è un’esperienza per tutti, da provare come un bicchiere di tequila per ammazzare la noia. Gli effetti possono essere molteplici ed estremamente soggettivi: solitamente, chi ingerisce il cactus, ha l’impressione di raggiungere una lucidità estrema, che offre forza e sicurezza, fornendo l’illusione di un ritorno a una “naturalità” quasi animalesca. Si diventa parte integrante del deserto, del suo ecosistema, dimenticando gli altri e venendo attirati, semmai, dalle singole piccole cose - i colori dei fiori, gli insetti, le sfumature dei grani di sabbia - che compongono l’ambiente circostante. La mescalina inibisce i neurotrasmettitori, le barriere fisiologiche che solitamente ognuno di noi usa inconsciamente come filtro per raziocinare e “archiviare” tutto ciò che passa attraverso il circuito sensoriale, esaltando - nei colori, nei rumori, negli aromi - ogni singolo, minimo particolare, facendolo vedere da un’angolazione insolita, più profonda. Alcuni turisti a caccia di avventure da raccontare, spesso infervorati dalle troppe letture di Carlos Castaneda, attraversano questa esperienza con uno spirito piuttosto travisato, alla facile ed esasperata ricerca di allucinazioni, come se lo stato allucinatorio fosse, di per sé, sempre piacevole.


Ingerire il cactus, inoltre, non è certo un’azione piacevole. Amarissimo, il peyote (4-5 esemplari piuttosto grandi) va mangiano lentamente, a piccoli bocconi: per cui, a meno che non si abbia il palato foderato d’amianto, è indispensabile inghiottirlo unitamente a qualche alimento dolcissimo, come zucchero o un ananas ben maturo. Solo così si riesce a buttarlo giù - dopo averlo ben ripulito dalla terra -, e molti, dopo che avranno provato questa esperienza, non riusciranno a consumare lo stesso alimento dolce che lo ha accompagnato per lungo tempo: il solo aroma riporterà immediatamente alla memoria l’amaro del cactus, rendendo indigesto quanto ci si appresta a consumare. Anche se accompagnato da altri alimenti, però, a volte il cactus è così nauseante da provocare il vomito, soprattutto se si è mangiato qualcosa poco tempo prima.
Alcuni peyoteros messicani (generalmente abituati a ingerirlo “a secco”, senza accompagnamento, come una buona bistecca o una foglia d’insalata), poi, forse per variare, forse per evitare il senso di disgusto, consumano il cactus in bombitas, piccole palline di carta igienica che contengono il cactus essiccato e tritato in polvere. La mescalina contenuta nelle “bombette”, seppure non fresca, dà ugualmente effetti analoghi.



Per quanto riguarda il rapporto con la legalità, come già detto, il peyote sarebbe ufficialmente permesso, ma solo agli indios messicani che lo consumano in loco (una cosa è avere le allucinazioni in pieno deserto, altra è farlo in piena città, dove si rischierebbe di finire sotto un’auto o di sparare all’intero vicinato). È assolutamente proibito, però, commerciarlo e trasportarlo fuori dalla zona d’origine, soprattutto se stranieri: i poliziotti corrotti - non tutti, per fortuna -, non aspettano altro che pescare qualche “pollo” pinche gringo per arrotondare il misero stipendio. In Messico, d’altronde, non viene fatta - dal punto di vista legale - alcuna distinzione tra droga leggera e pesante, per cui chi viene sorpreso a commerciare o trasportare grossi quantitativi di peyote va incontro a forti rischi.
La polícia federal, a volte, effettua controlli alla stazione di San Luís Potosí - sulla via di ritorno da Estación Catorce -, negli hotel del villaggio si informa circa gli stranieri presenti, e di rado fa battute nel deserto - aiutata dai militari - per prendere i peyoteros professionisti. Alcuni trafficanti lo esportano dopo averlo ridotto in palline di “gomma”, una resina dura ottenuta con ore e ore di ebollizione, infilate quindi come perline in collane o avvoltolate in carta come caramelle. L’esperienza del peyote, d’altronde, è positiva e unica nel suo genere solo se vissuta nel suo habitat naturale, senza rischiosi travisamenti di natura commerciale o “esportazioni” in luoghi diversi, che nulla hanno a che vedere con la magia del luogo.



Real de Catorce
Dalla parte opposta del villaggio rispetto al deserto, si alza lentamente una bella catena montuosa, che porta - dopo un faticoso ma entusiasmante cammino di 14 km (5 ore, con una bella salita a mulattiera) - alla città semi-fantasma di Real de Catorce, situata a 2000 metri d’altitudine. Abitata durante il suo periodo glorioso - quando la zona era nota per le sue miniere di argento - da circa trentamila persone, oggi ne conta appena novecento. Fondata nel 1772, “El Real” raggiunse il suo periodo di maggior fulgore attorno al 1900 (allora vi si batteva persino moneta in loco), a cui seguì un graduale e definitivo degrado. Della gloria passata oggi, purtroppo, rimane ben poco: la chiesa di San Francesco d’Assisi - con centinaia di curiosi ex voto che ne tappezzano un intero salone -, l’antica casa della moneta, l’arena per i combattimenti dei galli costruita in stile romano (oggi in disuso), e qualche alberghetto e ristorante per i rari visitatori. Alla fredda temperatura - ben più rigida rispetto a quella di Estación Catorce, situata molti metri più in basso -, alcuni rimediano con grosse sorsate del mescal locale El Presidente, di colore rosso vivo - a denotare la gradazione infuocata - e con tanto di ciliegina dentro.
Il Real solitamente vede l’arrivo di due tipi di turisti: quelli (pochi) che vi giungono alla fine di un viaggio allucinatorio - i quattordici chilometri di cammino sono percorsi con il “carburante” dato dal peyote -, e quelli (la maggior parte) che la visitano così come la più nota e vicina Guanajuato, in un unico itinerario attraverso le antiche città minerarie.
Estación e Real de Catorce devono il loro nome ('quattordici') al numero dei componenti di una banda che compì numerose scorribande durante il periodo dell’argento. Tutte le montagne che precedono e circondano l’abitato sono ancora traforate, e si possono scorgere i binari per i carrelli che vanno da una miniera all’altra, i forni entro i quali il minerale era fuso e lavorato, così come le abitazioni in pietra dei minatori, completamente andate i rovina dopo il loro abbandono. Dai racconti dei locali si viene a sapere che le miniere non sono affatto esaurite, ma che il governo non le sfrutta a causa dell’alto costo del lavoro di estrazione, a fronte di una quotazione dell’argento molto bassa (ulteriori estrazioni potrebbero farla diminuire ancora di più).




Gli Huicholes e il rito sacro del peyotl
Per l’etnia indigena degli Huicholes (divisa nelle tribù Hateikitari, Huautuari, Cureatsarixi e Tuapuritari), composta da circa 10.000 persone che vivono nella regione a sud della Sierra Madre Occidentale (a nord di Guadalajara), quello del peyote (jikkuri, hikuli o kikuri, nella loro lingua) rappresenta un vero culto religioso ormai da duemila anni. Separati dal resto del mondo - vivono perlopiù in villaggi isolati e difficilmente raggiungibili -, gli Huicholes (o Saturite, 'Fiori di carta', nel linguaggio degli dèi) sono tra i pochi indios che riuscirono a sopravvivere a Cortéz, trovando rifugio nei profondi canyon della regione, a tremila metri di altitudine. Oltre che da questa etnia, però, il cactus “sacro” è venerato anche da circa 300.000 persone di una cinquantina di altre tribù messicane e statunitensi. Per tutti questi indios il peyote dà equilibrio, cura le punture di scorpione e del serpente a sonagli, combatte la fame e l’impotenza - ma, al tempo stesso, affievolisce il desiderio sessuale -, toglie la stanchezza e il freddo, stimola le nascite e combatte le gravidanze indesiderate.
Tutti questi magici poteri attribuiti al cactus sono confermati in occasione degli annuali pellegrinaggi (solitamente alla fine di settembre, ma anche in febbraio e marzo) verso il Wirikuta, la terra degli antenati, dislocata appunto nella zona di Catorce, circa 400 km a nord est della Sierra Huichola: qui, secondo la leggenda, nacque per la prima volta il sole e oggi vivono gli dèi. Sempre in questo luogo nacquero le dee dell’Acqua e Turikita, la dea dei bambini, così come la luna, le stelle, il mais, le erbe medicinali e tutti gli animali sacri (il cervo, il gufo, il tacchino, l’aquila e il coniglio).
Il rito, che nella pratica corrisponde a grandi raduni negli stati del Chihuahua e di San Luís Potosí (ma con gente che viene anche dal Jalisco, dallo Zacatecas e dal Durango), è necessario - secondo i Maraacame, gli sciamani - per mettersi sulle tracce e cacciare il cervo sacro (Tatei Jikkuri, il Cerbiatto del Sole), corrispondente al peyote stesso. Nessun indio, simbolicamente armato di arco e frecce piumate, caccia per davvero un cervo (peraltro sempre più rari), ma insegue simbolicamente le orme che l’animale mitologico ha lasciato sul terreno: il kikuri (sia il cactus sia il cervo sono indicati con lo stesso termine), cresciuto nello stesso luogo in cui il cervo ha calpestato il terreno.
Nello stato di San Luís Potosí, in particolare, in quell’occasione si radunano gli huicholes dello stato di Nayarit, e questa è una delle poche circostanze in cui questa regione vede l’afflusso dei rari turisti, qui per assistere ai riti degli indios.
Gli huicholes sono preparati al pellegrinaggio (Jikkuritame) fin da piccoli, grazie ai racconti degli sciamani; solo da adulti, però, potranno inoltrarsi nel territorio di caccia del Wirikuta. Questo, solitamente, si trova a centinaia di chilometri dai villaggi stessi, e alcuni impiegano più di venti giorni di cammino (altri usano i mezzi pubblici) per raggiungerlo. Prima del pellegrinaggio, però, i cacciatori devono seguire un rituale indispensabile: dopo aver confessato pubblicamente i propri rapporti sessuali, lo sciamano annoda una corda tante volte quante sono i rapporti che il cacciatore ha avuto. La corda, quindi, viene data alle fiamme, purificando così il cacciatore di ogni peccato - le analogie al cattolicesimo, almeno in questo caso, si sprecano - e preparandolo a percorrere il cammino sacro.
Così purificati, i cacciatori iniziano il pellegrinaggio, dopo essere ritornati a uno stato di 'innocenza' prenatale. Arrivati sul luogo cercano e 'uccidono' il cervo - in pratica estraggono i cactus dal terreno -, attraverso una pista segnata dai Kakayaris, gli dèi trasformatisi in piante, rocce, corsi d’acqua e montagne. All’imbrunire, quindi, si riuniscono in circolo: lì pregano, piangono (poiché sentono la presenza degli dèi), fanno offerte al Wirikuta (tabacco, ghirlande di fiori, monete, acqua e mais) e, infine, consumano la “carne” del cervo.
Dopo breve, gli effetti allucinogeni cominciano a farsi sentire, e ogni huichol intraprende il proprio cammino rituale nel deserto, da solo ma in comunicazione con gli dèi: Tatehuari (o Tatewari, Grande Maestro), il fuoco, padre di tutti i padri e patrono degli sciamani; Jaicu, il mare, nostra madre; Thauviecame, il sole, nostro padre.



Pubblicato su Frigidaire

per la versione romanzata vedi il racconto Peyotl da L'importante è muoversi
http://pietrowrites.blogspot.it/2012/03/limportante-e-muoversi.html



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