mercoledì 4 aprile 2012

CUBA - ¿HABLAS ESPAÑOL?


  A Batabanó la sala d’attesa della kometa, l’idrovolante per l’Isla de la Juventud, è stracolma di passeggeri. L’imbarcazione ha avuto un guasto e la partenza è stata posticipata di appena tre ore. Nell’etere imperversano le note di uno stereo di qualche viaggiatore che ha deciso di allietarci tutti, al massimo volume, con le sue orride scelte musicali.
  Gli unici stranieri, oltre me, sono due cicci biondicci di stazza medio-grossa che confabulano in inglese in un angolo, presidiando due zaini enormi. Quando viene dato l’annuncio del ritardo, esclusivamente in spagnolo, i due hanno un’espressione interdetta. Non hanno capito un’acca del cubano stretto con intermezzo musicale.
  «They said the boat will leave two hours later», spiego loro.
  «Ah, grazie! Di dove sei?»
  «Italia. E voi?»
  «Sudafrica.»
  «Cavolo, credo siate gli unici sudafricani che ho incontrato in anni di America Latina...»
  «Sì, in effetti non siamo in tanti da queste parti.»
  Steve e Alan sono simpatici, birraioli - mi offrono subito una Cristal per contraccambiare il servizio di interprete - e non parlano una parola di spagnolo. Sono in vacanza a Cuba per quindici giorni e, chissà per quale strano motivo, dopo L’Avana anziché spararsi al volo a Varadero, come fa il 101% dei turisti, hanno scelto di venire qui.
  L’aliscafo che sostituisce la kometa ci mette un bel po’ a coprire la traversata e arriviamo a Nueva Gerona, il capoluogo dell’isola, in piena notte. Nonostante l’ora, al molo incappiamo in un jinetero disposto a trovarci un alloggio. Si chiama Jorge, parla un inglese molto migliore del mio ed è uno strano miscuglio di razze, una specie di mulatto austroungarico. Pelle caffelatte, occhi chiari, fisico da surfista.
  A Gerona le casas particuláres abbondano come funghi, eppure oggi sono tutte strapiene. È alta stagione e, anche se questa non è una delle mete turistiche ‘classiche’ di Cuba, per i miei gusti di turisti ce ne sono anche troppi.
  I due sudafricani vengono subito inchiappettati da un affittacamere, che non ha stanze da darci ma spaccia loro due schifose cene a 12$ cada, a Cuba più o meno una rapina. Io e Jorge lasciamo momentaneamente i bagagli nella casa particulár e andiamo a caccia di materassi con un soffitto sopra.
  Jorge riesce a infilare i due in una casa con quindici cani che latrano ininterrottamente. Non ci starei nemmeno se mi dessero 100$ a notte, però loro hanno fatto il servizio militare (in Sudafrica), io sono stato riformato per crisi depressive. A me tocca una simpatica cameretta tappezzata di zanzare subito girato l’angolo, ma fuori dalla frequenza degli ululati. Riusciamo, così, a rimanere vicini e ognuno con la propria privacy.
  Jorge mi conferma ciò che avevo letto sulle guide. L’isola, I-love-youth, così come la chiama con un gioco di parole, è stata per anni meta di studenti da mezzo mondo socialista o da paesi del ‘terzo mondo’ - in particolar modo africani - con cui Cuba aveva rapporti di favore. Vi venivano a studiare ragazzi russi, angolani, mozambicani, e le scuole in cui i cubani univano lo studio al lavoro nei campi - principalmente la coltivazione di agrumi - erano assai diffuse. Lingue come l’inglese, il russo e il portoghese, di conseguenza, erano abbastanza comuni, e gli abitanti sono stati contagiati da uno spirito ‘ggiovane’, rimasto ancor oggi. Da lì il nome Isla de la Juventud, adottato a partire dal 1978. Con il nuovo millennio le ondate di studen-lavoratori si sono notevolmente ridotte, ma qua e là si vedono ancora diversi negroni angolani o dello Zimbawe, vestiti come marziani. Zeppe da Spice Girls e giubbotti di pelle nera stratardopunk.
  Nonostante sia notte inoltrata e siamo a pezzi, dopo una doccia rigeneratrice facciamo un salto fuori. Durante la caccia alle camere abbiamo captato un bel movimento di baretti e gente allegra nella via principale. L’ultimo locale aperto è il Patio, dove imperversa la salsa più pura, il mio genere preferito. Dentro c’è un’accozzaglia di pizzetti & basette e jineteras, e dopo un paio di birre siamo lessi. Qui, terra di frontiera, sembra che il repulisti di Castro non sia ancora arrivato, e nell’aria si respira libertà di azione.
  La mattina seguente, mentre faccio colazione, conosco il mio coinquilino, quello con cui sono obbligato a dividere gli aromi del bagno. È un arzillo vecchietto inglese, sponsorizzante fidanzata locale. Lei ha la metà dei suoi anni e lui va matto per la salsa. La notte prima, in effetti, lo avevo intravisto mentre zampettava sulla pista, e ora è già qui di nuovo che mi fa una mossetta d’anche, mentre mi infilo una papaya in gola. Richard, così si chiama, ha sessantacinque anni e viene all’Isla ogni primavera. Da come me lo racconta la sua compagna - anche lui non spiccica una parola di spagnolo -, però, non sembra molto felice (lei).
  Passo la giornata con i sudafricani a visitare prima l’assurdo Presidio Modelo, poi la spiaggia di Bibijagua. L’ex galera, ora trasformata in una location ideale per un rave, oltre che in museo, ospitò Castro e soci prima della Revolución. I bambini giocano a pelota nei grandi cilindri che costituivano le ali della prigione, enormi alveari in cui i galeotti, soprattutto oppositori politici, erano ammassati l’uno sull’altro. Il dittatore Batista copiò pari pari il disegno della galera da una dell’Illinois, e oggi tutte le porte , finestre e sbarre sono state tolte e riciclate.
  Alan e Steve destano molta curiosità tra i cubani. Innanzitutto perché nell’isola di sudafricani non se ne vedono mai, e poi perché durante l’apartheid le truppe di Castro le diedero di santa ragione ai soldati di Johannesburg che, appoggiati dagli USA, avevano invaso l’Angola. Sono ben pochi, dunque, quelli che visitano per turismo un ex paese nemico da cui le hanno buscate (americani in gita a Saigon). Tutti i cubani che incontrano, però, li trattano con gentilezza e curiosità, senz’alcun rancore internazionalista.
  La spiaggia è deserta, per i locali è inverno - in realtà fa un caldo bestia - e l’acqua è ‘troppo fredda’, avercela in Padania. Sulla sabbia nera siamo solo noi tre, e l’albergo che costeggia la strada è vuoto.
  Mentre mi perdo nel torpore da sole tropicale vengo improvvisamente svegliato da un tipo che si è seduto a dieci centimetri dal mio telo e mi sta sottoponendo a un interrogatorio:
  «Di dove sei? Che fai qui? Mi chiamo Raúl. Sono sempre vissuto qui. Ah, che fortuna, voi stranieri, potete viaggiare, andare dove volete, muovervi come vi pare. Noi, invece, sempre e solo qui. Ma prima o poi le cose cambieranno, eh sì, devono cambiare. Italia? Che bello! Il papa, la Ferrari, la moda...»
  Dopo un quarto d’ora di monologo devo interrompere Logorrea, mi fischiano le orecchie e inizio a notare un certo arrossamento nell’interno coscia. Forse l’acqua salata del mare.
  Ferrari? Papa??
  Annoiati dal nulla che ci circonda, e temendo di subire altre nuove amicizie, facciamo dietrofront in città. Alan e Steve, però, prima di affrontare il viaggio, non possono fare a meno di scolarsi una bella bottiglia di Bacardí, allungato con Tropicola.
  «Vi piace bere, eh, ragazzi?»
  La pancetta burrosa che portano a spasso è già una risposta.
  Di ritorno a casa il sonnellino postspiaggia è impossibile, alla tv del salotto imperversa una partita di pelota a volume deflagrante, l’inglese è già ubriaco e canta l’ultima hit di salsa sotto la doccia con accento cockney. È meglio che vada a farmi due passi.
  Al ristorantino Rumbos, l’unico sempre aperto lungo la via principale, conosco Mylady, nome vomitoso eppur vero. A Cuba, come in Brasile, la fantasia contadina nel scegliere i nomi non ha davvero confini. Mylady ha lineamenti travesti e, sebbene sia chiaramente una jinetera, sembra dedicarsi alla professione con distacco e pacatezza, senza quell’aggressività tipica di molte colleghe. Mi sta già simpatica.
  Alla sera andiamo tutti assieme alla discoteca Gaviota, un antro buio e fumoso reso ancor più inospitale dal gelo dell’aria condizionata unito agli effluvi del sudore birroso che esce dai pori di tutti. La musica, però, non è male, e i sudafricani tirano su un paio di fidanzate. Alan dà il via a una relazione tra sordomuti con una fanciulla carina che sembra avere quindici anni, anche se il carnét afferma che ne ha diciannove. Per abbordarla chiede aiuto a me e a Mylady e, dopo circa mezz’ora di telefono senza fili e dimenamenti in pista, riesce ad allungarle il primo bacio. Steve è meno intraprendente e ci mette almeno un’ora per farsi accalappiare da una professionista con la faccia da libera professionista. Si chiama Julia ed è di Las Tunas. 

  La serata termina come da copione e i due ragazzi, nonostante per risparmiare dividano lo stesso materasso matrimoniale della stessa camera, forse anche lo stesso cuscino, si spera non la stessa fidanzata, riescono a concludere in maniera turisticamente poco corretta la notte. Alan sul divanetto, Steve sul materasso. Naja sudafricana, tempra i più duri.
  La mattina dopo la minorenne-maggiorenne, inventatasi jinetera per l’occasione - Alan aveva talmente insistito, e poi ha un figlio da mantenere -, non ha potuto rifiutare la vorticosa somma di 5$ che il suo nuovo ragazzo le ha elargito a prestazione conclusa. ‘Per il taxi’, si è soliti dire in tali circostanze. Julia, invece, che ha già i calli del mestiere, non lascia la preda, e gli offre una piena ventiquattrore di lezioni di spagnolo. I due si trancano in camera ed escono solo il giorno successivo.



  Me ne vado con Alan a vedere la finale di baseball tra la squadra dell’Isla e quella di Pinar del Río, il piccolo stadio è gonfio di gente invasata e vince la squadra locale. Credo di non aver mai visto un casino tale in vita mia. Il concerto dei Dire Straits all’antistadio di Bologna quando ero piccolino, dove un’orda popolare di portoghesi travolse quattro carabinieri messi lì per punizione a fare da cancello, fu senz’altro più ordinato e composto. Concerto svizzero.
  Alan va avanti a birre, ne trangugia una dietro l’altra, non so come faccia. Io alla seconda a stomaco vuoto sono già su Marte e sogno un letto, lui mi chiede impassibile se mi piace Laura Pausini (cazzo, anche in Sudafrica?!) e mi conferma che adora Monica Bellucci (gli si può dar torto, anche se lui non l’ha mai sentita parlare?).
  Alla sera siamo di nuovo al Rumbos, il centro dell’azione, oltre che dello spaccio legalizzato di polli fritti. Lì incontro Aldo, coltivatore diretto di Ascoli Piceno, così si presenta. Ha una pelata da leucemia, accento da coltivatore diretto di Ascoli Piceno, sguardo da matto e logorrea terminale. Tutti io, li becco.
  «Bella l’Isla, eh? Io, in realtà, preferisco Cienfuegos. Lì sì che ci si diverte. Un sacco di ragazze, costano poco ed è tranquillo. Qui, dopo un po’, è noioso, però con 15$ e un profumo a botta te la cavi.»
  «E allora come mai sei venuto qua?»
  «Me ne avevano parlato bene, in effetti non è male, ma è un po’ troppo tranquillo per i miei gusti. Anni fa andavo sempre in Venezuela, ma ormai Caracas è diventata pericolosissima. Non puoi più girare per strada con un paio di scarpe come queste - mi indica le sue Nike che costano come due anni di salario di un professore cubano - che ti puntano un coltello alla gola. Non ci metto più piede.» Bel gioco di parole, anche se non sembra essersene accorto.
  Improvvisamente sentiamo un gran baccano alle nostre spalle. Un protettore sta discutendo con una jinetera per questioni finanziarie, forse si tratta di blue chips, una volta tanto non per affari di pelota. Di colpo le molla un ceffone che rimbomba nella piazzetta. Le rondini garriscono e le foglie tremule cadono, ma non è autunno.
  «Fermo! Che fai?»
  Ascoli Piceno gli salta addosso, bloccandogli le mani. Il chulo è nero, incazzato nero e alto circa due metri, ma Aldo, essendo pazzo e abituato a roteare vanghe giù al bar del paese, non teme di affrontarlo. Il cubano lo respinge con uno scatto controllato, non vuole far scoppiare una rissa. Nonostante qui la polizia sia più permissiva che altrove, non è permesso picchiare le proprie ragazze e i turisti.
  Sono sorpreso dalla galanteria di A.P.
  «Le donne non si picchiano, mai, per nessun motivo!», sbraita in italospagnolo al pappa manesco, in un impeto di cavalleria rustica.
  Mentre l’ira sbolle ci sediamo su un muretto e ci raggiunge un tal Kurt, tedesco di Hannover, cinquantenne con faccia trentenne, tutto boccoli biondi e viso leccatino. Una catena d’oro a maglie superlarghe risplende sotto la camicia turchese stiratissima, impeccabile. Sembra un rappresentante di cassette porno, robe tedesche, con i cani lupo. Ogni sera, prima di uscire, deve passare almeno un’ora a prepararsi davanti allo specchio. E, prima di andare a dormire, si deve spalmare le creme della giovinezza. Da grande vorrei essere come lui.
  «I tempi d’oro sono finiti - mi esterna nel suo spagnolo con forte accento tognino -, fino a qualche anno fa sì che ci si divertiva. Ti sedevi in un posto come questo e dopo mezzo minuto c’erano cinque ragazze, giovani e carine, che ti abbordavano e che volevano fare l’amore con te per il puro gusto di stare con uno straniero. Non le dovevi nemmeno pagare, al massimo qualche regalino, ed era fatta. Oggi hanno paura della polizia, se ti avvicinano è perché vogliono solo tagli grossi, e poi guarda qua - mi indica la piazzetta e le sue frequentatrici -, bella roba, eh?...»
  Prima di andare a letto i sudafricani passano dalla biglietteria del porto a comprare il passaggio della kometa per il giorno successivo e a informarsi sugli orari. Dopo pochi minuti li vedo tornare scoraggiati e incavolati.
  «Che cosa succede?»
  «Vorremmo andarcene da quest’isola, ma alla biglietteria nessuno parla inglese e la tipa che sta allo sportello è odiosa.»
  Li riaccompagno al molo per aiutarli. L’impiegata, in effetti, sarebbe da strangolare. Non ha il minimo concetto di gentilezza e a dire una parola che sia una in inglese - o, almeno, a parlare lentamente in uno spagnolo comprensibile - non ci prova nemmeno. A ogni modo riesco a comunicare ai due che l’idrovolante parte alle sette del mattino e alle tredici. Per prendere il primo dovranno presentarsi alle sei e chiedere al capitano se ci sono posti, la prevendita non è ammessa e i passaggi vengono venduti solo all’istante. Dovranno svegliarsi all’alba.
  «Ok, molte grazie, Luigi.»
  Insistono a chiamarmi così, anche se sanno benissimo che il mio nome è Pietro. Pensano che Luigi sia più italiano, più a livello.
  Alla sera Mylady, che ha un nome non a caso, amo le donne pulite, si fa una doccia prima di dormire. Il vecchiaccio inglese, tornato a casa venti secondi dopo che lei si è asseragliata in bagno, inizia a battere forte alla porta urlando cose da hooligan. Al Patio si è bevuto una cassa di birra e ora deve scaricarla veloce veloce, questioni di prostata.
  «Fai in fretta!», le consiglio urlando dalla camera. I soldati della Regina, si sa, non hanno pietà per i meticci.
  La mattina dopo l’antico ci tiene il muso e la sua ragazza ci prende da parte:
  «Non ne posso più, lo odio. Questa, lo giuro, è l’ultima volta che gli faccio da bambinaia. Il prossimo anno, se sarà ancora vivo, se ne troverà un’altra.»
  Sono le dieci e Alan e Steve, che già dovrebbero essere nei pressi di Batabanó, si presentano a fare colazione.
  «Che cosa ci fate qui??»
  «Quel bastardo del comandante non ci ha fatti salire a bordo. Ha detto che l’idrovolante era già strapieno, e ci tocca aspettare quello dell’una. Alan ha cercato di salire a tutti i costi sulla kometa, poi, quando il capitano si è opposto e ha cercato di bloccarlo, quasi lo butta in acqua...»
  Mi sono perso una bella scena.
  «Vogliamo andarcene da quest’isola del menga, ma sembra impossibile. Abbiamo solo due settimane e non vorremmo passarle confinati qui. E poi quella gran vacca di Julia s’è fregata i miei occhiali da 200$. Le avevo dato quindici dollari per la notte, come mi aveva suggerito il tuo amico contadino, però sembra che non le siano bastati. Forse perché mi sono rifiutato di comprarle anche un profumo. Comunque sia, ieri mi ha chiesto gli occhiali in prestito per un momento, ed è scomparsa. Ti lascio il mio indirizzo. Se la vedi dille che... Ok, vabbè, lasciamo stare, sono scemo e me lo merito. Comunque, per favore, dille che la denuncio, tanto per farle prendere un po’ di paura.»
  Alle due del pomeriggio, finalmente, i ragazzi riescono a ripartire, stremati e inaciditi. Per chi no abla Español e compra occhiali da 200$ l’America Latina, a volte, può essere molto dura.

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