Fino
alla metà degli anni Novanta Riccione e Milano Marittima, le due località più
scintillanti della riviera romagnola, detenevano il primato del prestigio
modaiolo-vacanziero, tra discoteche e ristoranti, vetrine e passeggiate. Sfilare
firmati fino alla biancheria intima lungo viale Ceccarini, o specchiarsi nelle
vetrine di ‘Milano’, per non parlare delle lunghe notti nelle discoteche a
cinque stelle, era un atto dovuto per chi si sentiva élite e d’inverno andava a
Cortina d’Ampezzo. Marina di Ravenna era, da decenni, una tranquilla spiaggia
per famiglie, decisamente più ‘proletaria’ e meno presuntuosa, a breve distanza
dal polo industriale di Ravenna, tra le dune e una folta e profumata pineta.
Capanni per la pesca qua e là, aironi e qualche rivendita di piadine. Puzzette
di pesce e di ciminiera nell’aria, qua e là coperte da aromi culinari di
frittura. Pochi fronzoli e molta sostanza: bagni tradizionali, sdrai a prezzi
accessibili, bagnini veraci e mosconi parcheggiati sul bagnasciuga. Clientela
perlopiù ravennate o bolognese, in fuga dalle vanità delle località più famose,
bisognosa di sole e pace. Ogni estate nel bagno di sempre, dandosi del tu con
il bagnino di fiducia.
Poi
successe qualcosa. Due bagni, i Padri della Rivoluzione, preveggenti e dotati
di un buon fiuto commerciale, decisero di dare il “la” a un nuovo stile. O, meglio,
a uno stile di importazione. La Duna degli Orsi e il quasi attiguo Zanzibar,
influenzati da altre latitudini - il primo dallo stile surfista
americaneggiante, il secondo dal Brasile festaiolo -, ruppero la tradizione.
Musica in spiaggia, a volte dal vivo e dichiaratamente diversa dalle ritrite lagne
sanremesi. Parei avvolgenti, cibi esotici, happy hour danzanti in cui,
finalmente, gli etilisti potevano dare il meglio di sé a prezzo scontato. Facce
nuove, più giovani e solari rispetto alla sbadigliosa clientela di sempre.
Qualche primo straniero, mentre Jorge Ben o Caetano Veloso arricchivano l’aria.
Facendo sognare Rio de Janeiro o, più in generale, l’Altrove.
Nel
giro di poche stagioni, un po’ come una Ibiza, d’antan, Marina di Ravenna
‘prese fuoco’. Il passaparola, più che i PR dal sorriso forzato, fu il
carburante che sviluppò le fiamme. I fine settimana, non ancora week-end,
divennero un momento da non perdere, se non un must, allo Zanzibar, dove
si ballava fino a dopo il tramonto, con le zanzare che ti mangiavano vivo e i
carabinieri a caccia di qualche consumatore di sostanze non riconosciute dalla
legge tra i molti collassati nella pineta.
La
cosa prese presto la mano agli ideatori del nuovo corso. Gente da tutta
l’Emilia Romagna, ma anche da altre regioni, iniziò ad accorrere in massa. I
bagni concorrenti più svegli, visti gli affari che gli ‘innovatori’ stavano
facendo, cambiarono in fretta il guardaroba. Nuovi gestori subentrarono alla
vecchia guardia, tradizionalista e un po’ spaventata/disgustata dalla ‘strana’ umanità
che aveva cominciato a frequentare il loro territorio. Dei bagni per
famiglie rimase poco, se non per volere di qualche integralista dell’ombrellone
e del secchiello, soprattutto fra le profumate pinete della vicina Marina
Romea, oltre il canale di Porto Corsini, da sempre ideale per chi cerca la tranquillità.
A ‘Marina’ - così Marina di Ravenna viene solitamente chiamata da chi la
frequenta - alcuni adottarono il rock americano degli anni Ottanta come colonna
sonora e stile di vita, altri si diedero alle atmosfere misticheggianti
balinesi, tra massaggi in spiaggia e statue del Buddha, in spiaggia pure loro. Alcuni
decisero di copiare pari pari i cliché che abbiamo di Cuba, tra salsa
pompata ventiquattrore al giorno, sigari e rum (uniche assenti le mulatte). Altri
si dedicarono allo sport, trasformando il bagno in una specie di stadio
olimpionico, dove tutte le discipline ginniche da/sulla sabbia fossero
possibili. Campionati di racchettoni o, più internazionalmente, di beach
tennis. Mai più pallavolo, dal nome troppo parrocchiale: d’ora in poi e per
sempre beach volley. Scalate (scusate, free climbing) su
pareti artificiali. Calcetto (non ancora tradotto, chissà fino a quando). Tutto
il surf conosciuto (wind, kite, ecc.), escluso quello più
tradizionale: le onde che schiaffeggiano il polo chimico di Ravenna non sono
così imponenti. E poi, scippando l’autenticità di un tempo allo Zanzibar, il
bagno Mosquito Coast, piccola Salvador de Bahia trapiantata in terra
romagnola. Musica dal vivo, samba, frescobol, amache, spettacoli di capoeira,
perfino lattine di guaraná e birra importate dal Brasile. Molti italiani
innamorati della terra di Jorge Amado, avvolti da magliette gialle della seleção
e con il cuore lasciato da qualche parte tra Belém e Porto Alegre. Brasiliani
veri, tutti quelli della regione, lì per dimenticare il lavoro quotidiano in
fabbrica o in qualche ospedale, parlare portoghese e uccidere la straziante saudade.
Marina
di Ravenna, oggi, sembra aver portato via parte della ‘clientela’ a Riccione e
a Milano Marittima. Chi cerca il divertimento, meno laccato e un po’ per tutti
i gusti, lì sembra trovarlo, tra un campionato di racchettoni all’ultima goccia
di sudore e una caipirinha fatta come Dio comanda. Come tutte le
rivoluzioni che si rispettino, però, anche quella di Marina di Ravenna ha avuto
il suo riflusso, il suoi contro-rivoluzionari. Chi si è già stancato
dell’esotismo pompato, delle ‘nicchie’ stilistiche dei bagni, di solito, a fine
bagno di sole, segue il tradizionale percorso degli indigeni ravennati: un
aperitivo al ‘baretto’ di Porto Corsini, osservando, tra il sogno e una leggera
ubriachezza, il lento scorrere dei mastodontici mercantili o delle petroliere
portati a braccetto dalle navi-pilota fino all’ormeggio. Con un bel tramonto
sullo sfondo e i gabbiani addomesticati che, a un passo dai bicchieri dei
clienti, svolazzano a caccia di offerte (salatini, popcorn). Nell’aria uno
stereo trasmette musica degli anni Ottanta, antica come il luogo.
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