Fra santi, banditi e cantastorie
Padre Cícero, il ‘Padre Pio del Sertão’
Padre Cícero Romão Batista nacque nel 1844 a Crato, una piccola cittadina del Ceará; a dodici anni fece voto di castità e nel 1870 fu ordinato prete. Arrivò a Juazeiro do Norte - seconda città del Ceará, dopo la capitale Fortaleza - a ventotto anni e, dopo essersi innamorato del luogo, vi si trasferì definitivamente. Una leggenda, la prima di una serie che costella la sua biografia, narra come Padre Cícero avesse deciso di vivere a Juazeiro in seguito a una visione di Gesù e dei dodici apostoli seduti alla tavola dell’Ultima Cena. Durante il banchetto, improvvisamente, sarebbero entrati nella sala diversi mendicanti, contadini cearensi in fuga dalla secca del sertão. Gesù, sorpreso dalla miseria umana, si sarebbe rivolto al padre ordinandogli di avere cura, da quel momento in poi, dei poveri della regione.
Stabilitosi a Juazeiro, il prete iniziò a lavorare, andando a visitare i fedeli nelle abitazioni, conquistandosi rapidamente l’amicizia dei cittadini. Divenne così il capo spirituale e carismatico della piccola comunità, impegnandosi anche nella lotta all’alcolismo e alla prostituzione, assai diffusi. Cominciarono ad arrivare persone dai villaggi limitrofi, curiose di conoscere il nuovo cappellano, e Padre Cícero organizzò una lega di fratellanza composta da beate, donne nubili o vedove estremamente pie.
Il 1° marzo 1889 accadde il fatto che diede fama a Padre Cícero in tutto il Brasile. Quel giorno, durante la comunione nella cappella di Nossa Senhora das Dores, Maria de Araújo, una delle beate, all’atto di ricevere l’ostia vide trasformarsi quest’ultima in sangue e svenne. Il ‘miracolo’, secondo la cronaca, si ripeté decine di volte, e la popolazione ne dedusse che il sangue fosse quello di Cristo. Il panno con il quale la beata si asciugava la bocca dopo il rito rimaneva macchiato di sangue e ogni volta che l’evento si ripeteva Padre Cícero apponeva sul panno la data e la firma.
Subito dopo il primo ‘miracolo’ Padre Cícero mantenne il silenzio sull’avvenimento, ma al suo ripetersi invitò come testimoni un paio di medici e un farmacista, i quali riportarono su un articolo l’accaduto, senza riuscire a spiegarlo scientificamente. La notizia ebbe una forte ripercussione in tutta la regione e i primi pellegrini accorsero per vedere la beata e adorare il panno. La notizia delle ostie che si trasformavano in sangue, sempre e solo con la stessa beata, fu diffusa dalla stampa e presto giunse alle orecchie del vescovo di Fortaleza Dom Joaquim, che la accolse in maniera decisamente negativa. Padre Cícero fu convocato al Palazzo Episcopale, dove espose dettagliatamente i fatti. Il vescovo costituì una commissione di inchiesta - formata da altri due preti - la quale, dopo aver ascoltato la beata e i diversi testimoni, giunse alla conclusione che l’accaduto era da considerarsi, in effetti, un vero e proprio miracolo. Il vescovo, tuttavia, non accettò l’esito dell’inchiesta e nominò una seconda commissione. Convocata nuovamente la beata, altri due preti le diedero la comunione e, dal momento che nulla accadde, conclusero che non si poteva trattare di miracolo. La relazione venne inviata al Vaticano e la Santa Sede la confermò. Tutti i religiosi che avevano creduto al miracolo furono obbligati a ritrattarlo pubblicamente, mentre Padre Cícero, che meritava la punizione maggiore, fu espulso dall’ordine. Il prete tentò allora di evitare la condanna, viaggiò fino a Roma dove riuscì a ottenere una specie di perdono ufficiale. Il vescovo di Fortaleza, tuttavia, non ne tenne conto e continuò a considerare come definitiva la sua espulsione dall’ordine. Tramite il vescovo di Crato, fece perquisire le case della regione e bruciare tutti i panni insanguinati reperiti. Questo fatto, ovviamente, rese ancor più forte il mito del miracolo di Padre Cícero (tanto da essere arrivato, oggi, persino nelle sale cinematografiche, con Milagre em Juazeiro, del cearense Wolney Oliveira).
Subito dopo il primo ‘miracolo’ Padre Cícero mantenne il silenzio sull’avvenimento, ma al suo ripetersi invitò come testimoni un paio di medici e un farmacista, i quali riportarono su un articolo l’accaduto, senza riuscire a spiegarlo scientificamente. La notizia ebbe una forte ripercussione in tutta la regione e i primi pellegrini accorsero per vedere la beata e adorare il panno. La notizia delle ostie che si trasformavano in sangue, sempre e solo con la stessa beata, fu diffusa dalla stampa e presto giunse alle orecchie del vescovo di Fortaleza Dom Joaquim, che la accolse in maniera decisamente negativa. Padre Cícero fu convocato al Palazzo Episcopale, dove espose dettagliatamente i fatti. Il vescovo costituì una commissione di inchiesta - formata da altri due preti - la quale, dopo aver ascoltato la beata e i diversi testimoni, giunse alla conclusione che l’accaduto era da considerarsi, in effetti, un vero e proprio miracolo. Il vescovo, tuttavia, non accettò l’esito dell’inchiesta e nominò una seconda commissione. Convocata nuovamente la beata, altri due preti le diedero la comunione e, dal momento che nulla accadde, conclusero che non si poteva trattare di miracolo. La relazione venne inviata al Vaticano e la Santa Sede la confermò. Tutti i religiosi che avevano creduto al miracolo furono obbligati a ritrattarlo pubblicamente, mentre Padre Cícero, che meritava la punizione maggiore, fu espulso dall’ordine. Il prete tentò allora di evitare la condanna, viaggiò fino a Roma dove riuscì a ottenere una specie di perdono ufficiale. Il vescovo di Fortaleza, tuttavia, non ne tenne conto e continuò a considerare come definitiva la sua espulsione dall’ordine. Tramite il vescovo di Crato, fece perquisire le case della regione e bruciare tutti i panni insanguinati reperiti. Questo fatto, ovviamente, rese ancor più forte il mito del miracolo di Padre Cícero (tanto da essere arrivato, oggi, persino nelle sale cinematografiche, con Milagre em Juazeiro, del cearense Wolney Oliveira).
Sembra che l’unico panno insanguinato superstite fu ritrovato da Dona Dalva Mendonça, una fedele che sognò il prete mentre le confidava dove questo fosse nascosto, sotto una statua del Bambin Gesù di Praga, nella casa di una beata. Il panno fu ritrovato e in breve si trasformò in una reliquia preziosissima. Oggi è custodito gelosamente nell’abitazione di un’anziana che non lo mostra a nessuno per timore che le venga rubato: ne è uscito una sola volta e per pochi minuti, il tempo indispensabile affinché il personale del Memoriale di Padre Cícero, un museo dedicato al religioso, potesse fotografarlo.
Ritornato a Juazeiro, dove gli era stato proibito di celebrare le funzioni, il prete non perse la capacità di richiamare grandi masse di pellegrini, le cui offerte venivano convertite in orfanotrofi e scuole: da lì alla politica il passo fu molto breve. Nel 1911 Padre Cícero fu eletto primo sindaco di Juazeiro e vicepresidente del Ceará. Lo stesso religioso raccontò, nel suo testamento spirituale, di essere stato spinto a quel passo dall’insistenza degli amici, promotori della secessione armata dalla capitale. Tra il 1911 e il 1914, infatti, Juazeiro do Norte era arrivata a una vera e propria rivoluzione contro Fortaleza e lo stato del Ceará, all’epoca governati dal colonnello Marcos Franco Rabelo. Gli scontri più cruenti si ebbero nel 1914, quando numerosi amici del prete si misero a capo del moto rivoluzionario. Rabelo, in tale occasione, arrivò a dichiarare di voler portare la testa di Padre Cícero in trofeo, infilata su una lancia, a Fortaleza.
La rivoluzione, però, ebbe la meglio, Rabelo fu deposto e Padre Cícero divenne un importante uomo politico - sebbene vestisse ancora l’abito talare -, frequentato e rispettato dalle autorità locali. Come tale, nel 1926 il nuovo sindaco entrò in contatto anche con Lampião, al quale, si dice, diede alcuni consigli (disattesi), fra cui quello di abbandonare il sanguinario cangaço, la banda autrice di numerosi omicidi.
Padre Cícero morì il 20 luglio del 1934, a novant’anni, e ai suoi funerali parteciparono circa ottantamila persone. Con la sua scomparsa, il culto del prete mai santificato, ma considerato santo dalla popolazione, crebbe smisuratamente, e con esso i confini della città.
Oggi, con circa duecentomila abitanti, Juazeiro do Norte è il più grande centro della provincia cearense e il terzo di tutta la provincia nordestina. Situata al centro di una valle fertile, una vera oasi nel sertão, le sue strade sono in ottime condizioni e l’attività commerciale testimonia un benessere raro nel resto della regione. La ricchezza si è sviluppata proprio grazie al culto di Padre Cícero che attira orde di turisti religiosi: ogni anno se ne calcolano circa due milioni. Le date più importanti del calendario religioso sono il 24 marzo (giorno della nascita di Padre Cícero, caratterizzato da un imponente pellegrinaggio durante il quale i cantastorie narrano la vita del prete), il 20 giugno (nell’anniversario della sua morte i fedeli si vestono di nero e pregano), il 14 e il 15 settembre, dedicati a Nossa Senhora das Dores, patrona della città (ennesimo pellegrinaggio), l’1 e il 2 novembre (quando si svolgono le romarías, i pellegrinaggi di massa). Ogni anno il viavai costante di pellegrini fa affluire grandi quantità di denaro alle casse comunali e all’indotto, soprattutto sotto forma di elemosine - veri e propri eserciti di mendicanti professionisti accorrono per l’occasione -, acquisti di articoli religiosi e spese di soggiorno: le pousadas e i ristorantini economici sono numerosissimi, soprattutto nei dintorni delle chiese, già prenotati mesi prima delle ricorrenze principali. Tuttavia, nonostante l’evidente benessere della città, sono centinaia le persone, in gran parte bambini, che vivono di elemosina, chiedendo ‘uma esmola, pelo amor de Deus’ (‘un’elemosina, per l’amor di Dio’...). ‘Pelo amor de Deus’, in effetti, sembra essere la frase più ricorrente, pronunciata più meno a proposito in ogni discorso del cittadino di Juazeiro, che si parli di questioni religiose, calcistiche o di altro. È lecito pensare che la simonia qui costituisca la prima voce del bilancio e le statue del padre - di tutte le dimensioni, anche a grandezza naturale - abbondano in ogni dove. Alcune sono state trasformate in abat-jour con tanto di lampadina e praticamente tutti i negozi ne hanno una gigantesca all’entrata, come simbolo di fortuna e protezione. Anche nelle città del ricco Sud, verso il quale l’emigrazione di manodopera nordestina è massiccia, questa pratica è assai diffusa. L’amministrazione locale, consapevole di quale sia la prima voce delle entrate, stimola e investe quasi esclusivamente in opere faraoniche attinenti al culto di Padre Cícero, come la costruzione del nuovo, enorme porticato a semicerchio, simile a quello di San Pietro, prospiciente la chiesa Matríz. Nel frattempo centinaia di bambini non vanno a scuola e continuano a chiedere l’elemosina.
I turisti stranieri sono praticamente inesistenti - non si muovono dalle spiagge e dalle discoteche di Fortaleza -, fatta eccezione per qualche raro ed eccentrico tedesco o francese, che si spinge nel cuore del sertão per motivi religiosi. Eppure la città è interessantissima, non tanto per il fervore religioso, difficilmente condivisibile da tutti, ma piuttosto per l’atmosfera di un Brasile ‘autentico’, lontano dai teatrini del turismo di massa e ricco di situazioni proprie della provincia nordestina. I punti di interesse della città prendono tutti origine nel culto di Padre Cícero, laddove il prete visse e la sua ‘eresia’ crebbe. Prima fra tutti la cappella di Nossa Senhora do Perpetuo Socorro, sul cui sagrato si innalza la veneratissima statua del padre. Un circolo di mendicanti le fa da perenne presidio e le bancarelle, che vendono minitelevisori di plastica attraverso i quali si vede l’immagine del religioso ed ex voto di legno, fanno affari d’oro con i pellegrini. Il corpo di Padre Cícero giace nel tumulo all’interno della cappella ed è la meta più importante dei fedeli che vi poggiano fiori o bigliettini con brevi richieste: guarigioni, risoluzioni di problemi, ringraziamenti. Sul muro esterno una placca ricorda come lì fu seppellita la beata Maria de Araújo, la lavandaia protagonista del miracolo. A breve distanza si trova la Casa dos Milagres (Casa dei Miracoli), dove vengono depositati, a migliaia, gli ex voto dei pellegrini: arti e teste di legno o cera, statue di Padre Cícero e fotografie dei credenti fino al soffitto.
I turisti stranieri sono praticamente inesistenti - non si muovono dalle spiagge e dalle discoteche di Fortaleza -, fatta eccezione per qualche raro ed eccentrico tedesco o francese, che si spinge nel cuore del sertão per motivi religiosi. Eppure la città è interessantissima, non tanto per il fervore religioso, difficilmente condivisibile da tutti, ma piuttosto per l’atmosfera di un Brasile ‘autentico’, lontano dai teatrini del turismo di massa e ricco di situazioni proprie della provincia nordestina. I punti di interesse della città prendono tutti origine nel culto di Padre Cícero, laddove il prete visse e la sua ‘eresia’ crebbe. Prima fra tutti la cappella di Nossa Senhora do Perpetuo Socorro, sul cui sagrato si innalza la veneratissima statua del padre. Un circolo di mendicanti le fa da perenne presidio e le bancarelle, che vendono minitelevisori di plastica attraverso i quali si vede l’immagine del religioso ed ex voto di legno, fanno affari d’oro con i pellegrini. Il corpo di Padre Cícero giace nel tumulo all’interno della cappella ed è la meta più importante dei fedeli che vi poggiano fiori o bigliettini con brevi richieste: guarigioni, risoluzioni di problemi, ringraziamenti. Sul muro esterno una placca ricorda come lì fu seppellita la beata Maria de Araújo, la lavandaia protagonista del miracolo. A breve distanza si trova la Casa dos Milagres (Casa dei Miracoli), dove vengono depositati, a migliaia, gli ex voto dei pellegrini: arti e teste di legno o cera, statue di Padre Cícero e fotografie dei credenti fino al soffitto.
Nello stesso piazzale si erge il grande e moderno Memoriale di Padre Cícero, un museo dedicato al religioso. Qui, oltre a un’esposizione fotografica interessantissima che testimonia tutte le fasi più importanti della vita del prete - fra cui l’unica immagine esistente del panno insanguinato -, sono conservati alcuni oggetti personali: abiti per officiare la messa, piatti di porcellana pregiata e posate d’argento - tutte perfettamente allineate in grandi teche -, una collezione impressionante di portachiavi con l’effigie di Padre Cícero, il suo inginocchiatoio, un cannone usato durante la rivoluzione del 1914 e una buona quantità di quadri molto kitsch che raffigurano il prete. All’entrata un’addetta vende libri su Padre Cícero - ne sono stati scritti oltre duecento - e persino cd con i canti dedicati all’eroe di Juazeiro.
A breve distanza dal memoriale si trova il museo vero e proprio, ricavato in quella che fu la dimora del religioso. Oltre a un negozietto ben fornito di chincaglieria religiosa e a numerosi mendicanti all’entrata, l’edificio conserva il letto di morte del padre, i suoi famosissimi abiti neri e il cappello tondeggiante - altra reliquia di valore inestimabile: tra i miracoli attribuiti al religioso si narra come Padre Cícero fosse solito appendere questo cappello a un chiodo invisibile -, più una serie estremamente varia di oggetti che il prete ricevette in regalo: animali imbalsamati, monete, ex voto fatti con scarpe da neonato, strumenti musicali e, il ‘pezzo’ più pregiato, un enorme serpente impagliato attorno al quale gravita l’ennesima leggenda (sarebbe il frutto di una promessa fatta al religioso da un fazendeiro, il quale avrebbe ucciso il rettile appositamente, dopo un lungo appostamento, per fargliene dono). Il museo è completato da una sala stracolma di ex voto e da un piccolo cortile dove vivono, chiusi in gabbia, due pavoni.
In città ci sono altre chiese in cui l’ombra di Padre Cícero è tuttora viva - fra cui la Matríz, inaugurata nel 1884 dallo stesso padre e punto di ritrovo dei pellegrini -, ma il luogo più rappresentativo è senz’altro il cosiddetto Horto. Sulla cima di un colle alto 430 metri, si erge l’imponente statua di Padre Cícero, costruita nel 1969 e visibile da tutta la città sottostante. In cemento armato imbiancato, raggiunge i ventisette metri ed è la più famosa e alta del Brasile dopo quella del Cristo Redentore di Rio de Janeiro (quarta al mondo per altezza, includendo il Cristo Rey di Cochabamba, Bolivia, e la Statua della Libertà di New York), tanto da essere riprodotta anche su diverse schede telefoniche. La statua si trova al termine di un’erta via crucis, contrassegnata da quattordici fermate nelle quali sono raffigurate le fasi principali della faticosa ascesa di Cristo al Calvario: percorrendola è curioso notare come i volti dei soldati romani, in gesso colorato, siano stati tutti meticolosamente sfregiati da qualche fedele vendicativo.
Attorno alla statua, dalla quale si gode un’ottima vista panoramica della città, abbondano negozietti e venditori ambulanti, specializzati in magliette con il volto del religioso e fitas, braccialetti portafortuna prodotti in serie dalle industrie del Sud ma spacciati per ‘artigianali’. In una sala, nei pressi della statua, si trovano ulteriori ex voto, fra cui una serie di fotografie della seleção di calcio. Altro punto di richiamo dell’Horto è il recente Museu Vivo, un museo articolato su più sale in cui sono stati ricostruiti i momenti simbolici della vita del religioso, raffigurato con una serie di statue piuttosto realistiche. Raggiungibile con un autobus sgangheratissimo, in origine l’Horto era il luogo di preghiera e di ritiro spirituale di Padre Cícero, che spesso si spingeva a qualche chilometro di distanza dal punto in cui si erge la statua, fino al cosiddetto ‘Santo Sepolcro’. Ci si arriva percorrendo un sentiero sterrato al termine del quale sono state costruite diverse cappelle di proporzioni minuscole, a imitazione del Santo Sepolcro di Gerusalemme. Numerosi sono i ragazzini che gravitano attorno ai piedi della statua offrendosi come guide: in cambio di qualche spicciolo sono disposti ad accompagnare i visitatori al Santo Sepolcro, a meno che i pellegrini non preferiscano arrivarci da soli. In tal caso ai ragazzini non resta che chiedere, a mano tesa, un’elemosina. Sempre, naturalmente, ‘pelo amor de Deus...’.
Attorno alla statua, dalla quale si gode un’ottima vista panoramica della città, abbondano negozietti e venditori ambulanti, specializzati in magliette con il volto del religioso e fitas, braccialetti portafortuna prodotti in serie dalle industrie del Sud ma spacciati per ‘artigianali’. In una sala, nei pressi della statua, si trovano ulteriori ex voto, fra cui una serie di fotografie della seleção di calcio. Altro punto di richiamo dell’Horto è il recente Museu Vivo, un museo articolato su più sale in cui sono stati ricostruiti i momenti simbolici della vita del religioso, raffigurato con una serie di statue piuttosto realistiche. Raggiungibile con un autobus sgangheratissimo, in origine l’Horto era il luogo di preghiera e di ritiro spirituale di Padre Cícero, che spesso si spingeva a qualche chilometro di distanza dal punto in cui si erge la statua, fino al cosiddetto ‘Santo Sepolcro’. Ci si arriva percorrendo un sentiero sterrato al termine del quale sono state costruite diverse cappelle di proporzioni minuscole, a imitazione del Santo Sepolcro di Gerusalemme. Numerosi sono i ragazzini che gravitano attorno ai piedi della statua offrendosi come guide: in cambio di qualche spicciolo sono disposti ad accompagnare i visitatori al Santo Sepolcro, a meno che i pellegrini non preferiscano arrivarci da soli. In tal caso ai ragazzini non resta che chiedere, a mano tesa, un’elemosina. Sempre, naturalmente, ‘pelo amor de Deus...’.
Oggi l’elemosina, a Juazeiro do Norte, è diventata così capillare da essersi trasformata in istituzione. In Brasile circolano addirittura carte telefoniche che riportano il numero di conto corrente del Banco do Brasil, la banca nazionale, sul quale fare eventuali donazioni per preservare il culto. Culto sempre crescente: basti pensare che, nel 2001, Padre Cícero è stato eletto ‘cearense del secolo’ attraverso un voto popolare.
pubblicato su Diario, Smoking
Assisi, provincia di São Paulo?
Nel portoghese del Brasile la parola canindé corrisponde a un lungo coltellaccio usato dai boscaioli del Ceará e a un tipo di pappagallo (Ara ararauna). La cittadina di Canindé, un piccolo centro situato circa centoventi chilometri a sud-ovest di Fortaleza, ha preso il nome dalla prima di queste definizioni. Poco frequentato da visitatori e turisti per gran parte dell’anno, il paese non offre granché a chi passa da queste parti, se non un’interessante conoscenza della regione sertaneja, divenuta famosa grazie ai romanzi di Guimarães Rosa, di Jorge Amado, di Graciliano Ramos e al cinema di Glauber Rocha: terre abitate da genti burbere - in eterna lotta con lo spettro della siccità - i cui discorsi si ispirano quasi sempre a tematiche di carattere agricolo. Fuori delle rotte turistiche più tradizionali, Canindé, fin dal 1775 - anno in cui un sergente maggiore portoghese vi fece costruire una cappella -, vive il suo momento di gloria ogni fine settembre, quando il piccolo paese cambia volto e la gente arriva a frotte. Gli autobus dalla capitale fanno corse speciali e i pochi alberghi e pousadas, queste ultime dotate esclusivamente di redes (amache), non hanno più una camera libera. Per trovarla bisogna prenotare molto tempo prima, e chi arriva all’ultimo momento si porta o si compra in loco un’amaca e dorme all’aperto, protetto dalle chiome degli alberi: qui, in questo periodo, ma anche per gran parte del resto dell’anno, il rischio di piogge è praticamente nullo.
A richiamare tutte queste folle a Canindé - si calcola un afflusso di circa 250.000 persone, contro una popolazione stabile di circa 65.000 anime - è un’imponente festa religiosa, che si tiene per una decina di giorni, in onore a san Francesco d’Assisi. Trapiantato in questa remota regione dal cattolicesimo portoghese, il santo è qui stato ribattezzato São Francisco de Assís (o das Chagas, ‘delle Piaghe’), ma molti tra i fedeli ignorano che Assís, terra natia del loro protettore, si trovi in Italia - l’indice di analfabetismo è elevato -, e credono, anzi, che sia una lontana località del Brasile stesso. Molti, addirittura, non sanno nemmeno che cosa sia l’Italia - se non per questioni calcistiche - né dove si trovi, e alcuni credono che Assís sia una città dalle parti di São Paulo.
Nel tempo il culto di san Francesco è cresciuto talmente che oggi Canindé è considerata la maggior città-santuario francescano dell’America Latina. Come quasi sempre nei luoghi della fede, anche a Canindé il culto è sostenuto e giustificato da un presupposto miracolo. Si narra, infatti, che durante la costruzione della prima cappella un muratore fosse caduto dalle impalcature. Durante la caduta, il manovale si sarebbe ‘miracolosamente’ salvato nel momento in cui ‘vide’ san Francesco e la sua camicia si agganciò all’estremità di una trave.
La festa ha ufficialmente inizio il 24 settembre e termina il 4 ottobre. Il giorno 30 si tiene una celebrazione in onore ai lavradores (lavoratori agricoli), quindi il 1° ottobre è dedicato ai vaqueiros (butteri), mentre il 2 è il giorno dei violeiros (suonatori e costruttori di chitarra). L’apice della festa è l’ultimo giorno, quando, a partire dalle tre del mattino, si tiene la prima di una serie di nove messe che si protraggono nell’arco della giornata. Ogni celebrazione viene seguita da decine di migliaia di fedeli in processione per le vie della città. Il grande punto d’incontro del pellegrinaggio - considerato il secondo, di tipo francescano, al mondo - è l’ampia Praça do Romeiro (Piazza del Pellegrino), un anfiteatro costruito di recente con una capacità di 110.000 persone. Quotidianamente, inoltre, si celebrano funzioni religiose, sia all’interno della cattedrale, durante il giorno, sia all’esterno, verso sera, quando la chiesa viene illuminata da decine di luci colorate.
Non ci si aspetti però di vedere qualche straniero tra la moltitudine (a me è stato chiesto l’autografo solo in quanto tale), nemmeno uno: i pellegrini della fede sono tutti brasiliani e di ogni condizione sociale, provenienti un po’ dagli angoli più remoti del paese. I meno abbienti sono ospitati gratuitamente dalla diocesi locale, nell’ampio patio del convento di sant’Antonio che si attrezza con cucine da campo, servizi, file interminabili di amache e tutto ciò che è necessario. Prima e durante la settimana della festa, arrivano anche numerosissimi mendicanti, ai quali è riservata un’intera via, dove possono sostare sul marciapiede e tendere la mano; a volte si concede loro di chiedere l’elemosina anche sulla piazza principale, dove sorge la grande basilica, rifatta dall’architetto italiano Antonio Mazzini tra il 1910 e il 1915. Ogni buon cristiano non si esime dal fare una piccola offerta a tutti, uno a uno, percorrendo l’intera fila dei questuanti.
Con la grande massa di persone che popola per un breve periodo un centro altrimenti quasi inerte, fioriscono d’improvviso i commerci, soprattutto la vendita di oggetti sacri: bancarelle e venditori ambulanti si affiancano ai negozi veri e propri, di due o tre vetrine, aperti anche durante il resto dell’anno, quando l’afflusso dei pellegrini è sì costante, ma decisamente più modesto. Crocefissi luminosi, effigi e magliette del santo, nastri colorati (fitas) da portare al polso come portafortuna e, addirittura, minitelevisori grandi come il palmo di una mano dai quali si possono sbirciare le immagini dei santi, sono solo alcuni degli ‘articoli’ più venduti.
Uno dei luoghi principali della grande festa religiosa di São Francisco è la Casa dos Milagres, la ‘Casa dei Miracoli’, un ampio salone dove sono conservate decine di migliaia di ex voto e di immagini, testimonianze di grazie ricevute. È una raccolta impressionante, sia per le dimensioni sia per i tipi di oggetti conservati: piedi e seni di legno, teste e braccia di cera, ciocche di capelli, fotografie di tutti i formati vengono in un primo momento depositati in grandi gabbie di legno o attaccati sulle pareti della Casa dos Milagres, a lato dell’imponente basilica. Montagne di arti finti, assieme a protesi ortopediche, stampelle, vecchie ingessature sono le offerte più comuni, unite a lettere scritte a mano per ringraziare della grazia ricevuta. Tutti questi ‘articoli’, a eccezione delle fotografie, vengono trasferiti e conservati in un apposito museo degli ex voto, poco distante, non appena le grandi gabbie sono piene fino all’orlo. Il museo, tuttavia, espone solo i ‘pezzi’ migliori, lo spazio è ridotto, e non è sufficiente a ospitare tutti gli ex voto prodotti e offerti al santo. I suoi magazzini ormai ospitano decine di migliaia di esemplari, accumulati nel corso del tempo, e alcuni ex voto di Canindé sono finiti in altri musei brasiliani - per esempio a Recife -, come testimonianza della fede religiosa e della cultura popolare nordestina.
Le fotografie sono conservate nella Casa dos Milagres, appiccicate alle grandi pareti del salone, in una serie interminabile e piuttosto inquietante di volti e scritte di ringraziamento. Le foto ritraggono fedeli che invocano la protezione divina: neonati, ricoverati, immagini disegnate di incidenti stradali, pitture di incendi improvvisi scoppiati nella propria abitazione. Ma anche molte foto di pellegrini che, giunti a Canindé, si sono fatti ritrarre dai fotografi ambulanti, vestiti con il saio francescano e circondati da variopinti fondali raffiguranti il papa o São Francisco.
Compiere un pellegrinaggio alla ‘Casa’ verso la fine di settembre è un obbligo morale per ogni fedele degno di tale nome. I più convinti o bisognosi di espiare qualche presunta colpa lo fanno a piedi, alcuni arrivando persino dalla lontana Fortaleza. Quasi tutti, pur non appartenendo all’ordine, coprono il tragitto indossando il saio francescano, e in città può capitare di vedere a passeggio coppiette formate da un lui con il saio e da una lei ‘in borghese’, curiosamente abbracciati. Chi vuole espiare una colpa, facendo penitenza, percorre sulle ginocchia il perimetro esterno - i meno resistenti quello interno - della basilica. Spesso le ginocchia, in seguito a tale sfregamento, sanguinano, e qualcuno si aiuta con pagine di giornale, sistemate tra le ossa e l’asfalto.
Altro luogo-simbolo di questa città è la grande statua di san Francesco, attualmente in fase di realizzazione. Situata su un’altura, raggiungerà i trenta metri di altezza. In fase di progetto, inoltre, una replica del sepolcro del santo. Importanti, per i credenti, sono anche la Via Sacra - che inizia presso la chiesa di Nossa Senhora das Dores e termina in una cappella su un colle - e la fonte dell’acqua benedetta, in cui, durante la festa, tutti si bagnano e presso la quale molti si dissetano. Non manca qualche madre scrupolosa che, armata di sapone, fa un bagno completo alla prole, riempiendo di bolle il selciato. Uno degli aspetti più singolari di questa festività riguarda proprio i bambini: vengono affidati dalle madri a diversi barbieri - alloggiati in un apposito sotterraneo della basilica - che, investiti di questa speciale funzione per l’occasione, tagliano i capelli e portano quindi le ciocche recise alla Casa, dove prendono posto tra gli ex voto. I bambini e i ragazzi, in effetti, nel corso di questa festa ‘da adulti’, svolgono un ruolo di primo piano: inquadrati in un corpo speciale, hanno l’incarico di mantenere l’ordine, aiutando la polizia locale. Orgogliosi delle divise che indossano per l’occasione, regolano il flusso dei pellegrini e forniscono informazioni ai turisti: compito non facile, se si considera la moltitudine di forestieri e la quantità abominevole di cachaça consumata.
pubblicato su Tutto Turismo
pubblicato su Tutto Turismo
Lampião e i cangaceiros
Nel Novecento il sertão sviluppò diversi miti attorno ad alcune figure storiche, in un intreccio di fede religiosa ed eroismi personali. Tra queste figure quella che forse più ha lasciato un’impronta nella cultura popolare nordestina fu Lampião, il ‘Cangaceiro’ (bandito) del Far West brasiliano, all’anagrafe Virgulino Ferreira da Silva, classe 1897. Nato a Vila Bela - attuale Serra Talhada, nello stato del Pernambuco -, era uno dei nove figli di una famiglia di allevatori di bovini. A diciott’anni accusò un vicino di furto di bestiame, scatenando una faida tra famiglie. In breve la famiglia Ferreira si diede alla macchia, dopo aver assaltato la proprietà del vicino e averne ucciso il bestiame. Perseguiti dalla polizia, Virgulino e i fratelli fuggirono, ma durante la fuga la madre e il padre furono uccisi. Il giovane bandito giurò vendetta.
Sarà stato anche per riscattare un nome di battesimo così minimo (Virgulino) o un fisico esile, ma Lampião, probabilmente unico bandito brasiliano a portare gli occhiali - elemento che lo contraddistinse fino agli ultimi giorni -, dimostrò un’audacia rara. In quel periodo nel Nord-est regnavano sovrane le lotte tra fazendeiros per il possesso delle terre - sebbene nel sertão fossero aride e poco produttive -, e le ingiustizie sociali, perpetrate dalla ricca élite nei confronti del ceto umile, pressoché schiavo della classe dominante, non si contavano. Lo schiavismo, d’altronde, in Brasile era stato abolito per legge solo nel 1888, e per molti proprietari terrieri non aveva mai smesso di esistere. Fu proprio uno di questi coronéis - i ‘colonnelli’ tanto egregiamente descritti da Amado: il termine, in origine, si riferiva agli ufficiali della Guardia Nazionale portoghese, ma dopo l’Indipendenza fu adottato più in generale come titolo onorifico riservato ai fazendeiros -, il colonnello Nogueira, che fece uccidere i genitori di Lampião dalla polizia. Da allora, il Cangaceiro, indossati gli abiti che in seguito divennero l’uniforme del banditismo nordestino (giacca di pelle, largo camicione attraversato da una doppia cartucciera, l’inconfondibile cappello dalla tesa larga e rialzata sulla fronte), seguì, fino a quando non fu ucciso, la ‘missione’ di depredare, ammazzare e danneggiare il maggior numero possibile di fazendeiros. Il suo territorio d’azione fu una vasta area compresa fra gli attuali stati dell’Alagoas, della Paraíba, del Pernambuco e del Ceará, nelle zone più aride e impervie dell’interno. Sua fedele compagna di lotta e di vita fu Maria Bonita, prima donna della storia a far parte del cangaço, la quale gli rimase a fianco fino all’ultimo. I due ancor oggi sono raffigurati nelle colorate ceramiche pernambucane, lui con gli occhialini e la cartucciera, lei con la gonna e un cappello basso e largo. Maria Bonita, ufficialmente Maria Dea, era una diciannovenne sposata con un calzolaio e ammirava da tempo le imprese di Lampião. Quando lo incontrò, nel 1929, gli chiese di unirsi alla banda e abbandonò il marito.
Lampião e la sua banda - cinquanta elementi nel periodo di maggiore successo -, svolsero l’attività di brigantaggio a cavallo tra gli anni Venti e Trenta, diventando il vero terrore del sertão: un paragone con Attila, per quell’epoca e quelle zone, non è fuori luogo. Il termine Cangaceiro deriverebbe dal cangá, il sacco diffuso nella regione per custodire le armi. Secondo un’altra interpretazione, invece, deriverebbe dalla caratteristica maniera di utilizzare i fucili, sparando con le armi appoggiate alle spalle: l’immagine, nel complesso, ricordava la canga, il giogo in legno usato dal bestiame. Anche il soprannome ‘Lampião’ (lampione) avrebbe due origini diverse. Secondo una prima interpretazione proverrebbe dalle scintille che il suo fucile emetteva quando sparava sulla polizia. L’altra si riferisce a un aneddoto secondo il quale Lampião, per aiutare un compagno d’armi a trovare una sigaretta persa per terra, avrebbe illuminato il luogo a suon di scariche di fucile. Chi fuggiva dalla miseria del sertão e non aveva parenti cui appoggiarsi, o riteneva lo sfruttamento terriero a solo vantaggio del coronél una specie di ingiusta e inaccettabile punizione, molto spesso chiedeva di far parte della banda di Lampião - uno status che costituiva grande motivo di orgoglio - o, in alternativa, di quelle concorrenti: anziché morire sul lavoro per pagare le percentuali sul raccolto al fazendeiro, senza mai riuscire minimamente a elevarsi socialmente, preferiva - se dotato di un po’ di coraggio e di spirito di avventura - essere assoldato nel cangaço. Gli stessi coronéis, in più di un’occasione, arrivarono a ingaggiare bande di cangaceiros per risolvere questioni personali - omicidi di nemici e regolamenti di conti. E Lampião, nonostante fosse ufficialmente ricercato dalla polizia di mezzo Brasile, fu chiamato dal governo a combattere contro la famosa Coluna Prestes, una gruppo di duemila militari ribelli che attraversò gran parte del paese tra il 1925 e il 1927.
Nel 1926 il governo fornì uniformi e fucili automatici ai cangaceiros per debellare la ribellione di Luís Carlos Prestes. Lampião e la sua banda divennero il terrore e lo spauracchio del sertão e a ogni loro passaggio la popolazione si rifugiava dove poteva, onde evitare guai. I suoi bersagli preferiti, tuttavia, rimanevano i fazendeiros e l’esercito, manovrato politicamente dai proprietari terrieri attraverso l’elezione dei governatori locali. Le imprese di Lampião divennero così famose che presto il bandito fu imitato da altri ‘concorrenti’. Tra gli imitatori divenne noto un tal Jesuíno Brilhante (‘Gesùino Brillante’), dotato però di animo ben più caritatevole nei confronti dei ceti poveri, tanto da assumere il soprannome di ‘Robin Hood del sertão’: rubava ai ricchi per donare ai poveri. Lampião, al contrario, non era noto per la sua generosità nei confronti del prossimo, quanto piuttosto per la sua crudeltà. Si narrano di episodi atroci relativi alla sua banda, che era solita incendiare le fazendas, sequestrare bambini, stuprare, torturare, saccheggiare magazzini, sterminare mandrie, marchiare il volto delle donne con ferri roventi. Per uccidere i nemici Lampião amava infilare un lungo pugnale tra il collo e la clavicola di questi, così come provava un certo gusto nel tagliare orecchie e lingue, cavare occhi. In un’occasione, prima di far fucilare uno dei propri uomini, lo obbligò a mangiare un chilo di sale.
Lampião, però, non fu il primo cangaceiro. Chi diede inizio alla tradizione fu un tal ‘Cabeleira’ (‘Capigliatura’), un pernambucano che finì impiccato. Altri banditi famosi furono Lucas da Feira (così noto da essere invitato a Rio de Janeiro da parte dell’Imperatore Dom Pedro II, che desiderava conoscerlo), Antônio Silvino (soprannominato il ‘Governador do Sertão) e Sinhô Pereira (il leader che accolse nella propria banda un Lampião alle prime armi, all’età di ventiquattro anni; dal 1922 la banda passò nelle sue mani). Le scorrerie di Lampião e della sua banda lasciarono sul campo un numero molto alto di caduti, soprattutto tra le fila dell’esercito. I governatori locali usavano l’utopica cattura del Cangaceiro - “vivo o morto” - come strumento per raccogliere voti in campagna elettorale ma, al momento dei fatti, il loro braccio armato, l’esercito, falliva regolarmente. I cangaceiros, abituati al clima e all’ostile ambiente del sertão - mancanza d’acqua e di vegetazione, compensata dall’abbondanza di serpenti velenosi -, ne conoscevano tutti i trucchi (rifugi, punti ideali per le imboscate), e poco potevano nei loro confronti i soldati scarsamente motivati provenienti da altre regioni. Lampião fu ferito sei volte, si prese sette proiettili, perse tre fratelli e l’occhio destro - le fotografie più recenti lo ritraggono con la benda nera. In un’occasione, divenuta leggenda nell’immaginario nordestino, il bandito incontrò Padre Cícero, il capo spirituale della comunità di Juazeiro do Norte (Ceará), e in tale circostanza il religioso cercò di convincerlo, senza successo, ad abbandonare il cangaço. Lampião, in effetti, a modo tutto suo, era un fervido credente: aveva sempre con sé libri per le orazioni e addosso portava svariati amuleti e una foto di Padre Cícero.
L’avventura di Lampião, tuttavia, giunse improvvisamente al capolinea, e il sogno dei fazendeiros e dei governatori si fece realtà. Il Cangaceiro, adagiatosi nello strapotere che gli permetteva la propria fama - le popolazioni locali, terrorizzate dal suo passaggio, lo proteggevano con l’omertà -, abbassò la guardia durante una fuga dall’esercito. In un conflitto a fuoco all’alba, durante un’imboscata della polizia militare dell’Alagoas, il 28 luglio del 1938 Lampião e la sua banda furono sgominati nella Fazenda Angico, nel Sergipe. I quarantotto uomini del tenente João Bezerra, armati con quattro mitragliatrici Hotkiss, ci misero appena dieci minuti a sconfiggere la banda di Lampião, trenta uomini e cinque donne. Sia Lampião sia Maria Bonita, assieme a nove cangaceiros, caddero sul campo con le armi in mano - Maria Bonita fu sgozzata, gli altri riuscirono a fuggire -, e le loro teste furono macabramente esposte al pubblico per oltre trent’anni nell’Istituto di medicina di Salvador de Bahia. Solo nel 1969 le loro spoglie trovarono definitivo riposo sotto terra, l’uno di fianco all’altra. Nel 1940 fu ucciso anche Corisco, detto ‘Diabo Loiro’ (Diavolo Biondo), l’ultimo cangaceiro della storia ed ex braccio destro di Lampião.
Prima, durante e dopo la sua morte, la figura di Lampião ispirò - oltre ai racconti, spesso inventati dalla pura fantasia delle popolazioni nordestine - numerosi generi letterari. Innanzi tutto la famosa literatura de cordel, la ‘letteratura’ di piazza, diffusa dai cantastorie: lì i fatti storici sono stati travalicati, e il mito è divenuto dominante. Su Lampião, inoltre, sono stati scritti numerosi libri di ricostruzione storica o romanzata, purtroppo introvabili in Italia, ma reperibili in qualsiasi libreria brasiliana. In Occidente la figura del bandito del sertão ebbe il suo momento di notorietà negli anni Cinquanta, quando a Cannes fu premiato il film O Cangaceiro (1953), del regista Lima Barreto. Questo lungometraggio fu il migliore - o, quantomeno, quello di maggiore successo - tra quelli ispirati alle gesta di Lampião, prodotto da Vera Cruz, l’Hollywood brasiliana. Il film, in Brasile, diede origine a un vero e proprio genere, il cosiddetto ‘cangaço film’, un po’ il western del paese tropicale. Girato negli studi di São Paulo, tuttavia, O Cangaceiro è un’opera mediocre, criticata aspramente dagli addetti ai lavori e che rese scarsa giustizia alla cronaca: basti pensare che alcuni attori che impersonavano i componenti della banda recitavano con l’accento del Sud, proprio del Minas Gerais e del Rio Grande do Sul, un vero abominio per un conoscitore della lingua brasiliana - e, figuriamoci, per un abitante del Nord-est. Nel 1997 è arrivata sugli schermi un’altra versione di O Cangaceiro, del regista Aníbal Massaini Neto, anch’essa stroncata dai critici brasiliani - cattiva qualità della fotografia, eccesso di scene d’azione, ecc.
Oggi di Lampião non resta che il ricordo, spesso confuso con il folclore. La sua immagine è sfruttata per forgiare le ceramiche pernambucane - souvenir amatissimo dai turisti -, ma ben pochi stranieri sanno chi fosse il Cangaceiro. Chi è interessato ad approfondire la curiosa storia di Lampião può visitare il Museu de Sergipe, nell’antica cittadina coloniale di São Cristóvão, nei pressi di Aracaju. Lì, nella sala dedicata al cangaço, oltre agli abiti originali di Lampião, sono conservate le fotografie che ritraggono il bandito - Virgulino Ferreira da Silva amava essere immortalato e vedere la propria foto stampata sui giornali ogni volta che compiva una scorribanda. Accanto alle foto ci sono, come didascalie, i racconti dei testimoni oculari che assistettero alle imprese della banda, oltre alla testimonianza di qualcuno dei suoi componenti - i pochi che riuscirono a scampare al massacro del 1938. Un altro museo di questo genere, molto interessante, è il Museu do Sertão di Petrolina (Pernambuco). Lì sono conservate numerose testimonianze dell’epoca del cangaço, tra cui le foto di Lampião e della banda, il suo certificato di nascita, armi e speroni, una foto di soldati dell’esercito camuffati da cangaceiros - nel vano tentativo di sgominare la banda - e, chicca della collezione, una lettera scritta da Lampião a un fazendeiro che lo aveva tradito. La missiva trasuda vendetta, e quando il proprietario terriero la ricevette deve essersi rifugiato sul fondo di un pozzo.
Olê mulher rendeira,
Olê mulher rendá,
Tu me ensina a fazer renda,
Que eu te ensino a namorar
Ciao merlettaia,
Ciao merlettà,
Tu insegnami a fare il merletto,
Che io ti insegno a fare l’amore
(musica scritta da Lampião, cantata dalla sua banda ogni volta che entrava in una città)
Le carrancas e la literatura de cordel
Il ‘Velho Chico’ (‘vecchio Chico’) o ‘Chicão’, liberamente traducibile con ‘Chicone’ o ‘Francescone’, ufficialmente Rio São Francisco, è il più importante fiume del Nord-est del Brasile. Da sempre via di comunicazione e di irrigazione per le aride zone del sertão degli stati del Minas Gerais - dove nasce, presso la Serra da Canastra -, della Bahia, del Pernambuco, del Sergipe e dell’Alagoas, fu ‘scoperto’ il 4 ottobre 1501 - da cui la ‘dedica’ al santo di Assisi - da Amerigo Vespucci. È il terzo fiume del Brasile per estensione (3161 km) dopo l’Amazonas e il Paraguai, e il primo interamente brasiliano: per questo motivo è stato soprannominato ‘Fiume dell’Integrazione Nazionale’. Lungo i 70 km di corso d’acqua compresi tra Paulo Alfonso (Bahia) e Piranhas (Alagoas), è situata la maggior concentrazione di centrali idroelettriche del Brasile. Questi impianti, di recente costruzione, hanno sconvolto parecchio le usanze e l’economia della regione. Il livello dell’acqua, in certi tratti, si è abbassato, riducendo notevolmente il traffico fluviale, soprattutto quello commerciale. D’altro canto, la costruzione delle dighe ha reso possibile l’irrigazione di zone tradizionalmente aride. Il São Francisco è in buona parte navigabile - per circa 1400 chilometri, tra Pirapora (Minas Gerais) e Juazeiro (Bahia) - sebbene negli ultimi anni il traffico si sia notevolmente ridotto, anche a causa della costruzione delle strade asfaltate. Le sue acque, un tempo popolate da una folta comunità di coccodrilli, oggi in forte calo, continuano comunque a essere attraversate da un gran numero di imbarcazioni, soprattutto di piccole dimensioni. È proprio su queste barche che, in una data imprecisabile, nacque la tradizione della carranca. Un po’ come alcuni corsari usavano scolpire sirene sulle prue delle loro navi, così i marinai locali (barqueiros) inventarono una specie di spauracchio, dal volto feroce, per proteggere l’imbarcazione, il carico e i passeggeri. Tra le molte leggende che popolano la regione fluviale spicca quella del bicho da água (‘animale dell’acqua’), una specie di sirena al maschile - mezzo uomo e mezzo pesce - che camminerebbe sul fondo, russando rumorosamente.
Le carrancas, dunque, proteggerebbero da eventuali ire del bicho da água, ‘calmato’ anche con offerte di tabacco gettato lungo la navigazione. Queste polene - il termine italiano deriva dal francesepoulaine, per la somiglianza delle forme ai souliers à la poulaine, ‘scarpe alla polacca’ -, in Brasile, di solito rappresentano la testa di animale, apparentemente un incrocio tra un lupo e un cane dai denti aguzzi, sempre in vista, con un ghigno feroce. Il termine portoghese, carranca, deriva invece da cara: faccia, ma anche maschera o ghigno. Bisogna sottolineare, però, come questa fosse una tradizione soprattutto passata, in particolare sulle barche che transitavano per il porto di Pirapora, dove, ancor oggi, è in funzione il grande battello a vapore Benjamin Guimarães, simile a quelli che un tempo attraversavano il Mississipi. Oggi, in realtà, sono ben poche le imbarcazioni che conservano una carranca sulle prue lungo il ‘Velho Chico’. Questi spauracchi, però, sono largamente usati anche in altre regioni del Brasile, dove qualche marinaio o artigiano eccentrico le scolpisce con uno stile e lineamenti diversi da quelli tradizionali - i pezzi migliori sono conservati nei musei più interessanti dedicati alla cultura del sertão, soprattutto a Recife e a Petrolina (Pernambuco). La diffusione odierna delle carrancas, semmai, riguarda un campo che ha ben poco a che vedere con la navigazione. Si tratta della protezione domestica: in molte città , soprattutto di piccole dimensioni nel Nord e nel Nord-est, troviamo grandi carrancas - possono arrivare all’altezza dell’ombelico - poste a vigilare le entrate principali delle abitazioni. Servirebbero a tenere lontani dalla famiglia i guai, le malattie, i seccatori e ogni sorta di negatività. Dal fiume alla città, questa l’evoluzione della carranca ‘moderna’.
Le carrancas, dunque, proteggerebbero da eventuali ire del bicho da água, ‘calmato’ anche con offerte di tabacco gettato lungo la navigazione. Queste polene - il termine italiano deriva dal francesepoulaine, per la somiglianza delle forme ai souliers à la poulaine, ‘scarpe alla polacca’ -, in Brasile, di solito rappresentano la testa di animale, apparentemente un incrocio tra un lupo e un cane dai denti aguzzi, sempre in vista, con un ghigno feroce. Il termine portoghese, carranca, deriva invece da cara: faccia, ma anche maschera o ghigno. Bisogna sottolineare, però, come questa fosse una tradizione soprattutto passata, in particolare sulle barche che transitavano per il porto di Pirapora, dove, ancor oggi, è in funzione il grande battello a vapore Benjamin Guimarães, simile a quelli che un tempo attraversavano il Mississipi. Oggi, in realtà, sono ben poche le imbarcazioni che conservano una carranca sulle prue lungo il ‘Velho Chico’. Questi spauracchi, però, sono largamente usati anche in altre regioni del Brasile, dove qualche marinaio o artigiano eccentrico le scolpisce con uno stile e lineamenti diversi da quelli tradizionali - i pezzi migliori sono conservati nei musei più interessanti dedicati alla cultura del sertão, soprattutto a Recife e a Petrolina (Pernambuco). La diffusione odierna delle carrancas, semmai, riguarda un campo che ha ben poco a che vedere con la navigazione. Si tratta della protezione domestica: in molte città , soprattutto di piccole dimensioni nel Nord e nel Nord-est, troviamo grandi carrancas - possono arrivare all’altezza dell’ombelico - poste a vigilare le entrate principali delle abitazioni. Servirebbero a tenere lontani dalla famiglia i guai, le malattie, i seccatori e ogni sorta di negatività. Dal fiume alla città, questa l’evoluzione della carranca ‘moderna’.
Prima, durante e dopo la sua morte, la figura di Lampião ispirò - oltre ai racconti che passavano di bocca in bocca, spesso generati dalla pura fantasia delle popolazioni nordestine - numerosi generi letterari. Innanzitutto la famosa literatura de cordel, la ‘letteratura’ di piazza, diffusa dai cantastorie che, unitamente alle loro note, ancor oggi - ma, purtroppo, in numero sempre minore - vendono i libretti con i versi appesi a cordicelle, da cui il nome del genere. Accompagnati da chitarre, i cantadores nordestini recitano, spesso improvvisando, i cosiddetti desafìos - ‘sfide’, canti di battaglia ispirati a fatti più o meno storici: ai cangaceiros, a Carlo Magno o a Santa Genoveffa. Oppure semplici litigi familiari tra mariti traditi e mogli fedifraghe, nelle piazze, durante le fiere e i mercati, oppure sui marciapiedi di alcune città, soprattutto della provincia. Anche i fatti di attualità - elezioni, partite di calcio, gloriosi o ridicoli presidenti - offrono spunto a questa letteratura popolare. Le storie, stampate su colorati folhetos, traggono ispirazione soprattutto dai romances di origine spagnola, trasmessi oralmente fino agli inizi del Novecento, quando le prime stamperie cominciarono a pubblicare i libretti con variopinte xilografie sulle copertine.
Oggi i libretti della literatura de cordel fanno parte della cultura nordestina - sono esposti, per esempio, nel Museo dell’Uomo del Nord-est, a Recife -, e vengono venduti qua e là anche come souvenir in alcuni centri turistici. Gli esemplari più belli, oggetto di culto per i collezionisti del genere, tuttavia, sono reperibili soprattutto in alcune piccole città di provincia, dove questa tradizione è ancora viva. Marca indelebile della cultura nordestina, la literatura de cordel ha sempre subito l’umiliazione di essere considerata ‘letteratura di serie B’ da parte del girone ‘alto’, dall’arroganza degli ‘eruditi’, soprattutto per il fatto di circolare in ambienti estremamente popolari, che usano un linguaggio semplice (ma colorito ed efficace), gergale o sgrammaticato, per essere venduta da persone di bassa estrazione sociale nei mercati e per essere stampata con tecniche e su carta di bassa qualità. Negli ultimi tempi, però, la literatura de cordel sta subendo un processo di ‘elevazione’ culturale da parte degli intellettuali e degli antropologi brasiliani. In questo tipo di comunicazione, infatti, i ceti bassi, quelli più umiliati, trovano la loro vendetta, la loro rivalsa contro un mondo duro e ingiusto. Attraverso le gesta di eroi mitizzati, oppure tramite la derisione dei potenti, gli umili ottengono il loro meritato riscatto. Mutazioni sociali impossibili nella vita reale, attraverso la literatura de cordel raggiungono la consacrazione, l’utopia diviene realtà. Il popolo umiliato, cresciuto con senso di inferiorità, trova in questa forma letteraria un motivo alla propria esistenza sofferta e recupera quella dignità persa nelle costanti lotte quotidiane tra classi, grazie alla scarsa o nulla considerazione delle autorità, dei politici e dei governanti. Come una forma letteraria popolare sulle tracce delle grandi epopee, la literatura de cordel costruisce i propri eroi e si vendica dell’oppressore, materializzando il sogno delle masse.
Sul sertão:
Che cosa leggere
Os Sertões, Euclides da Cunha, 1902
Vidas Secas, Graciliano Ramos, 1938
Seara vermelha, Jorge Amado, 1946
Cangaceiros, José Lins do Rego, 1953
Grande Sertão, João Guimarães Rosa, 1956
Carcará, Ivan Bichara, 1984
Sertão, Jorge Borges, 1993
I cangaceiros, M. Isaura Pereira de Queiroz, 1993
Il poligono della siccità, Diego Mainardi, Einaudi
Che cosa vedere
O Cangaceiro, Lima Barreto, 1953
Vidas secas, Nelson Pereira dos Santos, 1963
Deus e o Diabo na terra do sol, Glauber Rocha, 1964
O dragão da maldade contra o santo guerreiro, Glauber Rocha, 1969
Cangaceiro, Aníbal Massaini Neto, 1997
Eu, Tu, Eles, Andrucha Waddington, 2000
Che cosa ascoltare
Qualsiasi brano di Luíz Gonzaga, il ‘re’ del baião (per es.: Asa Branca - canzone simbolo dell’emigrazione dal sertão -, Baião, Cintura Fina,Danado de Bom, Forró de cabo a rabo)
Gilberto Gil, cd/colonna sonora del film Eu, Tu, Eles
Marisa Monte, O xote das meninas e Segue o seco
Gal Costa, Festa do interior e Revolta Olodum
Maria Bethânia, Carcará e Abc do sertão
Caetano Veloso, Cajuína e Aracaju
Lenine, Candeeiro encantado
Che cosa mangiare
Quibebe: piatto con zucca, grasso, pepe nero, spezie
Bode assado: caprone arrostito, avvolto in fette di lardo, con fagioli o fave
Buchada: stomaco di capretto ripieno di frattaglie, testa, sangue coagulato, peperoncini, comino, aglio, finocchio, menta, lardo, cipolla
Carne de sol o de charque: carne di manzo essiccata al sole o affumicata, piuttosto salata, con riso e fagioli
Rapadura: zucchero non raffinato, solidificato in blocchi (il dolce ‘da viaggio’ del sertão)
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