Dopo le bombe degli americani a Naha, Okinawa, è esplosa un’altra bomba: quella dei palazzinari
Darei tutto ciò che possiedo, o quasi, per essere catapultato indietro nel tempo e atterrare a Naha, la capitale di Okinawa, prima che le bombe degli americani la facessero a pezzi durante la Seconda guerra mondiale. Vorrei tornare indietro di un secolo e godermi questa città così com’era: il centro di un mondo a parte, l’ex regno di Ryukyu, tappezzato di casette monofamiliari. Basse e bellissime. Tetti fantastici di argilla, quasi sempre con uno o più Shisa (vedi oltre) e con i simboli del quartiere disegnati sulla sommità. Pareti in legno, semplici e per nulla pretenziose, spesso circondate da un muro di cinta, altrettanto semplice, a proteggere la privacy degli inquilini. All’interno legno alle pareti, porte scorrevoli e tatami in camera da letto. Piccoli spazi, ma ben organizzati, così da ospitare una famiglia anche numerosa. Ritmi di vita lenti, aroma di Okinawa soba in cucina, atmosfera da vendere.
Poi è arrivata la guerra, le bombe, gli americani. Molte case sono state distrutte, e la cosiddetta ‘modernità’ ha fatto il suo traumatico e devastante ingresso, anche qui. Colonizzati per metà dagli americani e per metà dagli altri giapponesi, nell’ultimo secolo Naha e i maggiori centri di Okinawa hanno subito una trasformazione architettonica selvaggia, spesso deprimente. Sulle macerie delle vecchie casette sono passate le ruspe, per far spazio a nuovi condominietti di tutte le fogge e misure ipotizzabili, secondo il dilagante stile di architettura selvaggia alla giapponese: una casa - quando non è un mostruoso condominio formicaio - non è MAI uguale a quella del vicino. Imprese edili, architetti folli e agenzie immobiliari scatenate, Naha sta vedendo un boom edilizio - dovuto forse anche all’arrivo dei molti immigrati dal resto del Giappone, in fuga dalla peste di Fukushima - che ha pochi eguali.
Le vecchie case tradizionali, in effetti, non sono le più resistenti del mondo. Quelle che hanno cinquant’anni ne dimostrano almeno il doppio. La salsedine durante tutto l’anno e i tifoni di agosto e settembre mettono a dura prova le abitazioni, ricche di cicatrici. Sono abitate perlopiù da anziani, ancora lì forse anche per mancanza di alternative: vetusti come (all’apparenza) i muri che li ospitano. I nuovi condomini offrono muri resistenti e confort superiore, ma molti anziani resistono. Non si può giurare, però, che i loro eredi faranno altrettanto (l’agenzia immobiliare attende dietro l’angolo). La ruspa, ovvio, è all’opera nella capitale regionale e nelle città maggiori. Le isole minori dell’arcipelago, però, resistono. Lì la tradizione è più radicata, e si sa come gli isolani (di tutto il mondo) non siano noti per le smanie di cambiamento. Nella minuscola e fantastica Taketomi, per esempio, sembra non esserci una sola casa fuori scala, contaminata dal maledetto ‘futuro’. Se ci vuoi vivere ti devi sposare con qualcuno del luogo, altrimenti goditi i tuoi giorni di vacanza e poi torna da dove sei venuto. Alla mattina i locali spazzano le strade fatte di corallo sbriciolato e la costruzione di nuove case (né, tanto più, di casazze) è proibita, se non dopo vagli e controvagli della comunità locale, pochissimo portata ai cambiamenti.
Girovagare senza meta per le vie di Naha, andando a caccia delle vecchie abitazioni, è una vera gioia per l’anima e per gli occhi. Ma per quanto, ancora? Le vecchie case sono destinate a scomparire del tutto, se il governo locale non le tutelerà entro breve. Non esiste, infatti, una legge che protegga il panorama urbano civile che fu, se non per qualche caso eccezionale (come per la Nakamurake, un’antica abitazione a nord-est di Naha; appartenuta a un ricco imprenditore agricolo, è stata trasformata in una specie di museo ed è preservata dal governo). Stranieri che abbiano avuto la lungimiranza del business architettonico - restaurare queste vecchie case e trasformarle in guest-house boutique - ancora non se ne vedono. Al più, qualche locale non anziano ma con radici profonde nella tradizione le rimette a posto, curando in particolare il tetto. La maggior parte di queste abitazioni, però, ha un brutto destino, se qualcuno non interviene presto. Ogni anno i tifoni se ne portano via qualcuna, e l’età avanzata decima i longevi di Okinawa. Se il governo locale non ha gli occhi per vedere il tesoro che sta per perdere, forse è ora che qualche investitore gaijin, straniero, faccia un’opera di bene per un patrimonio che è di tutti.
da Un italiano a Okinawa