Ovvero:
alla mercé degli inculadores
L’Italietta,
è noto, è il paese dei puffi. E, soprattutto in periodi di crisi nera, gli
squali escono a pranzo: si salvi chi può. Lavorare da free-lance nel nostro
Paese, senza stipendi né contributi garantiti, non è un’avventura per tutti. Ci
vuole una passione illimitata, pronta a sopravvivere alle cannonate
(economiche, carrieristiche, esistenziali), oltre, se possibile, a un tetto
sulla testa e due croste di pane in frigo. L’editoria nostrana, una giungla
selvaggia affollata di inculadores
assortiti, è il circo massimo in cui disoccupati, contadini alfabetizzati strappati
all’agricoltura e latitanti travestiti da editori campano sulla pelle di ingenui
e ambiziosi scrittori, fotografi, giornalisti. Contratti capestro, contratti
falsi, concorsi taroccati, pubblicazioni mai pagate, tipografi mascherati da
editori che sfruttano l’ego di vanitosi scribacchini con uno o più libri nel
cassetto, gentaglia che a chiacchiere ti promette mare e monti e che, mezz’ora
prima della pubblicazione, scompare nell’etere. Il circo è popolato da nani ed
elefanti, l’editoria italiana da qualche Serio Editore e da una miriade di
inculatopi. Razza resistente alle bombe atomiche, quest’ultima, che sa
riciclarsi, rinascere dalle ceneri, tra un fallimento e quello successivo, magari
cambiando nome e marchio, per poi rifare quello che sa meglio fare: inculare il
prossimo. Razza endemica, peraltro, nel paese dell’arrangiansi e del tirare a
campare, non importa se sulla pelle altrui. Purtroppo, fino a qualche anno fa,
gli inculadores avevano i nervi più
saldi di oggi: una volta dichiarati falliti dal tribunale, o ricevuta una
cartella di troppo da Equitalia, non si suicidavano. Semplicemente passavano
dal commercialista e si facevano fare un abito nuovo su misura.
Ecco
una black list personale di incontri
sventurati capitatimi in oltre un ventennio di frequentazioni editoriali. Tutti
veri e certificati (contratti mai rispettati, richieste di invio di rendiconti
con ricevuta di ritorno ignorate, note di collaborazione emesse e mai onorate),
a prova di avvocati. Ha una funzione pubblica - vi eviterà di essere deflorati
nello stesso modo e dalla stessa persona -, aiutandovi a offrire le vostre
proposte solo agli editori degni di tale qualifica, schivando le
mine vaganti. I nomi veri, ovvio, sono stati cambiati, perché è noto che gli
avvocati, quelli bravi, sanno aggirare anche i documenti veri e certificati.
Gli addetti ai lavori, tuttavia, non avranno bisogno di sforzi estremi di
fantasia per capire di chi, in realtà, si parla. E, in ogni caso, i fatti
citati possono essere un buon esempio, credo, per non farvi ingroppare come è
successo a me (come dice sempre il papa, l’atto contro natura, a meno che non
si sia omosensuali, fa male). I vostri contributi ed esperienze personali sono
benvenutissimi. Facciamo girare la voce, è ora di fare piazza pulita dei
pirati, marò(nna)!
FUZZI, IL RE DEI SOZZI
Un
bel dì, qualche anno fa, un grafico di Bologna con il quale avevo lavorato, dà
il mio nome a tal Fuzzi, imprenditore multi-mission
uscito pari pari dagli anni Ottanta: villa sui colli, Jaguar per andare al bar,
Rolex ai quattro formaggi. La sua ultima avventura da tycoon è una
nuova mega-marina al porto di Rimini. Basta pescherecci per portare in giro i
turisti tedeschi a suon di Raoul Casadei e di sogliole fritte, è l’ora di
barche serie per ricchi seri (il Berlusca era sceso in campo poco prima, i tempi erano maturi per certa umanità).
Fuzzi mi chiede un po’ di diapositive d’archivio su Rimini e dintorni, ne
acquista una dozzina per una brochure pluri-patinata (che non ho mai visto), io
emetto la mia fattura d’ordinanza, scadenza a 60 giorni. Passati i quali il mio
conto in banca non ne ha beneficiato. Prima lo chiamo - ‘La salderemo
senz’altro a fine mese, Scazzièri, non si preoccupi’ -, a fine mese nessuno mi
salda alcunché, e io mi preoccupo. Seguono fax, uno alla settimana (la posta
elettronica allora era fantascienza), per un altro paio di mesi. Regolarmente ignorati.
Lo richiamo, non risponde. Una sera, forte di un bicchiere di Mateus di troppo,
con un pennarello nero a testa grossa compongo il seguente messaggio politico
su un foglio bianco A4: ‘FUZZI, RE DEI SOZZI, VAI IN KOSOVO’ (era l’epoca dei
fuochi artificiali in Kosovo), e glielo mando, via fax, a casa. Il giorno dopo
ricevo il bonifico. Un mese dopo la società di Fuzzi viene dichiarata fallita,
mi sono salvato per miracolo.
TANFI, PLURIFALLITO RECIDIVO
Editore
modenese, noto negli anni Novanta per aver pubblicato in Italia le gloriose
guide turistiche AFTA, stampate nel Sud-est Asiatico. Costosissimo produrle –
zeppe di foto, carta a cinque stelle, caro tradurle - prezzo di mercato (ovvio)
esoso. Dopo qualche anno le AFTA italiane falliscono, a Cestino Tanfi - patròn
della casa editrice - viene ufficialmente proibito dal tribunale fallimentare
di anche solo pensare di mettere in piedi una nuova avventura editoriale. ‘Le è
concesso, d’ora in poi, di dedicarsi esclusivamente all’ikebana e al balletto
classico’, testuali parole della sentenza processuale che un infiltrato al
tribunale, amico mio, mi ha fatto leggere di straforo. Dopo una settimana dalla
sentenza, Tanfi è di nuovo sul mercato. Un modenese che si rispetti non si fa
abbattere mai, manco da un bolognese rapitore di secchie, figuramose se una
sentenza fallimentare lo ferma. Dopo qualche tempo Tanfi presenta la sua nuova
creatura, il mensile dedicato alle isole Scogli e scoglioni, alla
BIT (fiera del turismo) di Milano. A ruota gli scrivo, proponendogli alcuni
articoli dedicati a svariate isole che ho in archivio. Zero risposte. Dopo
mesi, un bel dì, mentre mi sto godendo una piacevole domenica pomeriggio in
campagna da mio nonno, Tanfi mi chiama al cellulare. ‘ Scazzièri, ha qualche
isola greca? Per domani?’. Minchia, mi dico. ‘Sì, Tinos’, gli dico. Corro a
casa, scrivo l’articolo, preparo le diapositive. Come da istruzioni, le
consegno il giorno dopo a un Pony Express che gliele recapita all’ora X al
casello autostradale di Modena Sud, roba da pusher. Tremo per le mie diapositive
(originali) ma, incredibile, il mese dopo esce un mio mega-servizio su Scogli e scoglioni. Tanfi mi ha trattato con i
guanti, cosa rara: il testo non è stato cambiato e le foto sono stampate come
dio comanda. E mi rispedisce le diapositive, in buone condizioni. Bravo Tanfi,
si vede che l’esperienza tipografica delle guide AFTA è servita a qualcosa.
Emetto la fattura. Mai pagata. Telefonate, fax, solleciti di svariata
natura, a parte l’albanese spacca rotule che avrei dovuto mandargli (ma mi
sarebbe costato). L’unica volta che il mariuolo si
degna di rispondermi al telefono mi dice ‘La salderemo senz’altro a fine mese,
Scazzièri, non si preoccupi’. A fine mese… avete capito. Qualcuno mi fa sapere
dell’esistenza dei giudici di pace, per rogne entro un certo importo si può
fare causa ai malavitosi GRATIS, evvai. Corro da un giudice (in pensione),
nell’ufficio di Bologna ricavato nell’edificio delle mie ex scuole elementari.
Vostro onore avvia la procedura e, dopo qualche mese (Tanfi è latitante), vado
a fare una fila interminabile, tra miriadi di avvocati, all’archivio degli
ufficiali giudiziari. Sono riuscito a far condannare Tanfi in contumacia, che non
si è preso la briga di venire all’udienza. Per pignorargli l’auto, però, dovrei
assoldare un avvocato a Modena, con il rischio (certezza) che il miserabile non
abbia nemmeno un’auto. La gioia, però, di averlo fatto condannare in contumacia, nero su bianco, mi compensa del danno
subito. Un mese dopo Scogli e scoglioni fallisce
e scompare dalle edicole. Speriamo che pure Tanfi sia scomparso dalla faccia
della terra.
BICCHIERONI,
IL RE DEI MERDONI
Un
bel dì mi contatta tal Giulietto Bicchieroni, un bischero di Livorno. ‘Sto
inaugurando una nuova fanzine commerciale dedicata alle fiere italiane, un
settore ricco di busine$$, c’è da far bene. Le va di occuparsi delle testate di
Bologna e di Rimini? Testi e foto, a sua discrezione, seguendo il calendario
delle fiere’. Benissimo, gli dico. Stabiliamo il compenso, tutto ok. Prima
missione: l’odioso Motorshow di Bologna, orgia di lamiere e subumani, per
fortuna compensati da qualche modella del genere donne & motori, roba per uomini veri e per fotografi che
vogliono lustrarsi occhi e zoom. Affronto le torme di bovari scesi in città,
sudo come una fontana per il caldo sahariano negli stand della fiera (fuori è
dicembre e si gela, dentro è ferragosto), fotografo di tutto un po’. Mando a
Bicchieroni il meglio del raccolto, diapositive originali (di cui non ho
copie), un testo di accompagnamento. Prossima missione a Rimini. Ma la fanzine
non esce. Mai. Fax, telefonate. Silenzio. Sia
così gentile da restituirmi almeno le diapositive, gli scrivo con fare
supplicante, avendo già dato per scontato che mai verrò pagato. Zero
diapositive, gli mando una fattura per il danno subito (perdita delle
diapositive originali), raccomandata con ricevuta di ritorno. Zero risposte.
Giudici di pace, fila eterna dagli ufficiali giudiziari, condannato in
contumacia. Déjà vu, come i soldi di Tanfi.
UN’INCULATA
DAVVERO IMPORTANTE
Non
ricordo né il cognome né come lo conobbi, so solo che si chiamava Registro
(nome da contadino romagnolo) e che era un ammiratore dei fumetti di mio zio.
Copriva la pelata con un codino di cavallo e faceva il grafico pubblicitario.
Aveva uno studio a Vergiano, una frazione di Rimini, e usava l’aggettivo importante due parole su tre. Durante
uno dei miei buen retiros sui colli
di Verucchio, un bel dì mi affidò un primo lavoro, fotografia industriale, una
giornata di sbattimento in una fabbrica di San Marino. Tutto andò al meglio, ne
fecero un folder scintillante e mi pagarono pure. Andasse sempre così. La
seconda missione fu più impegnativa: chiuso per una settimana, dall’alba al
tramonto, a fotografare affettatrici per salumi, frullatori, macchinari vari e
assortiti, nel seminterrato di un’azienda di Villa Verucchio. Come da accordi,
per farli risparmiare (l’industria, il grafico), fotografai il tutto su
diapositiva di piccolo formato. E lo sanno anche i bambini che le diapositive
35 mm non sono sufficienti per ingrandimenti tipo outdoor, grandi cartelloni
stradali. A fine missione, selezionate svariate centinaia di immagini, le
consegnai. Registro le esaminò, con tanto di lentino, al tavolo luminoso. Belle, benissimo, bravo, davvero foto
importanti. Lavoro consegnato e accettato, emisi la fattura, importo per me
importante (sei milioni di lire).
Passarono i mesi, sei, quanti i milioni e i miei solleciti via fax. Copechi in
banca zero, Registro latitante al telefono. Un giorno, finalmente, riesco a
parlare con il suo sottoposto, un simpatico ciccione. Mi spiace, il cliente ha rifiutato il lavoro. E me lo dici sei mesi dopo? Almeno rimborsatemi le spese (rullini, sviluppi), chiesi loro. Mai
vista una lira. Fesso che sono, che cosa potevo aspettarmi da un piadinaro
mancato?
IL
SAPORE DEL PACCO
Anni
fa, un bel dì venni a sapere che nella mia città, la mitica Bulàgna, aveva
aperto battenti e rotative un mensile dedicato all’America Latina: Calor. La rivista era fatta benino, li
travolsi di proposte, forte del mio archivio zeppo di anni di frequentazioni
fotografiche da Città del Messico a Porto Alegre. Mi pubblicarono svariati
articoli, mi fecero recensire cd, stamparono addirittura una copertina con il
ritratto di una mia ex brasileira. La giovane era ricca di perché, tanto che
alla Fiera di Bologna, dove Calor
aveva uno stand, un peone trafugò nottetempo il poster con la suddetta
copertina ingigantita. Quasi ogni mese pubblicavano cosucce mie, tutte passate
per le mani di Marino Chissà, un omaccione con giacche anni Ottanta da sbirro
della Digos (Pubblico di tutto, anche i
pornacci, basta che l’editore mi paghi, un giorno mi confidò; poi Chissà
cambiò fashion, smise le giacche con le spalle superimbottite, si fece frate
comboniano e partì per l’Africa). L’editore capo, Giangi Marelli, mai lo
incontrai. Ma era a lui che spedivo le mie fatture. Mai pagate, nemmeno una.
Datosi alla latitanza, poi si è riciclato (risorto dalle ceneri, facendo finta
che il passato non esista) e si è rimesso a fare l’editore. Dell’esperienza di Calor mi rimane qualche cd recensito e
la gioia di aver fatto felice il ladro della fiera.
PUÒ
ESISTERE QUALCOSA DI PEGGIO DI UN SAPUTELLO VENETO?
L’amica
di un’amica, un bel dì, mi mise in contatto con Fefè Bragadin, responsabile del
marketting della Aliante, un nuovo
tour operator che aveva aperto una sede gigantesca di fianco alla tangenziale
di Bo. L’azienda non poteva passare inosservata agli automobilisti, anche
perché nel parcheggio aveva piazzato un vero aliante, opera suprema di visibilità. Quando incontrai Fefè mi si
accapponarono subito i peli di sopra e di sotto. Occhialini da primo della
classe, accento veneto mostruoso, parlantina da manager bocconiano che sa come
va il mondo. Ma non ero lì per un’indagine antropologica, ero lì per fare
scambiucci. E li ottenni: una buona selezione di mie diapositive del Sud-est
Asiatico (originali, niet copie, da restituire dopo l’uso, ovvio), in cambio di
un biglietto per l’amato Brasiu. Le foto servivano urgentemente, tanto che
riuscii a vedere il catalogo fresco di stampa subito prima di imbarcarmi
sull’aereo. Gli aviatori avevano fatto un lavoro discreto, anche se qualche
immagine della Birmania era spacciata per Laos, in fondo un dettaglio
irrilevante per un turista medio che non sa un cazzo di quei posti e vuole solo
affidare i propri sghei a un tour operator che lo intruppi in un viaggio
organizzato fra i pericolosissimi musi gialli. In Brasile, come al solito, ci
stetti sei mesetti tondi. Rientrando da Malpensa, notai che a bordo tangenziale
il capannone di Aliante sembrava un centro okkupato dai punkabbestie. Cazz’è successo??, chiesi all’amica
dell’amica, non appena potei afferrare un telefono. Fallimento, processo fallimentare avviato, non ce n’è più per nessuno.
Fui travolto da due domande, che rivolsi al volo all’am. dell’am. Fefè, dove cippa è? E, soprattutto, come
faccio a recuperare le mie diapositive?? Risposte deludenti, nell’ordine:
1) si è trasferito a Milano, assunto da un altro Grande Operatore; 2) BOH.
Inforcata la Vespa, cercai di risolvere la fazenda alla vecchia, con un’azione
da uomo vero. Andai alle macerie dell’Aliante e mi feci aprire dal portinaio,
un pensionato messo lì a vigilare le rovine dell’azienda, in attesa che il
giudice fallimentare sequestrasse i macchinari, così da rivenderli in Africa e
tirare su due spiccioli da dare ai creditori. Nel casino infame degli uffici
riuscii a recuperare qualche diapositiva nei cestini, miracolo, tra fogli
appallottolati e foto randagie di altri sventurati come me. Ma una quarantina,
quaranta coltellate all’addome, mancarono all’appello, forever. Poi stanai l’indirizzo bolognese di Fefè sull’elenco del
telefono, diedi il gas a manetta, raggiunsi il condominiazzo in cui viveva e suonai il campanello con una mano (con
l’altra impugnavo la catena della moto per spaccargli a metà cranio e occhialini
saputelli). Nessuno mi rispose, una vicina mi disse che quello lì, con la
faccia odiosetta, aveva fatto trasloco pochi giorni prima.
MÙDNA,
TERRA DI PIRATI
L’era
degli scambiucci (foto x biglietti aerei) l’avevo inaugurata anni prima della
disavventura con Aliante. Avevo proposto il baratto alla Persa Viaggi, un tour operator di Modena - Mùdna, per i conoscitori
- specializzato nel Brasile. Al primo incontro fui ricevuto da Mr. Puppi, padre
padrone dell’azienda, nel suo ufficio sul fondo della grande agenzia.
Arredamento tipo motel brasiliano, Puppi conosceva la merce che spacciava. Belle foto, Scoràzzi. Mo shì, dài, facciamo
‘sto scambio, tio bò. E facemmo lo scambio. I ragazzi pubblicarono un
catalogo sul Brasile con sole mie foto, e pure bene, tanto di cappello agli
stampatori della Ghirlandina. Qualche mese dopo, un bel dì, mi capitò fra le
mani il dépliant di una balerazza mudnese specializzata in lambada (allora i
Kaoma imperversavano). Gli stronzetti avevano utilizzato una mia foto, la
stessa pubblicata sul catalogo della Persa Viaggi, in copertina del loro
pieghevole pirata. Senza nemmeno il mio nome. Li chiamai, forse risposero al
telefono perché pensarono che fossi un disperato pronto a iscriversi al loro
corso per casalinghe arrapate. Chiesi loro dove avessero preso la foto. Boh, non sho micca, forse da qualche
rivista. Feci loro notare che le cose non funzionavano così, e che gli
avrei mandato una fattura. Mo certo,
mandi pure. Ovviamente non mandai alcunché, non avevo francobolli da
sprecare. Per curiosité, però, chiamai anche Puppi e gli chiesi schiarimenti a
riguardo. Mo, non sho, non li conosco,
Scazzièri. Tra le sue esse schifoshe capii benissimo che li conosheva
benisshimo, ma anche che non lo avrebbe mai ammesso. Dopo qualche anno e
qualche altro catalogo, se Deus quiser,
la crisi ha spazzato via la Persa Viaggi. Evvai, tio bò.
MÙDNA
2, TERRA DI MISTERI
Giò
Parrucchieri, un collega scrittore di guide turistiche e di manuali di
istruzioni per camper, un bel dì mi dà la dritta. Qui da me, a Mùdna, c’è un editore argentino, tal Verga, che pubblica
ottimi libri fotografici. Perché non gli proponi qualcosa? Detto, fatto. Il
giorno x mi presento dall’editore, con tanto di servizio di
accompagnamento/presentazione da parte del fido Giò. Verga dà un’occhiata alla
mia selezione di foto del Brasile, il progetto – scusate la banalità – l’ho
chiamato Saudade, il meglio di circa
vent’anni di peregrinazioni fotografiche attraverso il colosso sudamericano. È
noto come argentini e brasiliani si amino allo stesso modo di italiani e francesi, ma questo argentino è
speciale. Anch’io amo il Brasile.
Facciamolo, mi confida, in uno slancio di amore per il País do futuro. Per un fotografo pubblicare un libro fotografico è
né più né meno che partorire un figlio, tanto che alcuni arrivano a pagarne la
stampa di tasca propria, pur di figliare. Al si fa di Verga mi prende un’euforia che faccio fatica a contenere.
Ma il processo di selezione sarà lungo e scrupoloso, mi avverte l’editore. Voglio vedere TUTTE le immagini che hai del
Brasile. Minchia, penso, qui parliamo di migliaia e migliaia di
diapositive. Inizio quindi una specie di pendolarismo settimanale fra Bo e Mo.
Sull’imbrunire arrivo in treno alla stazione di Mo, chiamo Verga, lui mi viene
a raccattare, andiamo a casa sua, la moglie ci prepara una deliziosa cenetta e
poi, davanti a un buon bicchiere di vino tinto,
ci sorbiamo una lunga proiezione di diapositive, il contenuto di una valigia.
Lui le seleziona con estrema accuratezza, facendo una prima cernita, poi una
seconda, poi una terza. Ogni volta sul campo di battaglia cadono molte vittime,
e ogni volta che lui scarta un’immagine io sanguino. Un pomeriggio, mentre è di
passaggio da Bologna, viene lui da me, stavolta il cinema è a casa mia e il
Mateus rimpiazza il vino tinto. In un
paio di mesi di lavoro minuzioso, arriviamo al traguardo: 250 foto sceltissime,
la crema della crema, ognuna passata almeno al triplo vaglio. Conservo il
materiale prezioso in un luogo separato dell’archivio. E ora che cosa devo fare? Chiedo a Verga. Portamelo, ne faccio fare le scansioni, poi cerchiamo uno sponsor.
Mi mancava il dettaglio dello sponsor… Ma come, non era cosa fatta? Ok, gli
lascio le diapositive, temendo il peggio, poi un po’ di tempo dopo le vado a
riprendere, lui mi dice di averne fatte le scansioni. Il tempo passa, non lo
sento più. Lo chiamo. Allora, Diego, todo
bien? A che punto siamo? Con la più grande naturalezza mi dice: Senza sponsor non possiamo farne nulla. Tu
ne riesci a trovare uno? Mi cade il mento, pensavo che gli sponsor li
avesse lui. Ma mi rimbocco le maniche, mando proposte a destra e a manca, ente
culturale dell’ambasciata brasiliana, Varig, a chiunque sappia che cos’è una
caipirinha. Nada, silenzio totale. E
Verga scompare nel nulla, non l’ho mai più visto né sentito. Certo è che ora
conosco ogni filo d’erba lungo la linea ferroviaria tra Bologna e Modena.
GRINFIESE,
L’EDITORE VOLPONE
Nei
periodi epici dei primi viaggi fotografici market-oriented,
proposi ai quattro venti (una serie di editori scovati in libreria) una guida
del Paraguay, la prima di due: avevo diviso il paese in Nord e Sud, un volume a
punto cardinale. Avevo scritto sì e no il 10% della prima parte, un incipit che bastò ad accalappiare (così
pensai, allora; in realtà fui io, a essere accalappiato), un bel dì, l’editore
Giangi Grinfiese, publisher alla
vaccinara del litorale ostiense. Quando disse sì, se fa alla mia proposta, mi sembrò di aver vinto la lotteria.
Non solo avrei scritto un libro (due) dedicato al paese che più amavo dopo San
Marino, ma avrei pure visto qualche copeco per farlo. Senz’altro l’inizio di
una prestigiosa carriera di scrittore di guide, nei tempi in cui le Lonely Planet non erano ancora tradotte
e gli italiani viaggiavano solo con la badante. Grinfiese mi spedì i contratti,
uno per il Nord, l’altro per il Sud. Zero anticipo, zero royalties sulle prime 1000 copie vendute, qualche spicciolo e un
paio di pacche di congratulazioni sulle spalle a partire dalla copia 1001.
Nella mia ingenua innocenza di giovane volenteroso a caccia del futuro presi
per buoni quei contratti. Contratti che, nelle aule dei tribunali, sono noti
come contratti capestro, ma che rigirandoli fra le mani, nella mia stanzetta,
profumavano di gloria e di futuro. Mi piegai a riccio per mille e una notti,
scrissi la Treccani e le Pagine Gialle del Paraguay. Spedii a mie spese le
diapositive migliori, imparai l’ABC dell’editing da un correttore di bozze di
nome Crocifisso. Quando mi fu spedito il primo volume stampato e lo vidi quasi
mi saltarono le coronarie. Avevo partorito, ero sulla Luna. Mi entusiasmai
tanto per la cosa che, non soddisfatto di aver dedicato un anno non retribuito
alla scrittura di due tomi, procedetti verso il terzo libro e contratto,
prossima opera una guida della Groenlandia. Mia moglie non era contentissima
della cosa, visto che mentre lei cercava di nidificare io regalavo il mio lavoro a uno di Ostia. A terzo libro
partorito e zero royalties incassate, iniziai a leggere con cura i rendiconti
che, come da contratto, l’editore mi mandava una volta all’anno. Le famose
mille copie vendute non venivano mai raggiunte, anche perché dal mazzo del
conteggio andavano detratte le decine regalate (non a me) per ‘promozione’. A
un certo punto non solo non arrivarono i copechi, ma smisero di arrivare pure i
rendiconti. Iniziai così un inseguimento dell’editore a suon di raccomandate
con ricevuta di ritorno, con le quali richiedevo l’invio dei rendiconti.
Grinfiese era irreperibile al telefono, e in un’occasione, d’accordo con il
postino amico suo, riuscì nel miracolo: la mia raccomandata non fu mai
consegnata, ufficialmente smarrita
(missione impossibile, essendo registrata a ogni passaggio di mano) nei melmosi
e merdosi meandri delle splendide Poste Italiane. Per farla breve: dopo oltre
un anno di inseguimenti, telefonate, troppe file all’ufficio postale e
troppissimi francobolli, i miei tre libri invecchiarono, andarono fuori
produzione, quindi al macero. Grinfiese ebbe l’ardire di propormi l’acquisto dei medesimi, a prezzo di favore, prima che fossero
trasformati in carta per avvolgere l’insalata a Porta Portese. A termine della
disavventura, l’editore mi saldò i TRE libri con un assegno di 111.000 lire, numero forse
satanico che, secondo lui, corrispondeva al totale delle royalties maturate, e
che secondo me corrispondeva a quanto avevo speso in corriere solo per
inviargli diapositive originali (restituitemi sporche e danneggiate), bozze e
mappe (fatte a mano da me e da mia madre), senza contare francobolli, telefonate
e molto altro. Come strascico del tutto mi è rimasta una cartella gonfia di
solleciti e ricevute di raccomandate, oltre a un divorzio. Tutto sommato, ne è
valsa la pena.
RENDICONTI,
CHE COSA SONO?
Un
bel dì, l’amico Danilo, ispanista pluridecorato nonché uomo di buone letture,
mi dà una dritta. Tal Dàmmeli, tipografo della campagna veronese, ha deciso di
fare il salto di qualité: stanco di stampare adesivi della Padania, vuole varare
una piccola casa editrice. Fra le collane (collanine), una sarà dedicata alla
scrittura di viaggio. Gli piazzo al volo il mio L’importante è spegnere la tv, un'antologia di racconti di viaggio.
I ragazzi della Valpolicella, tra una bottiglia di vino imbottigliato come
Bacco comanda e una fetta di polenta al somaro, mi sfornano un libricino fatto
per bene. Dàmmeli, consigliato da un esperto addetto ai lavori, imita le Grandi
Case Editrici e mi consegna addirittura un contratto di edizione, con tutte le
clausole standard. Pagamento anticipo: 500 euro in contanti, in busta chiusa con una leccata, consegnatami brevi manu dall’editore-tipografo stesso
una bella sera a bordo tavola in un serissimo ristorante del suo territorio
(carne squisita, Amarone sega gambe, presentazione ebbra del libro a seguire).
Sul contratto c’è scritto che l’editore, ogni anno, avrebbe dovuto farmi
pervenire rendiconti e diritti d’autore ($) maturati. Voi li avete mai visti?
Io no. Il libro è ancora lì che circola, chissà che fine ha fatto Dàmmeli
(brutta, spero). Comunque poteva andarmi peggio. Almeno l’anticipo l’ho
ricevuto, sempre meglio di cinquecento scaracchi in faccia.
A
CHE COSA DIAMINE SERVE UN EDITOR?
Sull’orma del successo
di Tropico Banana, un bel dì propongo
il mio Vita da bianchetto, libro di
viaggio ambientato in Mali e in Bukkina Fasu, alla casa editrice DDT, di Cuneo.
Piccola casa editrice a conduzione familiare che sta avendo grande succe$$o per
essersi accaparrata per l’ignorante mercato italico il diritto di traduzione dall’inglese
delle celeberrime guide gastronomiche neozelandesi Homeless Kitchen. La casa editrice pubblicava un figlio minore, in
perdita ma che dava lustro: la collanina Impronte,
dedicata alla scrittura di viaggio. Giulietta Mastina, donna di buon gusto e di
buone letture, somma editor in chief, acquistò
al volo le mie cronache africane. L’editore mi pagò l’anticipo pattuito come da
contratto e, addirittura, mi spedì a Gubbio a pre-presentare il libro ai
venditori che, una volta stampato, lo avrebbero dovuto spacciare ai librai. Con
tanto di prova di stampa della copertina. I mesi passarono, il libro non
usciva. Dal Brasile, dove vegetavo, inviavo e-mail ricche di ? all’editor,
seguiti da inquietanti silenzi. Un brutto giorno, finalmente, si degnarono di
rispondere:
Gentile
Pietro, mi scuso molto per averla fatta attendere. Le riassumo brevemente le
motivazioni che hanno portato DDT a non pubblicare “Vita da Bianchetto”. Il suo
testo è stato visionato dall’editore prima di andare in stampa, come del resto
accade a molti testi, ed è stato allora che il suo lavoro è stato fermato e
considerato non in linea con la collana. L’editore ha sottolineato la fragilità
dell’impianto narrativo e ha trovato il testo poco soddisfacente sul piano
della scrittura e dei contenuti, con troppe situazioni ripetute e di poco
interesse e descritte, a suo giudizio, con tratti a volte obbiettivamente
razzistici e con un linguaggio datato. DDT considera dunque nullo il contratto
con lei precedentemente stipulato e le concede ampia liberatoria a pubblicare
il suo libro con altro editore. Le auguro una migliore fortuna per il suo
lavoro e le porgo i miei più cordiali saluti. Cristiana Luigi
Cristiana o Luigi? In
ogni caso: mi dovevo essere sbagliato. Fino a quel giorno avevo pensato che
gli/le editor fossero stipendiati per
prendere in considerazione le proposte di pubblicazione, leggerle, promuoverle
o respingerle, a nome dell’editore
(la –e finale è piccola ma fa una GRANDE differenza). E che, una volta
stipulato un contratto, questo valesse. Non avevo preso in considerazione che
le case editrici, anche quelle piccole, funzionassero a compartimenti stagni, a
comunicazione zero fra un reparto e l’altro. Per pura curiosità da serva, avrei
voluto vedere quali casini orrendi scoppiarono alla DDT, quando l’editore Ferruccio,
un quarto d’ora prima di accendere le rotative, si degnò finalmente di leggere
il mio libro. L’unico dispiacere da parte mia, in tutta questa avventura, è la
lavata di testa che la brava Mastina deve aver subito per mantenere scrivania e
stipendio. Editoria italiana, gran brutta bestia.
NON SOLO ITALIETTA
Mentre sto svernando a
Goa, un bel dì un cliente di Singapore mi assegna una Missione Importante: una
guida fotografica di Delhi. Da Panjim prendo un aereo per la capitale, trovo
una bettola dove dormire, assoldo un autista e il suo rickshaw scoreggiante per quattro giorni interi. Dall’alba al
tramonto ci trasciniamo dappertutto in quel casino di città a fotografare cani
e porci. Tra questi, anche la libreria principale del glorioso editore Bubbharat,
il numero uno nella Grande Madre India per qualità di libri fotografici. La sua
libreria è un’istituzione in città e nel mondo editoriale indiano. Quando la
raggiungo vado a stanare l’editore nel suo ufficietto. Baffoni indiani
d’ordinanza, sorrisetto da figaiolo, aria di uno che sa come vanno le cose, fare
cosmopolita, telefono che squilla ogni due minuti, dall’altra parte qualcuno
che gli chiede un favore o un’attrice di Bollywood che lo invita a prendere
l’aperitivo al country club. Uomo di successo, senz’altro. Mentre ottengo il
permesso di fotografare la sua stamberga, le rotelline del cervello si agitano.
Perché, visto che sono qua, non gli propongo qualcosa? E gli butto lì il mio
progetto Saudade sul Brasiu, quello
concepito ma mai partorito, frutto delle mille proiezioni a casa dell’editore
modenese-argentino. Interessante, lo
valuterò, mi fa Bubbharat con aria quasi convincente. Mi mostra alcuni
suoi libri, di ottima qualità, perlopiù sull’India. E mi fa la proposta: Senti, da tempo ho in testa un libro, ma non
ho ancora trovato il fotografo giusto per farlo. Potresti essere tu. Si tratta
di un libro incentrato sulla comune radice culturale fra Kashmir e Pakistan.
Fratelli musulmani a cavallo tra due paesi. Che cosa ne dici? Ci penso
qualche secondo, travolto dall’entusiasmo, come sempre accade quando qualcuno
mi propone un nuovo progetto, di qualunque
cosa si tratti. Sì, certo, mi piacerebbe
molto. Ma… Al Quaeda? Temo di essere troppo bianchetto per una tale avventura
(all’epoca gli occidentali in quelle regioni erano ricercati come conigli da
rosolare per il banchetto di nozze). E,
by the way, quanto pagherebbe a foto pubblicata? Bubbharat ci pensò mezzo
secondo, fingendo incertezza. Venti euro,
disse, con la più tosta delle facce toste. Come se fosse un prezzo più che
adeguato, se non addirittura generoso. Ci
devo pensare, gli strinsi la mano, corsi al mercato a farmi quattro risate
e un paio di chai per dimenticare
l’incontro. Non ce l’ho fatta, non l’ho mai dimenticato.
IL
RE DEGLI INCULADORES
Tutti
i galantuomini incontrati fin qua sono nulla rispetto all’Imperatore Massimo.
Egli è noto ai più, ma in particolare lo è a mio zio Felipe, il noto e geniale
disegnatore+scrittore. Zio è pigro, ma quando decide di muoversi lo fa in
Grande. Così, un brutto dì, appioppò non uno, ma TRE libri a tal Roccamerdi, di
Latina. La dritta gliel’aveva data Francisco Pavo, un cileno anoressico amico
suo spacciatore di affari del secolo. Noto fra gli amici come ‘Il Merda’, l’editore era un personaggio
onnipresente nelle notti discotecare romane di tendenza. Pelata rilucente, sempre
vestito di nero, la sua palla da biliardo scintillava sotto le luci
stroboscopiche dei locali più in. E, come lui stesso diceva, pubblicava solo
roba che faceva tendenza. Nel suo
vasto catalogo, in effetti, si annoveravano i titoli più disparati,
vagamente borderline, ggiovani e
scoppiettanti: da quello dedicato ai collezionisti della bambola Cicciobello a
quello dei feticisti per i gomiti delle donne. Lo stesso Roccamerdi, sotto lo
pseudonimo di Merdrock, aveva pubblicato uno dei suoi titoli (una storiella di
preti cibernetici, se ricordo bene). Zio lo travolse con tre pezzi dei suoi: Il cazzo stracciacazzo (un’antologia di
racconti zozzi), San Marino fra le cosce
(report su un clan di carbonari sanmarinesi che, contro ogni legge locale, si
ostinavano a pagare le tasse) e, last but
not least, il quasi best-seller Prima
caccia i copechi, poi ti racconto com’è andata (Zio, nasando il pacco,
aveva voluto questo titolo ad hoc per ammonire Roccamerdi a fare il bravino).
Il Merda, Re e Imperatore degli Inculatopi, non fece il bravino. Stipulati e
inviati a zio tre contratti di edizione con tutti i puntini sulle i, alla fine
dei conti non cacciò mezza piotta. Zio provò ripetutamente a ottenere il dovuto, ma è
ancora qui che si cosparge di unguenti le emorroidi. Poi venne a sapere che
questa era la prassi del pelato: pubblicare e non pagare, mai (ne faceva una
questione di onore). Era un plurifallito recidivo che, a suon di chiacchiere,
dopo ogni sequestro effettuato dagli ufficiali giudiziari scovava un nuovo gonzo da
spellare ($ponsor) e rinasceva regolarmente come topo di scogliera. In un’occasione,
mentre ero alla Fiera del Bestiame a Torino a provare a spacciare alcuni miei
libri nel cazzetto, mi cadde l’occhio sulla pelata roccamerda. Il ratto aveva
un piccolo stand, dove spiccavano i libri di zio, venduti impunemente ai
viandanti inconsapevoli del dietro-le-quinte. Come lo vidi, il destro mi si
chiuse automaticamente, le nocche divennero bianche, ma bloccai il mio uppercut
un secondo prima del gong. Ero lì per spacciare manoscritti, non
per spaccare manovratori di scrittori. Inghiottii l’odio
faidesco-familiare e andai verso il famoso oltre. Aspiranti scrittori, fate
molta attenzione. Se capitate a una festicciola romana di tendenza, aprite gli
occhi e se avvistate una pelata in nero, scappate urlando vade retro, Satana!