venerdì 26 agosto 2011

GIAPPONE - WHAT THE HELL CI FATE ANCORA QUI??


L’OCCUPAZIONE INFINITA DEI MILITARI AMERICANI A OKINAWA

Hoka-hey, lo sappiamo tutti. I giapponesi hanno perso la Seconda guerra mondiale a suon di bombe atomiche, la Cina è sempre più vicina e la Corea del Nord in mano a pericolosi sciroccati usciti da un fumetto per amanti della psilocybe. La Cina straccia l’anima ai giapponesi per il controllo di qualche isoletta inutile, per puro piacere di vendetta dopo la truculenta occupazione nipponica del secolo scorso. E i giapponesi, nonostante le legnate radioattive di Hiroshima e Nagasaki, sono troppo ben educati per protestare come Mishima comanda(va), su qualsiasi versante: contro il proprio governo e le sue centrali nucleari della straminchia; contro l’arroganza fintocomunista cinese; contro l’eterna occupazione militare gringa. Ma com’è possibile che, a sessantotto anni dalla sconfitta della guerra, il Giappone continui a essere una colonia americana?



Birra, muscoli e gente arrapata
Oltre metà dei film che vediamo in tv e al cinema sono statunitensi, per cui sappiamo già tutto del mondo a stelle-e-strisce, anche se nel Grand Canyon non ci abbiamo mai messo piede e dello scintillio di New York non ce ne può fregare di meno. Ma mettere piede nelle città sorte attorno alle troppe basi militari americane di Okinawa (TRENTASETTE, che coprono un’area pari al 19% dell’isola principale e all’11% dell’arcipelago) offre sensazioni non per tutti gli stomaci. Circa ventitremila soldati e soldatesse, più relative famiglie, stipendiati dai contribuenti americani per fare presenza, sempre pronti a difendere l’alleato (ex nemico, costretto a un’amicizia forzata) dal comunista alle porte. I soldati, però, non portano con sé solo M-16 e uniformi, ma anche uno stile di vita chiassoso, appariscente, lontano anni luce dall’eleganza delle geishe e dall’orgogliosa compostezza dei samurai che furono.







Sarebbe interessante sapere quante lattine della locale birra Orion finiscono tracannate giù per le gole nordamericane. Gole trasportate da automobili ridicole, uscite da un film di Vin Diesel per minorati mentali, a fare brum durante le libere uscite, trascinandosi da un fast-food a un bar per ventenni birrosi palestrati a caccia di fanciulle indigene con l’American Dream. ‘Yellow cab’, le chiamano ogni tanto, con acida autoironia, i loro compatrioti giapponesi, per indicare quelle con animo da ‘tassista’, sempre pronte ad aprire le portiere dell’anima per il primo yankee che passa. Nel 1995 scatenò una mezza rivolta popolare la notte brava di tre cretini arrapati, che in libera uscita stuprarono una dodicenne. I militari, chiamiamoli così, furono processati e, anziché essere dati in pasto alla yakuza, come sarebbe stato giusto, vennero rimpatriati. Il moto di protesta, che inizialmente coinvolse circa centomila abitanti di Okinawa, lentamente si spense. Gli interessi della nazione, l’amico americano, erano più importanti del naturale sviluppo sessuale di una dodicenne. 








La protesta seguì anche il percorso politico, con alcuni amministratori locali divenuti portavoce del ‘togliamoci i militari stranieri da casa’, ma a Tokyo non ne hanno mai davvero voluto sapere. Qualche politichetto locale in cerca di voti promise la cacciata degli americani se eletto, e una volta eletto si rimangiò la parola al volo. Dopo lo stupro, per provare a tenere calmini gli animi della popolazione, nel 1996  il governo giapponese partorì un accordo davvero risolutivo: il SACO (Special Action Committee on Okinawa). Lo scopo ufficiale dell’accordo, sulla carta, sarebbe stato quello di ridurre l’impatto delle azioni militari americane sulla popolazione dell’arcipelago. All’atto pratico nulla è cambiato. Anzi, se possibile, tutto è peggiorato. Il risultato, ancor oggi, è che l’aria condizionata dei marines di stanza in Giappone, anche se andati in vacanza per un mese dimenticandosi il condizionatore acceso, la pagano i contribuenti nipponici. Pure in questo periodo di razionamenti energetici, dopo il disastro di Fukushima. A Okinawa è difficile riuscire a completare una frase con un interlocutore, si viene troppo spesso interrotti dal frastuono delle pale degli elicotteri che si esercitano a consumare carburante e a inquinare l'aria. Sullo sfondo di tutto ciò, nel panorama di Ginowan, di Okinawa City, di Kadena e di Chatan Town, città satellite delle basi, rivenditori di auto americane usate, di abbigliamento hip-hop cool, fra una statua della libertà sul marciapiedi e una di Elvis. Il Giappone ha davvero bisogno di tutto ciò?









La voce di Takae
Non tutti, però, accettano in passivo silenzio. Nel Nord dell’isola principale di Okinawa, nella bella foresta subtropicale di Yanbaru, una comunità è in rivolta. Lì, tra un ecosistema unico con centosettanta specie a forte rischio di estinzione, è in fase di sviluppo l’ennesimo progetto per la costruzione di sei nuovi campi di atterraggio per elicotteri. Ciò nonostante l'accordo-pacco SACO prevedesse, nero su bianco, la restituzione delle zone di addestramento nella foresta alla popolazione civile. La regione è in mano agli americani fino dagli anni Cinquanta, quando fu creato il Jungle Warrior Training Center, all’epoca utilizzato per il conflitto in Vietnam. I rambi si dovevano, e ancor oggi si devono esercitare alla guerra di giungla, e non possono certo farlo nelle città intasate di fast-food (la qualità degli hamburger potrebbe risentirne) né nelle migliori spiagge dell’arcipelago, già fagocitate entro i confini delle loro basi ab illo tempore (la qualità dell’abbronzatura potrebbe risentirne). Meglio sfollare quattro fricchettoni obsoleti e le loro galline. Fare spazio fra tutti quegli alberi inutili, nonostante gli accordi stipulati. 





Nella foresta di Yanbaru vivono gli ultimi cinquecento esemplari di Noguchi Gera (Sapheopipo noguchii), il picchio di Okinawa, simbolo dell'arcipelago e 'Monumento Nazionale Giapponese', così come lo Yanbaru Kuina (Gallirallus okinawae), un colorato uccello endemico della zona, divenuto simbolo della rivolta pacifica. Vive solo qui, e la sua sopravvivenza è fortemente minacciata dal progetto per i nuovi eliporti. Soprattutto dopo che si è saputo che questi serviranno non più ai soliti elicotteri da guerra, i ‘vecchi’ CH46 (qualcuno, ogni tanto, si schianta contro i centri abitati di Okinawa), ma ai maledetti V-22 Osprey, mezzi a decollo anche laterale. Grandi e rumorosissimi, hanno la capacità di frullare nell’aria tutto ciò che è sotto di loro, alberi e timpani primi fra tutti. A Brewton, in Alabama, nel 2011 la comunità locale è riuscita a impedire l'utilizzo di questi mostri rumorosi nella base militare locale. Ma, ovvio, per gli americani l'Alabama conta molto di più di una colonia di ex nemici.





Ai ventidue eliporti già funzionanti, dunque, ora se ne vogliono aggiungere altri, uno dei quali ad appena 400 metri dalla prima abitazione civile. Nelle dighe della regione, di fondamentale importanza per l’approvvigionamento idrico, nel 2007 furono trovati i resti di 10.000 munizioni sparacchiate qua e là. I centosessanta abitanti del villaggio di Takae, sul cui territorio si stende la foresta recintata dagli americani, a partire dal 2006 vengono raggiunti da persone inviperite contro l’occupazione, giunte un po’ da tutto il Giappone (i militari americani, purtroppo, non sono solo a Okinawa). E, alla giapponese, protestano. Non con lanci di bottiglie molotov alla polizia, né con pietrate Italian style, ma con educati sit-in e tanti bei cartelli dal messaggio chiaro: ANDATEVENE. Gli americani, però, sono protetti dalla legge giapponese, per cui chiunque violi i loro confini rischia la prigione e un processo in loco. E così è stato per quindici residenti di Takae e alcuni sostenitori, tra cui un pericolosissimo bambino di otto anni, arrestati nel 2008. Poi rilasciati, sono stati processati. Due sono stati condannati, ma non sono finiti in prigione. Il loro villaggio, sparpagliato fra gli alberi della foresta, è divenuto il simbolo del movimento di indipendenza, meta di pellegrinaggio di sostenitori giapponesi e internazionali. Le porte di accesso agli eliporti sono tappezzate di poster tardo-hippy nel migliore stile Yankees go home!, e un paio di presidi permanenti - tende con punti di informazione - vedono il viavai di volontari che si danno il turno incessantemente. Tenete duro, ragazzi.





DUE ASSOCIAZIONI DA CONTATTARE, PER CHI VUOLE AIUTARE:

No Helipad Takae Resident Society

Citizen's Network for Biodiversity in Okinawa
CERCATE, GUARDATE


- Il documentario Standing Army (2010), del romano Thomas Fazi:




un documento eccellente sulle basi americane a Okinawa e nel resto del mondo, Vicenza inclusa.
Vi aprirà gli occhi.

- il documentario The target village, in giapponese con sottotitoli in inglese:


il film-documento 'Love Okinawa'



AGGIORNAMENTO AL 15 MARZO 2012

Ieri, presso il tribunale di Naha, si è riunita la commissione per giudicare gli ultimi due facinorosi di Takae con qualche accusa formale pendente in seguito alle proteste di tre anni fa. Uno degli accusati è stato prosciolto, l'altro permane sotto accusa. All'ingresso del tribunale una folla di supporter & reporter, in attesa del verdetto. Dopo il proscioglimento si è tenuta un'affollata conferenza stampa. La sensazione è che il governo giapponese, dichiaratamente filoamericano (la paura dei comunisti è più forte della gratitudine per le atomiche), non voglia usare la mano pesante contro l'opposizione interna, peraltro del tutto non violenta. Allo stesso tempo, però, non vuole lasciar passare l'idea che protestare contro le sue decisioni sia un atto tollerabile. Ipocrisia a tutto spiano, insomma. Qui di seguito qualche immagine della giornata di ieri.























AGGIORNAMENTO al 19 luglio 2012:

camion e gru al lavoro per distruggere la foresta, legnate in corso!
correte e aiutate a proteggere Takae!!!!



da Un italiano a Okinawa


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